SULLA SIRIA NUOVI ACCORDI DI ASTANA. Attuale situazione geopolitica nella regione.

SULLA SIRIA NUOVI ACCORDI DI ASTANA. Attuale situazione geopolitica nella regione.

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La situazione nella regione mediorientale è sempre più complicata. Tracciare le linee geopolitiche attuali è difficile. Di seguito una lucida analisi di un esperto conoscitore della regione. Gli accordi di Astana: saranno tutti implementati? Personalmente …penso di no….

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

1.Il sei maggio il ministero degli esteri russo pubblica il testo del nuovo accordo per il cessate-il-fuoco in quattro zone della Siria, firmato tre giorni prima ad Astana da Iran, Russia Siria e Turchia.

L’accordo prevede il cessate-il-fuoco dalla mezzanotte del sei maggio e riguarda: “la provincia di Idlib e parte delle vicine province (Aleppo, Latakia e Hama), alcune aree nel Nord della provincia di Homs e Ghouta (sobborgo di Damasco Est) e alcune zone nel Sud della Siria (le province di Daraa e Quneitra)”.

L’accordo prevede nuove misure di sicurezza: garanzie di incolumità per i profughi di passaggio e un’area di protezione per la zona controllata dai kurdi nel Rojava.

Tra i firmatari dell’accordo mancano gli USA, il cui presidente comunque – rivela il giornale della confindustria russa, “Kommersant” – ha più volte telefonato al suo omologo russo ripristinando i contatti interrotti dal bombardamento americano del 7 aprile alla base aerea di Shayrat, vicino a Homs, in Siria.

L’iniziativa del presidente Trump ha un’immediata eco nei contatti telefonici di Joseph Dunford, Capo di Stato Maggiore dell’esercito americano, con il suo omologo russo Valery Gerasimov.

Dal colloquio emerge che gli USA sono pronti a riprendere lo scambio di informazioni tra i due eserciti e a “continuare a lavorare su misure supplementari per prevenire conflitti nelle operazioni militari contro Daesh e Fatah al Sham (già Jabhat al Nusra)”, come riferisce in un comunicato ufficiale il ministero della difesa russa.

Secondo Alexander Fomin, vice ministro della difesa russa, l’accordo di Astana avrebbe ricevuto l’assenso di altri importanti attori della regione, come Israele e Arabia Saudita.

2.In realtà non è proprio così.

Già il 10 maggio, il Fronte Tahir al-Sham, guidato da Fatah al-Sham, minaccia i gruppi armati partecipanti al vertice di Astana se dovessero aderire al cessate-il-fuoco.

E questo perché se l’accordo di Astana prevede la cessazione di attacchi aerei del governo siriano e dell’aviazione russa nelle quattro safe zone previste, questo non vale per Fatah al Sham e i combattenti.

Eppure i qaedisti minacciati, già duramente colpiti dalla vendetta di Fatah al Sham dopo la decisione di aderire al tavolo di Astana, pochi giorni prima avevano contattato il governo siriano ed evacuato il campo profughi palestinese di Yarmouk in Siria, dove dei 180 mila profughi sono rimasti solo 18 mila, a seguito dell’arrivo dei miliziani qaedisti tre anni addietro.

In effetti, il caotico fronte delle opposizioni, obbedienti a diversi attori, non ha limiti e confini precisi e le opposizioni inviate a Ginevra e Astana – tra i gruppi che hanno stretto alleanze con i qaedisti – non hanno ancora ufficialmente aderito all’accordo, che non è diretto a loro né a Damasco, ma ai tre Paesi sponsor. In altri termini, il governo siriano ha dato la sua adesione, ma l’ampio spettro di opposizioni non ha fornito elementi chiari in merito. Va sottolineato che il Fronte anti-Assad è diviso su altri piani.

La Turchia non ha nascosto l’ira per la decisione dell’amministrazione statunitense di fornire armi alle YPG kurde. Due giorni fa, infatti, il presidente americano ha approvato l’invio di armamenti (bulldozer, veicoli blindati, mitragliatrici, munizioni e radio) ai combattenti kurdi a capo della federazione multietnica e multiconfessionale delle “Forze Democratiche Siriane” (SDF).

Dietro sta la volontà di riprendere Raqqa, la “capitale” di Daesh, ormai circondata dalle SDF che il 10 maggio hanno annunciato la liberazione totale di Taqba, strategica località a Ovest di Raqqa, che taglia ogni via di fuga e trasferimento di Daesh verso Nord e verso l’Ovest.

La rabbia della Turchia non s’è fatta attendere: “Spero davvero che si tratti di un errore che sarà modificato subito”, ha detto il presidente turco Erdogan. Ankara accusa gli USA di armare un gruppo legato al PKK, che poi potrebbe usare quelle armi contro l’esercito turco.

