Israele. La guerra contro Hamas. Evoluzioni ed implicazioni geopolitiche ancora del tutto imprevedibili

Israele. La guerra contro Hamas. Evoluzioni ed implicazioni geopolitiche ancora del tutto imprevedibili

A lungo ho riflettuto su quanto sta avvenendo in Israele e Striscia di Gaza, e su iniziare a ragionarne pubblicamente. Ritengo sia un momento particolarmente difficile per quanto riguarda il Mediterraneo e quei territori. Sono stata e sarò sempre vicina ai palestinesi. Hamas non agisce in loro favore. Questo è ormai chiaro a tutto il mondo. Anche l’Iran deve stare molto attento perché l’eventuale ampliamento dello scontro militare nell’attuale situazione potrebbe anche portare a un rovesciamento della situazione sul territorio iraniano: gran parte della popolazione è particolarmente contraria al regime, anche se questo viene nascosto.

Sono i civili che pagano in tutte le guerre e in questo caso particolare stanno pagando un prezzo molto duro e non si vede come riuscire ad aiutarli sensibilmente. Il fatto che nella conferenza di pace convocata dal presidente egiziano al Sisi, i partecipanti non siano riusciti a concordare un comunicato congiunto tra Paesi Arabi e Europa Unita, è particolarmente pericoloso ed è indicativo di una situazione molto complicata, molto di più che cinquant’anni fa. Attendiamo gli eventi, ma ne temo una tragicità molto forte ancora…

Pubblico con interesse il ragionato articolo di Paolo Brusadin

Il Direttore Scientifico

(Fonte: Wikipedia)

L’offensiva senza precedenti lanciata il 7 ottobre scorso denominata al-Aqsa dal gruppo terroristico Hamas (dal loro punto di vista un movimento di resistenza), contro obiettivi militari ma anche civili inermi israeliani con una barbara ferocia che lascia senza fiato, ha immediatamente raggiunto un obiettivo sino a ora impensabile.     

L’attacco ha terremotato il senso di sicurezza degli israeliani, evidenziando una fragilità impensabile delle strutture di difesa, delle fortificazioni e dei sofisticati sistemi d’arma di difesa.

Altresì, ha violato nel profondo lo spazio vitale di ogni israeliano, identificato dalla propria casa, dal proprio kibuz, dal proprio quartiere e dal proprio villaggio.

Tutto sembra essere in discussione, tranne la volontà di entrambe le parti in gioco di vincere ad ogni costo la partita: Israele per la propria esistenza e Hamas per la propria leadership, con la stragrande maggioranza sia della popolazione palestinese, che nulla ha a che fare con Hamas, sia di quella israeliana, destinate a soffrire e a morire.

Qualunque sarà l’esito di questa pericolosa guerra, perché proprio di guerra si tratta, lascerà inevitabilmente degli strascichi nella società israeliana e in quella palestinese e avrà ripercussioni geopolitiche in altri paesi della regione, tra cui il Libano, la Siria, l’Egitto, l’Arabia Saudita e l’Iran, senza contare i player USA, Cina e Russia. 

Gli scenari futuri che questa inqualificabile guerra delineerà non sono ancora chiari. Ciò che appare evidente è la volontà di Hamas di assurgere a unico rappresentante del popolo palestinese, sostituendosi all’Associazione Nazionale Palestinese di abu Mazen, difensore della soluzione dei due Stati ma che in questi ultimi anni ha perso potere e aderenza internazionale ed è in difficoltà e all’angolo. 

In Israele è già iniziato il processo sulle defaillance del sistema di difesa giacché l’intelligence militare AMAN (organismo indipendente dalle tre Forze Armate e alle dirette dipendenze del Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa), nonché l’Agenzia di Sicurezza Shin Bet (il servizio d’intelligence interno responsabile sia del controspionaggio sia dell’antiterrorismo), non sono riuscite a intercettare e quantificare la gravità e la portata dell’operazione di Hamas.

