LA NUOVA STRATEGIA DEL MOVIMENTO SCIITA IN MEDIO ORIENTE E IL RUOLO DELLA TURCHIA.

LA NUOVA STRATEGIA DEL MOVIMENTO SCIITA IN MEDIO ORIENTE E IL RUOLO DELLA TURCHIA.

Hassan-Nasrallah, a capo del movimento Hezb'Allah

Hassan-Nasrallah, a capo del movimento Hezb’Allah

Continuando nel tentativo di comprendere gli attuali instabili equilibri in Medio Oriente, sono di seguito analizzati in sintesi le manovre e cambio di strategia degli sciiti e il ruolo sempre più strategico e in parte pericoloso di Ankara.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Il possibile inasprimento della situazione sembra confermato dalle manovre e dal cambio di strategia di Hezb’Allah.

Secondo il quotidiano libanese Al Akhbar, le milizie del movimento sciita starebbero ripiegando dalla regione orientale del Monte Libano, considerata ormai libera dalla minaccia jihadista di Al Nusra e Daesh, verso le posizioni di confine nel Sud del Paese.

Stesse manovre riguarderebbero anche il territorio siriano. L’impegno di Hezb’Allah resta ancora consistente, in termini di truppe a sostegno di Damasco, ma il loro dislocamento e utilizzo avverrebbe in punti strategici “caldi” e non in tutto il territorio siriano. Il rientro di forze è legato anche al ricongiungimento delle milizie libanesi con l’altra forza emergente di questi anni: le truppe irachene di Harakat Hizbollah Al Nujaba, considerate il ramo iracheno di Hezb’Allah.

Nella recente apparizione televisiva, legata alla commemorazione della liberazione da Israele, il segretario generale di Hezb’Allah, Sayyed Hassan Nasrallah, afferma: “ Noi siamo pronti a un conflitto che se ci sarà avverrà anche in territorio israeliano”.

Tutti i rapporti dell’intelligence di Tel Aviv sostengono che il partito sciita non sia più quello del 2006. “Hezb’Allah è diventato una potenza regionale – riporta il quotidiano Yediot Aharonot – con una capacità di oltre 100 mila truppe, tra miliziani attivi e riservisti, e un potenziale di quasi 140 mila missili”.

La principale preoccupazione dei militari israeliani sarebbe legata alla capacità, grazie all’esperienza di questi anni nell’arena siriana, di poter affrontare qualsiasi nemico considerato che “le sue milizie in termini di armamenti, efficacia e preparazione sono equiparabili a un vero e proprio esercito”. Alla stessa maniera, lo stato maggiore di Tel Aviv, per preparare il terreno all’opinione pubblica nazionale e internazionale, precisa che “la presenza dei combattenti nelle zone e nei villaggi non permetterà a Israele di eliminare questa minaccia se non attraverso forti danni alle infrastrutture e numerose vittime civili”.

Nulla di nuovo per Israele, come dimostrano le guerre – lontane e recenti – in Libano e le molteplici guerre (2002, 2006, 2008, 2014) contro la piccola Striscia di Gaza (365 chilometri quadrati per poco meno di 2 milioni di abitanti) – circondata da Tel Aviv da oltre 10 anni da cielo, terra e mare – contro modeste milizie poco armate.

In un suo editoriale relativo al prossimo conflitto contro Hezb’Allah, Abdel Barri Atwan, direttore del quotidiano Ray Al Youm, spiega come le guerre che ci sono nell’area attualmente avvengono “per rinforzare la sicurezza e la stabilità di Israele, pur di mantenere il suo potere militare e la sua supremazia nella regione.”

Un possibile conflitto, secondo numerosi analisti, sarebbe dagli esiti incerti, ma avrebbe ripercussioni terribili per tutta un’area già martoriata da anni di conflitti.

Il ruolo della Turchia

Negli ultimi mesi, la Turchia estende i suoi bombardamenti contro i combattenti Curdi in Siria e Iraq, nonostante i Curdi siano alleati preziosi degli Stati Uniti nella lotta contro Daesh, aiutandoli a riconquistare il Nord della Siria e diversi territori nel Nord-Ovest dell’Iraq e abbiano un ruolo centrale nelle prime fasi della campagna militare contro il Califfato di Abu Bakr Ibrahim al Samarra per la riconquista della città irachena di Mosul.

