La Resilienza dei Gruppi Jihadisti in Nord Africa

La Resilienza dei Gruppi Jihadisti in Nord Africa

North Africa and Middle East political map

Una interessante panoramica  sulla resilienza  jihadista nel Nord Africa con accurata analisi dei singoli stati.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Otto anni dopo la caduta di Gheddafi, in Libia permane una guerra civile da poco rinvigorita dalla nuova campagna militare del “feldmaresciallo” Khalifa Haftar. La frammentazione del potere e delle istituzioni locali caratterizza il Paese dal 2011 e contrappone Tripoli a Beghazi, all’interno di un contesto fortemente influenzato da sub-conflitti tribali.

Il piano (Road Map) delle Nazioni Unite per la ricostruzione di istituzioni statali in grado di estendere la propria influenza in tutto il territorio rimane un’utopia. Il conflitto libico è per lo più caratterizzato da alleanze a breve termine tra attori locali (milizie, tribù, bande criminali), ma non possiamo sottovalutare la capacità di resilienza dei movimenti jihadisti operanti sul territorio e le loro estensioni in tutto il Nord Africa (Tunisia, Algeria, Egitto). Durante la Primavera Araba, la propaganda jihadista si diffuse oltre la Libia per raggiungere Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto e intersecarsi con altri gruppi locali estremisti già presenti.

Nonostante il terrorismo di matrice jihadista non sia un fenomeno nuovo, questi Paesi continuano a essere obiettivo di significativi attacchi. La National Oil Company e l’Alta Commissione Elettorale Nazionale a Tripoli sono state recentemente vittime di attacchi e sembra che Daesh ne sia il responsabile, anche se non è certo. I movimenti jihadisti nel Sahel stiano rafforzando la loro capacità di informazione, propaganda per attrarre nuovi affiliati. Permane quindi una seria minaccia alla sicurezza nazionale dei Paesi e per l’intera regione.

La Tunisia è un Paese profondamente colpito da crisi economica e l’adozione di programmi di revisione fiscale, richiesta di riforme strutturali per un rilancio economico voluti dalle istituzioni finanziarie internazionali non aiutano a uscire dalla crisi. Questo ha comportato, nei mesi e anni scorsi, una serie di continue proteste e disagio sociale, in cui la propaganda jihadista agisce per convincere giovani a unirsi, anche spostandosi in Libia, offrendo loro alternative al disagio socio-economico nel quale purtroppo si trovano.

Il 29 ottobre 2018, una donna, senza precedenti noti di adesioni a gruppi jihadisti secondo le autorità tunisine, si è fatta esplodere ferendo 15 agenti di polizia e 2 civili. Il governo tunisino ha ritenuto l’attentato un episodio isolato. Tuttavia questo attacco è avvenuto  a distanza di circa quattro anni dal terribile attentato al Museo del Bardo e in un periodo di ripresa per l’industria del turismo locale, settore chiave dell’economia nazionale. Il 7 marzo scorso, un ufficio postale a Tunisi ha intercettato 19 lettere indirizzate a importanti giornalisti, politici e sindacalisti tunisini contenenti tossine potenzialmente letali. Le autorità locali hanno rivelato che le sostanze sono state prodotte professionalmente in un laboratorio in Tunisia.

Ciò dimostra come il terrorismo di matrice salafita sia ancora una minaccia per la sicurezza nazionale e debba essere affrontato sia a livello nazionale che regionale, rafforzando la cooperazione tra apparati di sicurezza dei vari Paesi del Sahel e europei. Dal 2012, due tipologie di salafismo-jihadista sono emerse in Tunisia. Il primo rappresenta una minaccia al sistema politico, poiché preferendo la “street politics” alla violenza, cerca di aiutare la popolazione più povera fornendo direttamente beni di prima necessità al fine di ottenere consenso. La seconda tipologia (di cui Okba ibn Nafaâ è il principale esempio), invece, è una seria minaccia poiché ricorre alla violenza per colpire le forze di sicurezza. Entrambi cercano comunque di far cadere il sistema democratico emerso dalla Primavera Araba e di sostituirlo con un governo di ideologia salafita-jihadista.

La situazione è diversa inAlgeria. Il 10 marzo scorso, la fondazione al-Andalus di AQIM ha pubblicato un discorso audio di un importante affiliato di AQIM, Abu Obeida Yusuf al-‘Annab. Il discorso era di sostegno alle recenti proteste in Algeria contro l’ex presidente Abdelziz Boutflika, incoraggiando i manifestanti a fare pressione e chiedere la costituzione di un governo basato su norme e leggi tipiche della Shari’a.

Nonostante Algeri lotti da anni contro il terrorismo e abbia recentemente avviato diverse operazioni per prevenire l’infiltrazione di terroristi da Tunisia, Libia e Mali, la propaganda jihadista rappresenta ancora un serio problema. Sono ancora presenti cellule dormienti di AQIM e Daesh, che rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale. Il governo lavora per prevenire attacchi e combattere la propaganda jihadista ma Algeri deve anche affrontare flussi migratori illegali e il traffico di esseri umani da Mali e Niger. La crescente interconnessione tra terrorismo e criminalità pone nuovi rischi e richiede un adeguamento delle misure di contrasto, una maggiore cooperazione tra gli apparati preposti alla lotta al terrorismo e quelli preposti al contrasto del crimine organizzato.

