Referendum curdo: vero sogno d’indipendenza dall’Iraq?

Referendum curdo: vero sogno d’indipendenza dall’Iraq?

Massud Barzani

Massud Barzani

Torniamo a scrivere del referendum curdo, che si tenne contemporaneamente a quello sull’indipendenza della Catalogna. Il territorio curdo è diviso in quattro Stati, pur avendo una sua cultura che ne caratterizza l’identità  e una sua lingua. Però dalla fine della Prima Guerra Mondiale la politica internazionale non si è mai interessata alle sorti della Nazione curda e sebbene ora l’esercito curdo abbia dato una buona spinta per la sconfitta (si spera) di Daesh, nessuno ancora ha levato la sua voce per parlare di indipendenza di uno Stato curdo.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

L’ultimo ventennio di storia dell’Iraq, che prende il nome dall’antica città sumerica di Urua (terra lungo le sponde della riva sud in aramaico antico), si può riassumere in sole cinque parole: una continua striscia di sangue.

Striscia di sangue che non s’interrompe ora che lo Stato Islamico è stato quasi del tutto debellato, giacché il Paese sta vivendo una nuova crisi che ha un nome ben definito: Kurdistan, con epicentro la città di Kirkuk.

Kirkuk, posta sul confine tra la regione curda e l’Iraq, è sempre stata un centro cosmopolita in cui hanno vissuto pacificamente curdi, sciiti, turkmeni, assiro-caldei, ebrei e cristiani ortodossi.

Per la verità, i primi scricchiolii della convivenza pacifica si verificarono allorquando i britannici tracciarono i confini post coloniali del nuovo Stato iracheno nel 1916, che divennero piccole crepe nel 1927 per la scoperta dei pozzi di petrolio.

E’ l’inizio del calvario dei curdi, a lungo perseguitati dal regime di Saddam Hussein, al pari dei turchi.

Kirkuk era e rimane il cuore pulsante dell’industria petrolifera dell’Iraq (con delle riserve calcolate in venti miliardi di barili), ma anche terra di una lenta e progressiva arabizzazione del territorio, a tutto svantaggio della popolazione curda e delle altre minoranze.

Prima del referendum del 25 settembre u.s. per l’indipendenza del Kurdistan, un terzo del petrolio dei giacimenti di Kirkuk era estratto dalla Compagnia di Stato irachena, il resto dal Governo Regionale del Kurdistan. Ora la situazione è in divenire e gli equilibri di forza destinati a modificarsi.

Il risultato del referendum (il 93% della popolazione si è espressa a favore dell’indipendenza), che ha interessato le quattro province interne della regione curda Dohuk, Halabja, Suleimaniya ed Erbil, e le tre poste lungo il confine conteso con l’Iraq Diyala, Ninive e per l’appunto Kirkuk, è stato significativo, ma non vincolante per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza.

Certo è che la situazione del Kurdistan, comunque si evolva (un’improbabile secessione oppure una maggiore autonomia), permarrà critica, soprattutto dal punto di vista economico.

Una secessione sempre più improbabile, anche alla luce della accettazione curda, seppur ancora velata e inizialmente fortemente contestata, della sentenza della Corte Suprema irachena che ha sancito, in base all’art. 1 della Carta Costituzionale, l’impossibilità della secessione di qualsiasi parte del Paese e la conseguente illegalità del referendum.

Da più di due anni oramai il Governo centrale non paga gli stipendi dei dipendenti statali curdi, così come ha ridotto il budget a disposizione dei militari curdi, i peshmerga.

I lavori di costruzione di gran parte dei progetti infrastrutturali, previsti ed iniziati dopo il 2005, sono stati rallentati o addirittura bloccati.

Non essendo il Kurdistan uno Stato internazionalmente riconosciuto, il Governo non può garantire il suo debito sovrano a dei tassi d’interesse accettabili; ciò rende la situazione economia sempre più debole ed instabile, peraltro già fortemente sbilanciata e influenzata dal prezzo del petrolio.

La situazione economica è complicata (ciò vale per tutto l’Iraq), con tutti gli indicatori economici in regressione.

Gli investitori stranieri sono in calo, costretti a confrontarsi con i grossi problemi legati alla sicurezza, a un sistema inquinato da una dilagante corruzione e ad una situazione infrastrutturale decisamente complicata.

I punti di accesso in Iraq che garantiscano uno standard minimo di sicurezza sono pochi, e ciò non è incentivante per gli investimenti.

