L’EGITTO AD OTTO ANNI DALLA RIVOLUZIONE: LO STATO DELL’ARTE.

L’EGITTO AD OTTO ANNI DALLA RIVOLUZIONE: LO STATO DELL’ARTE.

Il Presidente El Sisi

Il Presidente El Sisi

L’Egitto oggi. Uno Stato di grande importanza nel Mediterraneo: la sua stabilità è necessaria a quella di tutti gli altri Stati delle due sponde del Mare, nord e sud. L’Europa non può permettersi un Egitto destabilizzato.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

 L’Egitto, ad otto anni dalla “Primavera Araba” che ha determinato la fine dell’era di Hosni Mubarak, ha agevolato la vittoria di Mohammed Morsi e dei Fratelli Musulmani (ed in qualche misura il loro repentino fallimento nel breve volgere di un anno) e che, di fatto, s’è conclusa con una sanguinosa controrivoluzione, è alla ricerca di una nuova identità.

E’ altresì ancora alla ricerca di una nuova coscienza politica e culturale riappacificata con il recente passato, meno classista e squilibrata tra ricchi e poveri.

L’avvento al potere dei Fratelli Musulmani, abili a cavalcare l’onda emotiva, ha compromesso la possibilità di rinnovamento del Paese ed ha infranto i sogni dei giovani “rivoluzionari”, nel senso più nobile del termine, agevolando il ritorno al potere (se mai lo avevano peso) dei militari.

Il Generale Abdel Fathah el Sisi da poco è stato rieletto Presidente in un Paese dove non esiste (ancora) un sistema consolidato di pesi e contrappesi, elementi fondanti di una democrazia matura.

La sua rielezione non è stata certo una sorpresa, tanto meno la percentuale bulgara del suo consenso superiore al 90%; ciò che può far riflettere è l’alto tasso d’astensionismo con solo il 40% degli aventi diritto che si è recato ai seggi.

Un solo uomo al comando che controlla ogni aspetto della vita politica egiziana e che persegue due obiettivi, peraltro correlati tra loro: garantire la stabilità in termini di sicurezza e migliorare la situazione economica.

Un Paese semi-militarizzato in cui vige dall’aprile del 2017 lo stato d’emergenza, in principio limitato alle zone “calde” a rischio terrorismo del Sinai, in seguito esteso a tutto il territorio.

Lo stato d’emergenza garantisce al Presidente il potere di far giudicare i civili nei tribunali d’emergenza per la sicurezza dello Stato senza possibilità d’appello, d’intercettare, monitorare e censurare i mezzi di comunicazione, d’imporre il coprifuoco ed ampliare i poteri delle forze di sicurezza.

Fino al mese di luglio sarà cosi, poi si vedrà.

E’ bene ricordare che in Egitto vige la pena di morte e molte persone sono state giustiziate, mentre non si hanno stime certe di coloro che sono finiti in prigione.

Nel primo quadriennio di presidenza el Sisi ha scelto i governatori di tutte le province egiziane ed i sindaci delle città (per la maggior parte ex militari), ha imposto i presidenti degli organi giudiziari ed ha agito all’interno di un perimetro parlamentare debolee troppo accondiscendente.

Gli sforzi di el Sisi di rendere il Paese più sicuro ha però portato dei frutti (si spera duraturi), a tutto vantaggio della ripresa del settore turistico, traino dell’economia egiziana.

Gli indicatori macro-economici rilevano un miglioramento complessivo dell’economia egiziana, che comunque ancora ha bisogno di decisi interventi correttivi.

Anche le agenzie di ratinginternazionali intravedono una ripresa economica, seppur debole, rallentata dalla zavorra dei sussidi e dalle politiche assistenziali, da un debito elevato, e dai costi di un apparato statale elefantiaco.

Segnali positivi arrivano dalle entrate del Canale di Suez, dall’aumento delle riserve valutarie della Banca Centrale, dai numerosi progetti e dall’incremento dei posti di lavoro.

