La guerra tra Israele e Hamas. Una difficile soluzione da trovare all’ombra di un’inesistente Autorità palestinese.

La situazione è molto complicata e la sua soluzione sembra lontana. L’unica possibile sarebbe la creazione di uno Stato palestinese ma ci si domanda: chi poi lo sosterrà e di fatto lo gestirà, aiutandolo economicamente?

 Il Direttore scientifico 

Maria Gabriella Pasqualini

Israeli-Palestinian conflict concept.

Mentre la guerra tra Hamas e Israele continua, con il governo Netanyahu deciso a proseguire nella sua strategia per un totale annullamento delle capacità del nemico, in quest’ultime settimane assistiamo ad una maggiore divaricazione del parallelismo tra le posizioni degli israeliani e quelle dell’Amministrazione americana registrate nei mesi scorsi. Segnali che la Casa Bianca è impegnata nel cercare di sviluppare scenari per il “giorno dopo”, che prima o poi arriverà.

Se c’è concordanza sulla necessità di neutralizzare la capacità di Hamas, le posizioni si discostano con riguardo alla posizione postbellica della Striscia di Gaza e sul destino dei palestinesi. 

Visioni diverse che stanno complicando la definizione di una tregua tra le parti, anche perché ci sono molte variabili da considerare, compresi i calcoli elettorali di Biden per le prossime elezioni presidenziali e la sopravvivenza politica di Netanyahu. 

Seppur sotto traccia, la Casa Bianca è concentrata nel cercare di arrivare ad una normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, per cercare di creare un fronte unito tra i Paesi del Golfo e convincerli a contribuire alla ricostruzione postbellica di Gaza. Nel contempo, sta agendo sulla parte israeliana per convincerla ad accettare un cessate il fuoco e consentire ad un nuovo Governo palestinese di gestire sia la Cisgiordania, sia Gaza.

I punti principali oggetto delle tensioni tra le parti e dell’impasse che si protrae, sono essenzialmente riconducibili a quattro: in primis riuscire ad assicurare gli israeliani che, una volta cessata la guerra, Gaza non verrà mai più utilizzata come base per gli attacchi terroristici contro Israele. 

Altresì fornire garanzie ad Israele sulla propria integrità e sicurezza. Per contro, si dovrà arrivare ad una pace allargata tra Israele ed i paesi della regione. Ultimo punto, il più spinoso e complicato, riguarda la creazione di uno Stato per i palestinesi. 

In tale scenario, non aiuta l’atteggiamento di Israele e la sua sistematica politica di allargamento degli insediamenti, comprese le demolizioni e gli sfratti forzati.

L’approccio americano dunque mira ad allargare il fronte regionale per arrivare ad un percorso condiviso, con l’obiettivo di dare dignità al popolo palestinese. È chiara la convinzione che solo creando un’integrazione regionale partecipativa ed inclusiva si potranno prendere impegni condivisi in materia di sicurezza a vantaggio anche di Israele, soprattutto in chiave anti-iraniana e dei suoi accoliti che in questo periodo stanno creando non pochi problemi.

Un altro obiettivo della Casa Bianca è quello di rivitalizzare l’Autorità Palestinese in disarmo e con alla guida Mahmoud Abbas, conosciuto anche con la kunya Abu Mazen, un anziano leader di 88 anni, stanco e sempre più marginalizzato. 

Siamo tornati indietro di vent’anni, ai primi anni duemila, allorquando gli americani hanno cercato di riprogettare la politica palestinese e cercare di contenere il potere di un leader carismatico come Yasser Arafat

L’Autorità Palestinese, che ha supervisionato parti della Cisgiordania occupata da Israele dalla metà degli anni novanta, è dominata da Fatah, partito politico laico che è stato fondato dalla diaspora palestinese dopo la Nakba, la catastrofe del 1948. L’Autorità è il frutto degli accordi di Oslo tra il Governo israeliano e l’OLP di Arafat.

Quegli accordi sono oramai a brandelli e non rispettati dalle parti, con i tristi risultati che vediamo ogni giorno.

E questo è il problema: convincere Israele che un’Autorità palestinese snella e moderna, con una nuova classe dirigente capace, sia in grado di assumersi appieno la responsabilità di governare la striscia di Gaza e fornire tutte le garanzie di sicurezza ad Israele. 

Compito decisamente complicato, anche perché individuare un adeguato successore di Mahmoud Abbas non è certo semplice.

È utile ricordare che, da quando ha assunto il potere, il Presidente Abbas non ha nominato un proprio Vice, nella considerazione che la Costituzione palestinese prevede che, se il Presidente è assente per qualsivoglia motivo, il Presidente del Consiglio legislativo assuma il potere per un periodo di due mesi. Da più di 18 anni non vengono svolte le elezioni presidenziali e parlamentari; le ultime indette 3 anni fa sono state rinviate con il pretesto che Israele non permetteva di espletare il diritto di voto agli abitanti di Gerusalemme ma in realtà è stato un escamotage per evitare una prevedibile sconfitta di Fatah.

Per affrontare il tema della successione si possiamo prevedere 3 scenari: il primo, il più indolore ed auspicato, è un ritorno nell’alveo delle regole democratiche con l’indizione delle elezioni presidenziali e legislative, garantendo il rispetto della legittimità. 

Il secondo scenario potrebbe configurarsi con la scelta da parte di Abbas del proprio successore imponendolo, de facto, a Fatah. Entrambi gli scenari non escluderebbero il verificarsi di un terzo, il più nefasto, nel caso in cui si verificasse un crollo del potere dell’Autorità palestinese dopo l’addio di Abu Mazen, con il rischio d’imprevedibili spirali di violenza.

Nell’estrema fluidità della situazione, proviamo ad individuare alcuni possibili candidati alla leadership dell’Autorità Palestinese post Abbas, comunque tutte creature di Fatah, cresciute all’interno di un apparato che non è monolitico, bensì frastagliato in varie correnti. Nomi noti nei resoconti delle cancellerie diplomatiche straniere ed israeliana ma anche arabe, in particolare quella egiziana e giordana.

Si segnala Hussein el Sheikh, Capo dell’Autorità generale per gli affari civili, da qualche tempo Segretario del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione. Altre figure preminenti sono Mahmoud el Aloul, Vicepresidente di Fatah e Gabriel Rajoub, il fondatore del Servizio di sicurezza preventiva, Capo della Federcalcio e del Comitato Olimpico. 

Tra i possibili successori, non manca un ambasciatore, Nasser el Qadwa, già rappresentante della Palestina presso le Nazioni Unite, ed un esponente dei servizi segreti Majjid Faraj, Direttore dell’Intelligence.

Il rapido excursus della situazione interna ed esterna alla Palestina pone in evidenza un quadro  disarmante nella sua tragicità ed il tempo delle decisioni difficili non può più essere procrastinato. Decisioni che obbligheranno tutte le parti in causa ad assumersi rischi e a dover cedere ed ammorbidire su alcune posizioni considerate capisaldi irremovibili. Solo così si potrà sperare per una duratura stabilità regionale, anche perché non sussistono altre vie.  

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