COALIZIONI CONTRO DAESH. CHI COMBATTE CHI

Il Medio Oriente....attuale....

Il Medio Oriente….attuale….

Una chiara prospettiva per comprendere chi sta con chi o contro chi. Chi si combatte? E’ vera e sola guerra contro lo Stato Islamico o c’è dell’altro?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

E’ di recente utilizzo il termine “Coalizione” in sostituzione dell’obsoleta “missione di peace keeping”, singolari ossimori del preciso termine : guerra.

A livello mediatico funziona grazie a orchestrate campagne di disinformazione diffuse nel mondo intero per mascherare la devastazione di Paesi e l’altissimo numero di morti e vittime civili, indicate come: “danni collaterali”.

Anche i termini inerenti all’armamento sono cambiati: i missili sono definiti “bombe intelligenti”, i bombardamenti sono sempre “selettivi” e le uccisioni extragiudiziali sono “missioni mirate”.

Questi interventi “di gruppo” sono presentati come inevitabili contro le minacce e gli attentati terroristici che distruggono le aspirazioni di pace e di sicurezza anelata da quei Paesi che scatenano i conflitti.

Il terreno recita un’altra narrazione in merito ai risultati delle Coalizioni come si può constatare da eclatanti esempi anche dei soli ultimi due decenni con gli interventi in Yugoslavia (1994), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011), Siria (2012), tuttora in corso mentre in Yugoslavia il vero obiettivo dell’attacco è stato raggiunto: il Paese è parcellizzato in micro-Stati fra di loro confliggenti.

Attualmente, le crisi di maggiore valenza geo-strategica sono due: Siria e Daesh.

In Siria le prime manifestazioni a marzo 2011 sono disarmate e guidate da attivisti non solo giovani miranti a ottenere la fine della legislazione di emergenza, il rilascio dei detenuti politici e una più equa re-distribuzione delle risorse.

Queste proteste attivano l’immediata mobilitazione in seno alla comunità internazionale soprattutto in quei Paesi interessati al più volte citato “Progetto del Grande Medio Oriente” di matrice statunitense.

Viene subito creato il “Gruppo degli amici della Siria”, il cui obiettivo è quello di replicare il collaudato “metodo libico” lanciando due campagne, l’una mediatica per delegittimare il regime siriano, la cui minoranza alawita (sciita) opprime la maggioranza sunnita e le opposizioni, e l’altra per supportare politicamente e logisticamente la parte più radicale della popolazione insorgente.

Come fatto in Libia, il Gruppo riconosce come “legittimo rappresentante della popolazione siriana”, la quale subito si divide fra coloro che non chiedono l’estromissione del presidente e non sono armati, e coloro che, con adeguato supporto anche di armamento proveniente da alcuni Paesi del Gruppo, mirano alla caduta del regime.

Fra i numerosi “amici della Siria” i più attivi sono la Francia, già presente in Siria dal 1916 dopo gli accordi di Sykes e Picot, la Turchia, la cui attuale leadership mira ad assumere un ruolo egemonico nell’area, e l’Arabia Saudita, interessata a spezzare la “mezzaluna sciita” composta di Iran, Iraq, Libano con Hezb’Allah e Siria.

Supporti logistici, con facilitazione di libero passaggio transfrontaliero e alloggi, e armamenti contribuiscono anche alla crescita e radicalizzazione dell’ala qaedista presente in Siria e nel confinante Iraq, che avrebbe dato vita al nuovo soggetto terroristico, Daesh.

Il passaggio del “Gruppo degli amici della Siria” alla Coalizione anti-Daesh a guida USA è coerente e conseguenziale.

Per quanto riguarda la guerra a Daesh è singolare la posizione della Turchia, già alleato di Damasco fino all’’inizio delle manifestazioni di protesta.

Membro della NATO e parte di due Coalizioni contro Daesh, quella a guida USA, con 60 Paesi avviata nel settembre 2014, e quella con l’Arabia Saudita, con 34 paesi islamici formata a dicembre 2015 e pronta al coordinamento con la Coalizione a guida USA.

