LA STRATEGIA DELL’ARABIA SAUDITA. Una sintesi.

LA STRATEGIA DELL’ARABIA SAUDITA. Una sintesi.

Mohammed bin Salman, principe ereditario dell'Arabia Saudita

Mohammed bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita

Una chiara sintesi sulla politica internazionale saudita attuale e sui comportamenti attuali di Israele e USA nella regione mediorientale

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

  1. Situazione nel Golfo

Gli Stati membri del “Consiglio di cooperazione del Golfo” (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti, Kuwait, Oman, Qatar), ricchi di petrolio hanno anche la caratteristica di avere una forza lavoro prevalentemente straniera che rappresenta la maggioranza della popolazione (in Qatar e negli Emirati raggiunge il 90%).

Le famiglie regnanti introducono poteri assolutistici di tipo patrimoniale e impongono pratiche di uno Stato antidemocratico,  misogino e integralista e anche l’unico Stato in cui il Corano e la “sunna” (tradizione) sostituiscono la Costituzione.

Alla configurazione sociopolitica diffusasi negli altri Paesi sfuggono Iran e Iraq facenti parte della regione in cui è stata destituita la monarchia.

L’Iraq consente la costituzione di un regime patrimoniale “repubblicano”, gestito con pugno di ferro da una famiglia regnante che riproduce le tare delle monarchie assolutiste, fine al suo rovesciamento nel 2003, in seguito all’invasione da parte degli Stati Uniti.

L’Iran porta all’insorgere dell’unico Stato strettamente teocratico, retto da istituzioni e leggi, non da una famiglia, anche se la Guida Suprema gode di un potere assoluto (Velayat-e-faqih).

L’offensiva dell’Iraq contro l’Iran nel 1980 voluta dagli USA, che rifornisce di armi Baghdad, permette a Washington e ai suoi alleati regionali di agevolare la reciproca distruzione dei due Stati sovversivi.

Dopo otto anni di un insensato massacro (quasi un milione di morti), Saddam Hussein, non essendo riuscito ad ottenere la cancellazione dei debiti accumulati con i finanziatori di capitali monarchici, decide di  prendere il controllo del Kuwait nell’agosto 1990, ritenendo di avere un implicito accordo americano, secondo le indicazioni ricevute dalla locale ambasciata americana.

In questo modo, fornisce a Washington un’eccellente occasione di risolvere due problemi:

– tornare con prepotenza nel Golfo per la prima volta nel 1962 – data dell’evacuazione della base militare di Dhahran nella regione petrolifera del regno saudita a seguito delle pressioni dell’Egitto nasseriano;

 – confermare a alleati, rivali e nemici, la supremazia indispensabile degli Stati Uniti, nella fase successiva alla guerra fredda quando il blocco sovietico si stava sgretolando.

L’intervento americano del 1991 diretto contro l’Iraq baathista, divenuto suo nemico giurato per l’assalto al Kuwait, provoca solo tiepide reazioni tra i dirigenti iraniani. Questo spiegamento di forze rassicura la famiglia regnante saudita, che ormai si considera al riparo da un’azione iraniana sul proprio territorio.

La guerra condotta da Washington contro Baghdad serve a Riyadh da banco di prova per i propri rapporti personali. Punisce tutti quelli che avevano accolto con favore l’invasione del Kuwait e che si erano dichiarati ostili all’intervento americano: lo Yemen, con l’espulsione di quasi un milione di lavoratori immigrati provenienti da questo Paese; l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser  Arafat, a cui ha tagliato i viveri; e i Fratelli Musulmani, con i quali ha rotto ogni rapporto.

    2. Evoluzioni del regno saudita

Fino ad allora, il regno saudita era stato il principale sostegno dei Fratelli Musulmani, dalla loro fondazione in Egitto nel 1928. Aveva combattuto con Washington il regime nazionalista di Gamal Abd el-Nasser (1918–1970), appoggiato da Mosca, che aveva duramente represso i Fratelli. Privandoli del sostegno logistico e finanziario, Riyadh sperava che facessero ammenda, così come l’Olp.