Un Paese, che negli anni ha costruito la sua reputazione a livello mondiale su un’indiscussa potenza militare e una riconosciuta capacità d’intelligence, non solo dal punto di vista tecnologico ma anche per la qualità dei propri agenti, improvvisamente ha perso le sue certezze. Tanto più che l’attacco è partito da Gaza, un territorio costantemente sotto stretta sorveglianza, giorno e notte. Un’impressionante pioggia di razzi ha colpito molte città israeliane limitrofe, arrivando sino a Tel Aviv e Ashkelon.

C’è poi il cedimento del muro di protezione che gli israeliani hanno costruito attorno a Gaza, un muro di cemento armato di 65 chilometri e alto 7 metri, munito di sensori e monitorato da numerose torri di guardia dislocate lungo il perimetro, che non ha impedito il passaggio dei miliziani di Hamas in territorio israeliano.

Non un semplice transito alla rinfusa, bensì un vero e proprio attacco terrestre organizzato che si è spinto verso il valico di frontiera di Erez, a nord di Gaza, arrivando alla sconosciuta, sino al 7 ottobre, città di Sderot e all’ormai tristemente famosa spianata vicino al Kibuz di Re’im, a circa 5 km dal muro di Gaza dove era in corso un festival musicale.

Gli israeliani contavano molto sull’efficacia del muro, ma non è stato così e ciò a riprova di una grande verità storica, di una lesson learning che ci si ostina ad ignorare: costruire un muro non è mai la soluzione di un problema.

La risposta di Israele è stata pronta, anche se tardiva e non preventiva, con la reazione delle Forze di Difesa a caccia dei militanti di Hamas ben nascosti e mischiati tra la popolazione di Gaza.

Gaza appunto, con i suoi 2 milioni di abitanti (di cui la maggior parte rifugiati), su un territorio di meno di 400 kmq, è una terra disgraziata che dal 2007 vive sotto il blocco imposto da Israele proprio per difendersi da Hamas.

Il blocco, che limita fortemente l’accesso via terra e mare dei palestinesi, non è però riuscito nell’intento d’indebolire il movimento militante islamico che, al contrario, s’è rafforzato potendo reclutare nuovi adepti tra le schiere dei giovani palestinesi.

Molti osservatori attenti alle questioni mediorientali hanno immediatamente avanzato un parallelismo tra quest’ultimo attacco subito da Israele con quanto successo nella guerra dell’Ottobre del 1973, conosciuta come guerra dello Yom Kippur, allorquando una coalizione di Stati arabi guidata dall’Egitto e dalla Siria colpì di sorpresa lo Stato ebraico. 

Un paragone che non regge perché i due scenari sono completamente diversi ma ciò che fa impressione sono le due date d’inizio: 6 ottobre 1973 e 7 ottobre 2023, esattamente mezzo secolo tra l’una e l’altra. 

E cinquant’anni fa, come adesso, dopo qualche giorno di sbandamento Israele reagì e sta reagendo, anche se oggi non si parla come allora di banale negligenza, bensì di una grossolana sottovalutazione del pericolo e, per alcuni, di vera e propria incapacità.

Incapacità da parte dell’esercito israeliano di difendere la propria base militare prospiciente il confine con la Striscia, così come le numerose torri di guardia posizionate lungo il perimetro confinario, senza dimenticare la tardiva protezione data agli insediamenti.

Una situazione complicata che ha però compattato il popolo d’Israele, sino a quel momento in tensione per la figura divisiva del Primo Ministro Benjamin Netanyahu a causa della sua discussa compagine governativa e dei ripetuti tentativi di riformare la giustizia ad hoc.

Si spiega così l’immediata formazione di un Governo di emergenza nazionale che include leader esperti e riconosciuti in grado di pianificare una guerra che ha l’obiettivo di neutralizzare definitivamente Hamas.

Rimaniamo spettatori dell’evoluzione di questa nuova tragedia, preparandoci a un periodo lungo e difficile.

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