La Turchia, forte dell’appoggio NATO, in chiave anti-Russia, anche dopo averne abbattuto un aereo uccidendo uno dei piloti a ferendone il secondo perché avrebbe oltrepassato il suo spazio territoriale, è sostenuta anche dall’EU per avere ricevuto quasi 2 milioni di profughi per il cui sostentamento l’EU ha disposto il versamento ad Ankara di 3,1 miliardi di euro.

Interrotto unilateralmente il dialogo iniziato nel 2013 con il “Partito dei Lavoratori Kurdi” (PKK), la Turchia avvia una campagna militare contro militanti del PKK e tutte le altre formazioni curde, politiche e no, sospettate di connivenza con il PKK, ritenuti “terroristi” al pari di Daesh.

La sola differenza fra curdi e Daesh è che la guerra contro i curdi non ha sosta mentre quella contro Daesh è quasi nulla.

Nel Sud-Est del Paese, assedi, coprifuoco e attacchi contro i curdi sono quotidiani, con il bilancio di morti, feriti e distruzioni che costringono allo sfollamento – quando possibile – di migliaia di abitanti.

Attenzione è rivolta anche all’area autonoma di Rojava, nel Kurdistan siriano, che la Turchia teme possa coinvolgere anche i curdi turchi e iracheni.

In conseguenza, la Turchia, senza preoccuparsi di violare la sovranità dell’Iraq, bombarda costantemente le montagne di Qantil, nel Nord dell’Iraq, dove sono le basi del PKK oltre a inviare truppe nella base militare di Bashiqa, vicina a Mosul.

Dopo gli attentati ad Ankara e Dyarbakir (17 e 18 febbraio) contro militari, non ancora rivendicati, la Turchia ne attribuisce la colpa al PKK e ai militanti dell’ “Unità di difesa popolare” (Pyg), braccio armato del ”Partito dell’ Unione democratica”, e bombarda pesantemente il Nord dell’Iraq uccidendo oltre 70 combattenti e il Nord della Siria.

Nel silenzio della comunità internazionale, disinteressata anche delle deboli proteste di Iraq e Siria, è paradossale l’attacco al Pyg.

Considerato un partner dagli USA nella lotta contro Daesh, i militanti del Pyg sconfiggono Daesh nelle zone rurali a Est, nelle province di Latakia, Homs, Damasco e Der’a, e sconfiggono anche Al Nusra a Marymayn, dove c’è la base di Menagh, strategico punto di partenza verso Ovest.

I combattenti di Pyg sono anche vicini a conquistare il territorio che da A’Zaz, nel Nord della Siria, arriva ad Aleppo e il valico di Bab al-Salama, ancora nella mani di Daesh e dove stanno arrivando dalla Turchia migliaia di formazioni “moderate” e “islamiste” perché sono i principali punto di transito degli aiuti turchi alle opposizioni moderate e no.

Anche in merito a questi ultimi eventi, il terreno mostra una realtà diversa da quella riferita dai turchi.

Mentre i militanti di Pyg continuano ad avanzare nonostante i bombardamenti subiti dalla Turchia, è singolare la proposta turca di creare – per motivi umanitari – una “safe zone” in territorio siriano, lunga larga 10 km che includa anche la città di A’Zaz.

La presa di Aleppo, A’Zaz e Bab al-Salama determinerebbe non solo il ridimensionamento di Daesh e opposizioni ma anche il contesto ideale per la ripresa della via negoziale.

In altri termini: ma chi combatte chi?

Un Asse formato da Arabia Saudita, Israele e Turchia, subito dopo le vittorie del Pyg, senza alcun ostacolo da parte degli USA, preparerebbe un piano opposto all’obiettivo dichiarato dalle Coalizioni.