Gli Stati Uniti, profondamente preoccupati per gli attacchi aerei turchi, aggiungono che i bombardamenti non erano stati approvati dalla coalizione anti-Daesh da loro guidata.

Di fatto, nei suoi bombardamenti, la Turchia attacca le YPG (le milizie curde siriane), il PKK (il partito indipendentista curdo nato in Turchia) e 5 peshmerga (esercito del Kurdistan iracheno) anche se per errore, in quanto la Turchia può essere considera un alleato per l’intesa con il presidente Masud Barzani, tuttora al potere anche se il suo mandato è scaduto da tempo.

Le YPG sono le Unità di Protezione Popolare, cioè le milizie armate del PYD (Partito dell’Unione Democratica), una forza politica curda di matrice socialista-libertaria.

Le YPG agiscono in Siria e vorrebbero ottenere il riconoscimento di uno Stato curdo indipendente al confine meridionale con la Turchia.

Nel corso degli ultimi anni, le YPG subiscono sempre di più l’influenza del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan: il PKK, che opera soprattutto nel Sud-Est delle Turchia, vuole uno Stato curdo indipendente e per questo è nemico del governo turco.

La Turchia non considera organizzazione terroristica solo il PKK, ma anche le YPG, che sono la componente principale e più importante delle Forze Democratiche siriane, una coalizione di forze che sta guidando le operazioni militari appoggiate dagli USA per riconquistare Raqqa, “la capitale” di Daesh in Siria. I bombardamenti turchi non hanno fine: e colpiscono anche la zona di Sinjar, nel Nord-Est dell’Iraq vicino al confine con la Siria.

Qui il PKK aveva stabilito una presenza dopo essere intervenuto in aiuto della popolazione yazida nell’estate 2015, che era diventata l’obiettivo delle brutali violenze di Daesh.

Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan dichiara da sempre che non permetterà che Sijar, a circa 115 chilometri dal confine con la Turchia, diventi una “nuova Qandil”, la zona montagnosa in Iraq, dove si sono rifugiati i Curdi del PKK dal 2013, bombardati pesantemente quasi ogni giorno dagli aerei turchi.

Non è chiaro il motivo per cui la Turchia abbia deciso di estendere i bombardamenti in Siria e Iraq.

Secondo Nicholas Heras, analista del “Center for a New American Security”, l’esercito turco sta inviando il messaggio che la sua guerra contro il PKK non si fermerà ai confini della Turchia, e che non ci sarà mai rifugio per il PKK, da nessuna parte.

Il governo turco sembrerebbe sempre più preoccupato dell’aumento dell’influenza dell’Iran sia in Iraq che in Siria: pensa che le milizie sciite che stanno combattendo contro Daesh e rispondono all’Iran potrebbero allearsi con il PKK, agendo in un secondo momento in funzione anti-turca.

Negli ultimi mesi i rapporti fra Americani e Turchi, e più in generale fra Turchia e NATO, erano peggiorati soprattutto dopo il fallito golpe contro Erdogan lo scorso luglio, e le successive politiche iper-repressive del governo di Ankara contro i suoi critici e contro tutti quelli accusati di essere coinvolti nel colpo di Stato.

Il 16 aprile in Turchia il referendum voluto da Erdogan ha rafforzato i poteri del presidente rendendolo ancora più padrone del Paese.

Il referendum ha avuto anche un altro ruolo nell’intera faccenda.

Un comandante delle YPG attribuisce parte della colpa per gli attacchi subito dai Turchi al presidente americano Donald Trump, che, dopo la diffusione dell’esito del voto referendario, aveva chiamato Erdogan per congratularsi.

Il comandante curdo, citato dal sito Al Monitor, dice anche: “Se Trump non avesse telefonato a Erdogan, se non si fosse congratulato con lui e se non lo avesse invitato a Washington, la Turchia non si sarebbe mai sentita incoraggiata a comportarsi in questo modo: una maniera che ci ha ferito e che ha ferito la lotta americana contro Daesh”

Per il momento, nonostante il cambio di amministrazione a Washington, il governo americano non sembra intenzionato a cambiare la sua strategia in Siria e Iraq.

Probabilmente Trump continuerà a fare quello che ha fatto Obama per molto tempo: districarsi per quanto possibile nella rivalità fra Turchi e Curdi, cercando di non perdere l’appoggio di nessuno dei due e continuando a fare la guerra a Daesh.

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Masud Barzani

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