Tuttavia questo non è sufficiente. A livello politico e economico urgono dei cambiamenti. L’annuncio dell’ormai 82enne presidente Bouteflika di candidarsi per il quinto mandato e la sua decisione di rinviare le elezioni ha rappresentato un momento importante per il Paese e la sua stabilità. Molte proteste sono scoppiate nelle ultime settimane mostrando un crescente disagio sociale e costringendo infine Bouteflika a dimettersi e a non ricandidarsi. L’Algeria ha bisogno di stabilità per gli algerini, per la regione e l’Europa. Chiunque sarà il nuovo presidente dovrà affrontare il fenomeno del terrorismo, della sua estensione in Libia, Mali, Niger, della sua interconnessione con il crimine organizzato, all’interno di un contesto economico difficile. La crescente propaganda estremista in grado di influenzare le giovani generazioni, è un altro aspetto critico che necessità di azioni repressive e preventive.

In Marocco, il Foreign Travel Advice del governo britannico afferma: “Terrorists are likely to try to carry out attacks in Morocco. You should be vigilant at all times”.

Nonostante il governo abbia avviato da anni una forte lotta al terrorismo, il fenomeno del terrorismo islamico non è ancora debellato. Pochi mesi fa, il Paese ha subito un attacco, in cui due cittadine scandinave sono state brutalmente uccise. Le autorità locali hanno  riferito che gli aggressori non erano affiliati a Daesh. Tuttavia, vi è una crescente attenzione delle autorità locali dopo quell’attacco e soprattutto dopo la sconfitta di Daesh in Siria, Iraq e la sua attuale dimensione asimmetrica.

Il 10 marzo scorso, le autorità marocchine hanno annunciato un’operazione di rimpatrio per consentire ai “foreign fighters” marocchini di tornare nel loro Paese di origine in sicurezza. Essi sono stati indagati dall’autorità giudiziaria per il loro presunto coinvolgimento in attività di terrorismo.

Ciò dimostra la considerevole capacità di resilienza di Daesh e dei gruppi affiliati. Il direttore del Central Bureau of Judicial Investigation in Marocco ha stimato che 1.668 marocchini hanno aderito allo Stato Islamico (ISIS) in Siria, Iraq e Libia.

Considerando questo alto numero, il governo ha deciso di avviare un programma di de-radicalizzazione o “moussalaha”. Lanciato nel 2018, questo programma ha come obiettivo combattere il terrorismo, l’estremismo violento e la radicalizzazione intervenendo sui singoli sostenitori tramite progetti personalizzati. Secondo la General Delegation forPrison Administration and Reintegration, questo programmacoinvolge esperti di diritti umani e anti-radicalizzazione per fornire sostegno psicologico e riabilitazione di persone accusate e incarcerate.

Sebbene Tunisia, Algeria e Marocco abbiano istituzioni politiche più forti della Libia, del Mali o del Niger, il contesto economico deve cambiare affinché le giovani generazioni possano essere integrate nella società e avere alternative a quelle offerte dai movimenti jihadisti, che tramite operazioni di propaganda ben strutturate riescono a attrarre nuovi affiliati. Possiamo dire che il potere di attrazione di questi movimenti deriva dalla debolezza dei governi nella regione nordafricana, piuttosto che dalla loro forza.

Al fine di prevenire instabilità e ulteriore disagio nella regione, già compromessa da  una guerra civile in Libia e da criminalità, terrorismo in Mali e Niger, sarebbe necessario che cooperazione e partenariati nel settore della sicurezza e antiterrorismo venissero implementati. Rendere più efficaci attività di controllo, scambio di informazioni e contrasto al terrorismo deve essere una priorità per l’Europa e gli stati del Nord Africa. Le recenti iniziative di maggio dello scorso anno, per esempio l’incontro tra i ministri degli esteri di Algeria, Tunisia e Egitto per migliorare lo scambio di informazioni sono molto importanti. La cooperazione di questi Paesi con l’Unione Europea deve permanere e essere continua.

Tuttavia, il contesto economico in Algeria e Tunisia è preoccupante. Entrambi i Paesi sono colpiti da crisi economica persistente, crescente disoccupazione, sopratutto giovanile, inflazione e incremento dei prezzi dei beni di prima necessità. Tali aspetti economici sono molto simili a quelli che hanno portato alle proteste in Venezuela e al colpo di stato in Sudan (sebbene gli aspetti politici siano molto diversi).

La Tunisia è uno stato che in cui la Primavera Araba ha avuto successo. Tuttavia otto anni di democrazia sono pochi per rendere le istituzioni solide, anche in considerazione del fatto che alta disoccupazione, disagio sociale, crisi economica e terrorismo rappresentano dei forti rischi per la stabilità del Paese. La condizione economica è simile a quella algerina e purtroppo denota una condizione di disagio socio-economico strutturale, i cui presupposti sono simili a quelli che portarono alla rivoluzione del 2011.

Se questi presupposti non dovessero cambiare e il contesto economico migliorare, l’instabilità aumenterebbe notevolmente con conseguenze preoccupanti per l’intera regione del Mediterraneo e l’Europa. Il rischio principale sarebbe quello di infiltrazioni di movimenti jihadisti, di gruppi paramilitari dalla Libia e di trafficanti da Mali e Niger, che potrebbero compromettere il processo di democratizzazione.

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