Si contano tre aeroporti (Baghdad, Bassora ed Erbil), il porto di Bassora e, via terra, tre entrate dalla Turchia, dal Kuwait e dalla Giordania.

La situazione umanitaria è in costante deterioramento e il numero dei rifugiati, gente con un passato ma senza futuro, aumenta sempre più.

La prospettiva della creazione di due “nuovi” Stati indipendenti, alla nascita già potenzialmente “quasi” falliti dal punto di vista economico, non è rassicurante soprattutto perché inquadrati in un meridiano geopolitico molto instabile.

Nonostante il tentativo occidentale di esportare la democrazia, l’Iraq non è un Paese in cui le prerogative per una convivenza civile, secondo delle regole condivise, sono così mature da poter garantire un futuro pacifico.

Al pari della Libia o della Siria, l’Iraq è ancora sostanzialmente un Paese tribale in cui le leggi del clan sono più forti di quelle nazionali.

Il Kurdistan ne è un esempio, con la guida di Massud Barzani, leader dimissionario del Partito Democratico del Kurdistan, nonché Presidente del Governo Regionale Curdo e, soprattutto, figlio di Mustafa Barzani.

Massud è nato nel 1946 in Iran, nella cittadina di Mahabad, proprio nell’anno in cui Mustafa fondò la Repubblica di Mahabad (che però ebbe breve vita) ed il Partito Democratico del Kurdistan.

Alla morte di Mustafa, nel 1979 Massud prende le redini di un Partito Democratico in crescente contrapposizione con l’altro movimento indipendentista, l’Unione Patriottica del Kurdistan guidato da Jalal Talabani (morto lo scorso ottobre), che dal 2005 al 2014 è stato Presidente dell’Iraq.

Per completezza d’informazione, si deve menzionare un terzo Partito, oltre ai due più importanti già citati: il Partito Gorran (cambiamento), meno rilevante, con minor presa popolare, non granitico e con un futuro incerto.

E a proposito di “famiglie”, anche la Talabani ha avuto un suo peso nella storia recente in Mesopotamia. Barzani e Talabani, due veri e propri gruppi di potere politico, sociale ed economico, con apparati militari e d’intelligence al proprio servizio.

Massud Barzani nel 2005 è stato eletto per la prima volta Presidente della regione autonoma del Kurdistan, riconfermato sino alle sue recenti dimissioni e suo nipote, Nechirvan Barzani è dal 2012 e per la seconda volta Primo Ministro (primo mandato dal 2006 al 2012).

Ciò che traspare è un sedimentato nepotismo che garantisce il potere alla famiglia Barzani e che offusca la purezza di una lotta (storicamente legittima) per l’indipendentismo curdo, a vantaggio degli interessi di pochi.

Un indipendentismo quale grimaldello per fare pressione su Baghdad e ottenere ulteriori vantaggi, anche perché è evidente che una dichiarazione d’indipendenza porterebbe in dote una nuova guerra fratricida e determinerebbe un isolamento internazionale del Kurdistan, deleterio sia politicamente e sia economicamente.

Senza dimenticare l’univoco ostracismo manifestato da tutti gli attori regionali, in particolare dall’Iran e dalla Turchia (già scottata dall’attivismo di Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan e condannato all’ergastolo), ma anche dagli Stati Uniti d’America, dalle Nazioni Unite e finanche dall’Unione Europea.

E come affermato dallo stesso Massud Barzani “…tre milioni di voti per l’indipendenza del Kurdistan hanno fatto la storia e non possono essere cancellati……nessuno si è alzato al nostro fianco a parte le nostre montagne…”.

Il pericolo che le posizioni si radicalizzino però esiste, e renderebbe vano ogni tentativo di mediazione per una soluzione pacifica ed equa che non vada ulteriormente a destabilizzare l’area mediorientale, già in equilibrio precario a causa delle sollecitazioni dell’Iran, della Palestina, d’Israele, della Libia, della Siria e del Qatar.

Un’area mediorientale in cui da anni, meglio, da secoli, si scontrano troppi giochi politici e interessi economici, a fronte di poche soluzioni valide e certe.

Ed anche in questo caso bisogna riconoscere, con estrema franchezza e senza giri di parole, una semplice verità: tutto ruota attorno all’oro nero e ai personalismi politici e nessuna parte in causa può nascondersi dietro il Corano a giustificazione delle azioni intraprese.

Vedi:

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su referendum in Catalogna

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Mustafa Barzani, padre di Massud.

Mustafa Barzani, padre di Massud.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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