La situazione cambia rapidamente con l’arrivo al potere in Qatar di Hamad bin Khalifa al-Thani, dopo la deposizione del padre nel 1995.

L’emiro realizza una rete di relazioni con tutta la gamma delle forze che contano nella regione. Così realizza la costruzione – a proprie spese e in segreto – una base aerea per gli Stati Uniti (Al Udeid, vicino a Doha) e intreccia rapporti commerciali con Israele, pur mantenendo una buona intesa con l’Iran e sostenendo Hezb’Allah in Libano e Hamas nei Territori Palestinesi Occupati.

Ma l’invasione dell’Iraq nel 2003 stravolge la situazione dell’intera regione e segna – con l’Afghanistan – il più grave fallimento della politica degli Stati Uniti.

All’inizio delle ribellioni arabe (da media poco attenti indicati come “primavere arabe” mentre si tratta di insurrezioni e rivolte di differenti situazioni). Da queste diverse rivolte emergono due opzioni: una sostenuta dal regno saudita, l’altra dall’emirato del Qatar.

I sauditi sostengono la necessità di difendere i regimi al potere, sia schiacciando le rivolte, sia negoziando dove conservano buoni rapporti con l’opposizione ufficiale, come in Yemen. Il Qatar si erge a maggior pilastro della rivolta regionale, facendo valere la propria capacità di controllarla grazie alla determinante influenza sui Fratelli Musulmani.

All’inizio del 2011, in Libia, gli USA, su spinta di Hilary Clinton, nonché dagli alleati europei (in particolare Francia, Inghilterra e Italia), bombardano le forze di Muhammad Gheddafi, che verrà dopo pochi mesi ucciso, mentre il Qatar partecipa attivamente all’intervento e i sauditi rifiutano di unirsi.

    3. La rivoluzione siriana dal 2012

Quella che era un inizio di proteste in poche città per chiedere la fine della legge d’emergenza, la scarcerazione dei detenuti politici e una più giusta distribuzione del bilancio economico, diventa una guerra civile per l’ingerenza e l’attivismo armato di Stati interessati a spartirsi la Siria:

  • da una parte il regime, che affronta Paesi ostili – in primis la Turchia, che ne era un alleato – America, gruppi armati jihadisti sostenuti con armamento, danaro e logistica;
  • dall’altra, a partire dal 2015, sostenuta dall’aviazione e i missili di Mosca nonché dalle milizie speciali sciite di Teheran.

Ma già nel settembre del 2014, l’Arabia Saudita teme la conquista della capitale yemenita, Sana’a, da parte degli Houhti, vicini all’Iran, e alleati del precedente leader Alì Abdallah Saleh. In questa fase d’allarme, Salman bin Abdul Aziz al Saud subentra al fratellastro, morto il 23 gennaio 2015. Il re Salman, salito al trono a 79 anni, di pone come obiettivo primario la preparazione della successione del proprio figlio prediletto, Muhammad, all’epoca non ancora trentenne. Come prima attività gli affida il ministero della Difesa; due anni dopo, nel giugno 2017, Mohammed bin Salman diviene il principe ereditario.

L’intervento militare in Yemen a partire dal marzo 2015, sotto la supervisione del principe Muhammad, coinvolge una coalizione che comprende anche il Qatar che offre il proprio sostegno al governo yemenita “legittimo” e impegna una coalizione a cui partecipavano i Fratelli Musulmani locali. Questi ultimi erano una componente fondamentale del partito al-Islah con cui il nuovo regno saudita aveva ripristinato i rapporti.

Dal 12 marzo 2011-2012 al 24 marzo 2018: sette gli anni del massacro che non è ancora finito; tre le guerre combattute: una civile, una per procura e una internazionale; 6 milioni di profughi; 19.811 bambini, 248.000 i civili uccisi.