Esercito che è presente da agosto a Rojava nel Nord della Siria e che prosegue negli attacchi alle YPG, nonostante siano chiaramente appoggiati dall’alleato USA.

Ovviamente, Ankara sa che gli USA abbandoneranno le istanze kurde subito dopo che Raqqa sarà liberata. E Erdogan potrà proseguire l’uccisione dei kurdi – che considera terroristi – per frammentare la Siria con un corridoio lungo il confine che intende ripulire dal progetto di confederalismo democratico ideato da Rojava.

Inoltre, un rapporto della Sicurezza Israeliana, pubblicato sul quotidiano Maariv, afferma che “le decisioni assunte ad Astana rappresentano un inutile tentativo per la soluzione del conflitto in Siria… Israele, nonostante l’entrata in vigore dell’accordo, non lo osserverà e continuerà con i suoi raid aerei contro attività considerate terroristiche nei suoi confronti”.

Tel Aviv è cosciente del fatto che la creazione delle zone di sicurezza pone seri problemi alla prosecuzione dei suoi piani di destabilizzazione nel conflitto siriano per due motivi:

  • il primo è il divieto per gli aerei della coalizione internazionale e per quelli israeliani “di poter operare nelle zone di sicurezza in Siria”. E in effetti “Le operazioni dell’aviazione nelle zone di sicurezza, in particolare quelle della coalizione, non sono assolutamente previste, tranne quelle contro Daesh”, dichiara l’inviato speciale russo per la Siria, Alexander Lavrentiev. Lo stesso faranno l’aviazione russa e quella siriana che, secondo il capo delle forze armate russe, Serguei Rudskoi, non sono più operative dai primi di maggio” purché non ci sia più alcuna attività militare nelle aree sicure, al fine di garantire una tregua duratura in queste zone”;
  • il secondo punto riguarda il posizionamento, legittimato dagli accordi, di truppe iraniane nelle aree: una delle quattro zone (Idlib, Deraa, Homs e Ghouta orientale periferia Est di Damasco), sarà quella meridionale di Deraa proprio a ridosso delle Alture del Golan e del confine con Israele. Tel Aviv ritroverebbe vicino ai suoi confini, grazie a un accordo internazionale sostenuto anche dall’ONU, quello che ha cercato di evitare in tutti questi anni: i pasdaran iraniani.

Fondamentale, comunque, sarà la posizione degli USA: l’amministrazione americana ha accolto la notizia dell’accordo con prudenza, sostenendolo purché riesca “a ridurre realmente la violenza in Siria”.

Secondo i media israeliani, invece, nonostante gli USA possano appoggiare questo accordo da un punto operativo con Mosca, di sicuro “non rinunceranno a sostenere tutte le fazioni ribelli moderate”.

Affermazioni che trovano fondatezza nelle operazioni militari che gli USA stanno portando avanti nella zona di confine tra Siria e Giordania. Infatti, il 7 maggio è iniziata l’esercitazione militare Eager Lion che vede impegnate, sotto il comando americano, oltre 7.550 militari provenienti da 20 Paesi, principalmente europei, africani e dei Paesi del Golfo.

La Giordania, pur essendo stata invitata per la prima volta ai colloqui di Astana come Paese “osservatore”, ha dichiarato che proseguirà nella sua politica di contrasto per la crisi siriana e per difendere il proprio Paese da terrorismo.

“La Giordana non ha firmato gli accordi di Astana sulle Safe Zone, ha dichiarato l’8 maggio il portavoce del governo giordano, Mohammed al Moemeni, e difenderà con qualsiasi mezzo le sue frontiere in caso di necessità”.

Media vicini alle agenzie di stampa siriane (Sanaa, Al Mayadeen) affermano che in caso di necessità la Giordania potrebbe invadere la Siria nella zona di Al Tanf, posizionando una nuova milizia, il gruppo Maghawir Al Thawra, creata e armata dagli americani sia contro Assad che contro Daesh.

Nella stessa giornata dell’8 maggio, il ministro degli esteri siriano, Walid Al Mouallem, ha avvertito la Giordania che qualsiasi azione militare in Siria senza l’avallo di Damasco, sarà considerato come “atto ostile”.

Al ministro fa eco Hezb’Allah: “chiunque violerà i confini siriani, pagherà un caro prezzo e sarà considerato un possibile bersaglio” afferma un suo comunicato stampa diffuso il 10 maggio.

Le priorità di Damasco sono quelle di riconquistare tutte le località meridionali confinanti con Giordania e l’Iraq, per ricongiungere le proprie truppe che combattono contro Daesh (gruppo Khalid Ibn Al Walid), con quelle irachene delle Hashd Shaabi (Unità Mobilitazioni Popolari, truppe multiconfessionali di Baghdad) per creare un fronte comune in difesa della frontiera meridionale.