Almeno questo sembra la prima reazione dell’Asse che minaccia un intervento di terra in Siria da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Turchia, con l’appoggio del ministro degli esteri del Qatar, sotto l’ombrello della lotta a Daesh.

Ma è davvero Daesh l’obiettivo?

In realtà, la Turchia teme che i curdi del versante siriano vengano schierati lungo il confine, da Hasaka a Idlib fra Jarablus e A’Zaz.

Gli USA vogliono la lotta a Daesh ma anche che le forze arabe islamiche si sostituiscano a Daesh nelle aree attualmente occupate dai loro militanti nell’Ovest dell’Iraq e in Turchia orientale, il che significherebbe creare un forte ostacolo alla mezzaluna sciita e a quanti ne sostengono la resistenza: Iran, Siria, Hezb’Allah, curdi siriani delle Pyg.

In altri termini, l’impegno degli USA potrebbe sottrarre territori a Daesh in Siria e Iraq e dividere entrambi i Paesi con fatti compiuti, garantendo a livello geo-politico il proseguimento di una situazione incontrollabile di guerra infinita.

Comunque gli USA non intendono arrivare a uno scontro militare con la Russia, che è pronta a una guerra totale se Turchia e Stati del Golfo entrassero in Siria.

E la Turchia non è in grado di contrastare la Russia senza la copertura di NATO e USA, ma gli americani non intendono schierare migliaia di soldati sul terreno in Siria e Iraq.

Gli Stati Uniti, inoltre, sanno che la Guida Suprema iraniana Sayyed Alì Khamenei è pronto a schierare decine di migliaia di soldati in Siria e Iraq per moltiplicare quelli che da tempo vi sono.

Questa è la strategia delle Brigate Qods delle Guardie Rivoluzionarie guidate dal generale Qassam Suleiman che entrerebbero subito in campo in caso di intervento contro l’esercito siriano da parte di Forze NATO.

L’operazione suggerita dagli americani è la liberazione di Mosul e Raqqa dal controllo di Daesh ottenuta con lo schieramento di forze islamiche e arabe, ai quali gli USA assicurerebbero la copertura aerea.

La Turchia è il Paese che avrebbe maggiore possibilità perché non prese parte all’invasione dell’Iraq nel 2003 e il governo di Haider al-Abadi di fatto non reagisce alla massiccia presenza di forze turche che bombardano le basi del PKK nel Nord dell’Iraq.

Il regime saudita gli offrirebbe la protezione degli arabi.

Israele bombarda la Siria da tempo e dall’inizio della guerra civile continua a eseguire raid aerei specie sul versante siriano del Golan sia per eseguire “azioni mirate” uccidendo esponenti e militanti iraniani, sciiti libanesi di Hezb’Allah impegnati nel contrasto di Daesh, sia contro ogni convoglio siriano che ritiene possa trasportare missili per Hezb’ Allah.

Nell’Asse con USA, Turchia e Arabia Saudita Israele rientra perché è il migliore alleato degli USA, il punto di riferimento stabile nell’area, per le nuove aperture a Paesi musulmani tra cui l’Arabia Saudita e la riapertura dei rapporti con la Turchia.

L’obiettivo di Tel Aviv è la formazione di una fascia di sicurezza sul versante siriano del Golan, occupato dal 1967, lunga 23 km e profonda 10 per proteggere Israele e assicurare libertà di movimento all’opposizione armata, progetto presentato da tempo sia dal premier israeliano che dall’oppositore siriano Kamal al Labwani, medico, detenuto negli anni ’80 a Damasco, rientrato nel Paese negli anni 2000 e in contatto con Israele dal 2011, all’inizio delle prime proteste contro Assad.

In realtà pochi Paesi della Coalizione anti Daesh combattono i jihadisti e i pochi che li combattono veramente sono oggetto di orchestrate campagne di de-legittimazione colpevolizzandoli di stragi non commessi, oppure campagne militari con pesanti bombardamenti.

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Il valico di Bab Al Salam

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