Sono impegnate le forze armate di Russia, Iran, Francia, Stati uniti, Gran Bretagna e milizie Hezb’Allah, quelle finanziate dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo, i combattenti curdi siriani dell’Ypg (Unità di protezione popolare) e (Ype, donne curde contro Daesh), Israele con i suoi continui raid aerei contro postazioni e basi iraniane.

La Siria è in macerie, a livello di Stato fallito nel quale ogni attore in campo, Russia, Arabia Saudita, Iran, Turchia e America, cerca il suo tornaconto: la Russia con i propri sbocchi nel Mediterraneo, l’Iran impegnato a consolidarsi in funzione anti-israeliana, costituendo la mezza luna sciita sulla direttrice Baghdad – Damasco- Beirut; gli Stati Uniti, a sostegno reciproco con Israele, a non venire esclusi dal Medio Oriente.

Questo, mentre il popolo siriano è trasformato in una moltitudine di profughi, oltre 6 milioni.

  1. Gli effetti dell’elezione del nuovo presidente degli USA.

La situazione è sconvolta dall’elezione di Donald Trump, rapidamente circondatosi di consiglieri islamofobi, che chiedono una posizione dura contro i Fratelli Musulmani, arrivando a sostenere la necessità di inserirli tra le “organizzazioni terroristiche”.

Il presidente Trump, ricevuto dal regno saudita nel maggio 2017, insiste con gli ospiti affinché spingano Doha a cessare i rapporti con i Fratelli Musulmani e a non mettere più a loro disposizione Al Jazeera. Meno di 15 giorni dopo la sua visita il regno saudita, gli Emirati e il Bahrein, seguiti da Egitto e da alcuni governi a loro legati rompono le relazioni diplomatiche con il Qatar.

Questa vicenda si sta concludendo con un fallimento. Il Qatar, dopo essere stato espulso dalla coalizione intervenuta in Yemen, rifiuta il diktat. Per far fronte alla situazione attinge alle proprie enormi risorse finanziarie, potendo contare sull’aiuto commerciale e militare della Turchia, suo alleato e, dall’inizio delle rivolte arabe, sponsor dei Fratelli Musulmani.

L’amministrazione Trump, pur affermando il contrario, potrebbe accettare la permanenza di Assad al potere sotto la tutela russa, a condizione che Mosca contribuisca a respingere le forze iraniane e alleate fuori dal Paese. Dopo la visita del presidente americano, all’inizio di ottobre 2017, il re Salman compie un viaggio nella capitale russa, con l’obiettivo di convincere Vladimir Putin a cambiare atteggiamento nei confronti di Teheran. Un mese dopo, Trump e Putin, dal vertice della Cooperazione economica asiatico-pacifica (Apec), a Nsang, in Vietnam, firmano una dichiarazione congiunta sulla Siria: sostegno al processo internazionale della conferenza di Ginevra e implicita approvazione del mantenimento di Assad al potere fino all’adozione di una nuova Costituzione e all’organizzazione di nuove elezioni.

Come già indicato in miei precedenti articoli  sulla Siria, Riyadh convoca il premier Saad Hariri, la cui famiglia era strettamente dipendente dai sauditi: il padre di Saad Hariri, ex primo ministro  libanese, assassinato nel febbraio 2005, aveva accumulato un cospicuo patrimonio in Arabia Saudita sotto la protezione del re Fahd bin Abdul Aziz al Saud. Hariri attacca spietatamente l’Iran e il suo ausiliario libanese, Hezb’Allah, mettendo fine a ogni forma di cooperazione con il partito sciita.

Anche questa manovra si rivela un fallimento. Hariri, grazie al presidente francese Macron, riesce a lasciare il regno e congela le dimissioni. Riyadh, che in un primo momento sembrava voler assecondare l’idea russa di promuovere un dialogo tra il regime e l’opposizione, oggi inasprisce la propria posizione, incoraggiando l’opposizione siriana a rifiutare di prestarsi al gioco di Mosca. Alla  fine dei conti, la sorte della Siria dipenderà dall’evoluzione dei rapporti fra americani e russi. Per ora, l’atteggiamento di Washington verso Mosca si è considerevolmente irrigidito, come dimostrano la campagna sul “Russiagate”, le nuove sanzioni e la consegna di armi all’Ucraina.