3.

C’è anche da considerare che diventa sempre più alta la tensione lungo il confine tra Libano e Israele, enfatizzato dai media israeliani che continuano a evocare la prossima guerra, la terza, tra l’esercito israeliano ed Hezb’Allah.

Ne parla anche Hassan Nasrallah, segretario generale del movimento sciita, che in un recente discorso sulla situazione attuale, dichiara: “Israele continua con la propria propaganda colonialista e di aggressione… dopo l’investitura di Trump gli israeliani dimostrano che hanno bisogno del permesso americano per scatenare una nuova guerra contro il Libano”.

Nasrallah lancia un chiaro avvertimento allo Stato israeliano, dopo le recenti violazioni e provocazioni di Tel Aviv.

Il messaggio è utilizzato anche per ribadire che la resistenza libanese è pronta: “il sostegno americano e quello arabo per una guerra contro il Libano non è mai stato tanto forte visto che alcuni Paesi arabi (Arabia Saudita e Qatar) sono pronti a pagare i costi di questa guerra”.

Se i media israeliani quotidianamente narrano di un conflitto molto vicino, un rapporto del quotidiano Haaretz indica il rischio di una possibile sconfitta rimane molto alto.

Haaretz afferma che l’arsenale del movimento sciita ha oltre 130 mila missili di nuova produzione iraniana e russa, con una gittata dai 40 ai 300 kilometri: una potenza di fuoco in grado di colpire qualsiasi obiettivo in tutto lo Stato ebraico. Analisi che trova l’accordo del Centro Studi per la Sicurezza Israeliana, che indica Hezb’Allah come una “minaccia seria e pericolosa” con i suoi droni, i suoi “commandos”, abituati a qualsiasi tipologia di combattimento dopo sei anni di guerra in Siria, i suoi missili terra-aria che sono, per la prima volta, una concreta minaccia contro aviazione e marina israeliana. Proprio per questo motivo le forze israeliane stanno continuando a costruire muri di protezione lungo il confine settentrionale e hanno avviato una serie di esercitazioni che coinvolgono la Marina per il rischio di incursioni anche via mare.

Non sembrano, quindi, inverosimili le parole di Nasrallah quando afferma che “Hezb’Allah è in grado di poter rispondere a qualsiasi attacco israeliano e di contrattaccare con qualsiasi mezzo” se verrà superata la “linea rossa di tolleranza del conflitto”. Il segretario si riferisce anche a possibili obiettivi come le riserve di ammoniaca di Haifa o altri “target sensibili” nel caso in cui venissero attaccati di nuovo tutte le infrastrutture e i civili libanesi, come avvenuto nel 2006.

Anche il presidente della Repubblica, Michel Aoun, ha affermato in una recente intervista sul canale LBC che il suo Paese “non tollererà più nessuna aggressione israeliana contro il territorio libanese” aggiungendo che “Hezb’Allah e la Resistenza Libanese sono una risorsa complementare a quella dell’esercito libanese per la difesa dei confini nazionali” (nota già scritta nel precedente articolo in materia).

Nello specifico, Aoun si riferiva alle polemiche relative alla lettera inviata da Tel Aviv all’ONU circa una violazione della Risoluzione 1701 da parte delle autorità libanesi proprio per il continuo riarmo delle milizie sciite. Come risposta ufficiale a una “simile e infamante accusa”, il presidente Aoun in un comunicato ha dichiarato che al contrario è “lo Stato ebraico a infrangere tutti i vincoli della Risoluzione 1701 da oltre 10 anni, con continue ingerenze, attività di spionaggio, sconfinamento oltre che la mancata restituzione di parte del territorio libanese (fattorie di Sheba) “.

Infine, in merito alla questione palestinese, sia Nasrallah sia Aoun concordano sul fatto che il processo di pace in Palestina sia definitivamente “seppellito” dopo l’incontro fra Trump e Netanyahu, visto che “Tel Aviv non si immagina più uno Stato palestinese indipendente, continua da decenni a colonizzare, distruggere case e terreni agricoli e non ha mai preso in considerazione il rientro dei rifugiati da Paesi limitrofi della Palestina”.

Nasrallah, a conferma dell’ormai solida alleanza regionale tra sauditi e israeliani, sottolinea che “gli arabi hanno liquidato la questione palestinese e molti Paesi del Golfo si affrettano a normalizzare le loro relazioni con Israele dimenticando le sofferenze del popolo palestinese”.

Lo stesso Aoun ha irritato recentemente alcuni Paesi della Lega Araba – succubi dell’egemonia saudita – dopo aver evocato “la protezione di Gerusalemme da parte dei Paesi arabi e la necessità di sostenere la Resistenza palestinese contro il progetto israeliano”.

Non può mancare in questo contesto la programmata visita del presidente Trump a Riyadh il 19 maggio – giorno delle elezioni presidenziali iraniane – per due obiettivi: un investimento da parte saudita di 40 miliardi di dollari in progetti strutturali negli Usa; accordi per la vendita di armi USA al re saudita Salman per un totale di 100 miliardi di dollari.

L’armamento è costituto da navi, sistemi di difesa aerea e jet e l’impegno a vendere altri 300 miliardi di dollari a Riyadh nei prossimi 10 anni.

La data della visita e gli accordi già comunicati ai media sono chiaramente diretti all’Iran e a Israele, per depotenziare l’Iran e rassicurare Israele.

4.Che sta succedendo a livello geopolitico?

In realtà la probabile caduta di Mosul e Raqqa non costituirà la fine di Daesh che, dopo l’attacco anglo-americano all’Iraq nel 2003, ha acquisito gli ufficiali più valenti dell’ex esercito di Saddam Hussein.

Daesh riguarda due possibili target: l’assalto all’Europa, iniziato con le stragi in Francia nel 2015 e le contrade più remote del Sinai egiziano.

In questo contesto, le iniziative del presidente americano sembrano più orientate al Libano, atteso che la “questione Israele – Territori Occupati Palestinesi” è nei fatti superata.

Un sintetico panorama inizia dal Sinai, dove i miliziani di Daesh sono in grado di tenere a bada l’esercito egiziano difendendo la loro roccaforte del Monte Jabal Halal, nel cuore della penisola.

Infatti, il complesso difensivo è attraversato da una ragnatela di gallerie sotterranee, che comunque gli americani potrebbero distruggere con super-bombe GBU-43B, uccidendo i jihadisti e quanti altri si possano trovare nei pressi, anche se civili, i noti “effetti collaterali”.

L’alternativa sarebbe un attacco con i missili da crociera, di cui hanno discusso il generale Al-Sisi e lo stesso Trump lo scorso 3 aprile. Il capo del Pentagono, James Mattis, però non ha ancora dato il via libera, senza pensare che il tempo sarebbe stato favorevole ai jihadisti di Daesh per riorganizzarsi. Di fatto, è accaduto che il leader di Daesh hanno preso contatti con le cellule beduine presenti nella zona.

Considerato che ogni tribù è composta da 100 mila persone e che nel Sinai ce ne sono una decina, i jihadisti hanno formato nuove brigate creando un esercito più omogeneo.

L’obiettivo potrebbe essere quello di organizzare un’ondata di attacchi terroristici al Golfo di Aqaba (Sharm el-Sheik?) e sul Mar Rosso, colpendo i gangli vitali dell’economia turistica egiziana. Ma è a rischio anche il porto israeliano di Eilat.

In ogni caso, tutta la fascia costiera che arriva fino a Ras Mihamad e lo stesso centro di Aqaba potrebbe essere un bersaglio importante per destabilizzare il settore terziario del sistema produttivo giordano.

L’emergenza ha fatto rafforzare la collaborazione fra i servizi segreti di Gerusalemme e del Cairo. Gli israeliani hanno chiuso immediatamente il varco di Taba, controllando tutti gli egiziani che avevano chiesto di recarsi nel Mar Rosso, temendo infiltrazioni terroristiche.

E, fra l’altro, l’intelligence estera israeliana (Mossad) è convinta che l’attacco al Monastero di Santa Caterina rappresenti una sorta di esperimento sul campo della nuova dottrina di Daesh.

E ritorniamo al Libano.

Perché il vero problema per Israele è il fatto che, da tempo, Assad ha affidato il suo esercito all’Iran. Le forze armate siriane obbediscono a Suleimani, l’invincibile generale comandante delle Brigate Al Quds, operante sin dall’attacco iracheno – mandato e armamento USA – contro l’Iran nella prima guerra del golfo iniziato nel 1980 contro la neonata Repubblica Islamica

Le forze siriane obbediscono a Qassem Soleimani, generale, capo delle Forze al Quds, élite delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane, create dalla Guida Suprema Ayatollah Ruhallah Mosavi Khomenei nel 1980 e finita 8 anni dopo.

Suleimani non ha mai dimenticato quella guerra né le altre scatenate dagli USA in Afghanistan nel 2001, Iraq ne 2003 e Libia nel 2011.

Del generale si sa che nell’aprile 2016 si è recato a Mosca per organizzare le operazioni congiunte Russia, Iran, Siria mentre l’Iran inviava ad Aleppo un contingente di paracadutisti.

Nel settembre dello stesso anno, il generale ha coordinato ad Aleppo le sue Forze Al Quds con i miliziani siriani di Harakat al Mujabe.

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