I sauditi, dal loro canto, si trovano in grande difficoltà per la loro offensiva nello Yemen, provocando uno dei peggiori disastri umanitari contemporanei.

Inoltre, il presidente americano annuncia nuovi problemi con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.

5.Le nuove iniziative di Riyadh

Per la prima volta nei 70 anni di storia dello Stato di Israele, l’Arabia Saudita apre il suo spazio aereo a voli provenienti dagli scali israeliani. Un nuovo passo verso la normalizzazione dei rapporti fra lo Stato ebraico e la monarchia, già transitata per incontri, più o meno, segreti, con collaborazione militare  e di intelligence, guerra ad Hamas e ai Fratelli Musulmani. D’ora in poi saranno tre i voli che ogni settimana collegheranno Israele all’India (con la Compagnia AirIndia), passando per i cieli sauditi. “Questo è un momento storico, è la prima volta che c’è un collegamento ufficiale fra lo Stato di Israele e Arabia Saudita”, commenta il ministro ai trasporti israeliano Yisrael Katz.

La nomina a consigliere per la sicurezza nazionale di John Bolton – anima dell’America più conservatrice e imperialista, pochi giorni dopo il licenziamento del segretario di Stato “moderato” Rex Tillerson e la sua sostituzione con il falco Mike Pompeo, mette Trump  alla testa di un “consiglio di guerra” che concentrerà la sua attenzione sull’Iran e lavorerà per demolire l’accordo internazionale del 2015 sul programma nucleare iraniano.

La ministra della giustizia Shaked sottolinea che “il presidente Trump continua a nominare veri amici di Israele in posizione di alto livello”.

Il presidente USA vuole pesanti sanzioni contro il programma iraniano di costruzione di missili balistici, chiede accesso libero e in qualsiasi momento per gli ispettori nucleari internazionali agli impianti iraniani (in particolare a quelli di Parchin). Conta sul fatto che gli europei sarebbero pronti a sanzionare lo sviluppo dei missili balistici iraniani a lungo raggio.

Il presidente Trump probabilmente vuole che Teheran rinunci anche a quelli a medio e corto raggio in grado di raggiungere l’Arabia saudita e le basi USA nel Golfo. L’Iran, senza una moderna aviazione militare, non accetterà mai di cessare la produzione di missili a corto e medio raggio privandosi di un’arma efficace in una regione dove ha molti nemici.

E ciò, sottolineano alcuni esperti israeliani a commento della nomina di Bolton, pone di nuovo sul tavolo “l’opzione militare”, ossia il bombardamento da parte di Israele e USA (o solo di Israele con l’approvazione americana) degli impianti nucleari israeliani che Obama aveva escluso. Israele in sostanza avrà l’opportunità di attuare di nuovo la “dottrina Begin” di attacco “preventivo” contro impianti veri o presunti in costruzione da parte dei suoi avversari, in modo da rimanere l’unica potenza atomica (mai dichiarata) nella regione.

Non è un caso che pochi giorni addietro, tra la nomina di Pompeo e quella di Bolton, il governo Netanyahu abbia ammesso di avere distrutto, undici anni fa, un sospetto sito nucleare in Siria. Ammissione fatta per mandare un messaggio chiaro all’Iran.

E non è un caso anche il fatto che il quotidiano Haaretz il 24 corrente mese abbia riferito dei “sospetti” che desta  fra i “ricercatori americani” un “misterioso impianto sotterraneo” ancora in Siria, a due km dal confine con il Libano.

Intanto, vanno a gonfie vele le vendite di armi USA all’Arabia saudita. L’erede al trono Mohammed bin Salman pagherà un miliardo di dollari per 6.500 missili americani. Insomma, a Riyadh è consentito possedere missili balistici, all’Iran no. Il principe, nei giorni scorsi a Washington, ha poi annunciato investimenti sauditi per 400 miliardi di dollari nell’economia USA nei prossimi dieci anni.

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