Gli aiuti internazionali e gli investimenti esteri non mancano, ma ciò di cui ha più bisogno l’Egitto è un efficace programma di riforme economiche strutturali: necessarie, dolorose, certamente impopolari.

Tutto ciò in osservanza ai rigorosi vincoli imposti dal Fondo Monetario Internazionale che ha concesso un prestito vincolato, spalmato su tre anni, per un ammontare complessivo di dodici miliardi di dollari.

Come temuto da molti egiziani, il Raisha già attivato una serie di riforme di contenimento della spesa che, come effetto collaterale, ha determinato l’aumento dei prezzi di molti prodotti, anche di base, creando un forte malcontento.

Uno dei più criticati è stato il recente aumento del prezzo del biglietto della metropolitana egiziana, il secondo in meno di un anno: 3 lire egiziane per un viaggio di 9 fermate, 5 lire fino a 16 fermate, 7 lire per distanze più lunghe. Si tratta di pochi centesimi di Euro, comunque tanto per la fascia medio bassa della popolazione.

Va da sé che la difficile situazione economica rende ancor più acuta quella politica, cassa di risonanza dello scontro sociale e della destabilizzazione di alcune aree, in particolare del Sinai, penisola cuscinetto tra l’Egitto ed Israele e terreno fertile di vari gruppi terroristi.

Non bisogna poi dimenticare i Fratelli Musulmani che, anche se banditi, in un modo o nell’altro continueranno ad avere un ruolo nella società egiziana, magari seguitando in ciò che storicamente sono più abili: lotta armata, resistenza in clandestinità ed opposizione al potere costituito.

In Egitto la mancanza di un progetto di nazione inclusivo ha contribuito a rendere difficile la convivenza tra la maggioranza musulmana e la minoranza copta, tanto che negli ultimi anni migliaia di cristiani hanno scelto la dolorosa via dell’esilio e dell’emigrazione in altri paesi.

La discriminazione violenta nei confronti dei copti non è una questione recente, ma risale all’epoca di Anwar al Sadat che nel suo primo discorso alla Nazione annunciò di essere “… un presidente musulmano di una nazione musulmana …”, dando l’impressione di voler relegare i copti a cittadini di second’ordine.

Stime precise su quanti siano i cristiani copti in Egitto non ce ne sono, ma si quantificano in circa otto/dieci milioni, su una popolazione di novanta milioni e più di egiziani.

L’Egitto aspira anche a rinverdire il suo antico ruolo di mediatore in Medio Oriente, in auge ai tempi di Sadate di Mubarak.

Abdel Fattah el Sisista cercando di ritagliarsi un ruolo significativo nella crisi tra Israele e la Palestina, anche per non lasciare ogni iniziativa agli Stati Uniti d’America di Trump, alla Russia di Putin e ai vari attori regionali, in particolare all’Arabia Saudita, all’Iran e alla Turchia.

Le prospettive di una riappacificazione nell’area non sono incoraggianti, come altrettanto difficile appare, ad oggi, la possibilità di un’efficace mediazione da parte dell’Egitto, che è anche sede del quartier generale della Lega Araba, l’organizzazione internazionale che riunisce i paesi del Nord Africa, del Corno d’Africa e del Medio Oriente.

Stabilità e sicurezza, miglioramento della situazione economica più il ruolo regionale dell’Egitto, questi i tre capisaldi su cui el Sisioggi sta concentrando la sua azione governativa.

Ciò che manca ancora è una vera road map democratica, un maggior impegno in materia di diritti umani e di libertà per i cittadini.

Un segnale positivo arriva dalla notizia che, seppur con gradualità, i prossimi governatori delle province ed i sindaci non saranno imposti dall’Autorità centrale, bensì scelti dai cittadini attraverso delle “libere” elezioni.

Si auspica che nel corso del secondo mandato presidenziale questi aspetti trovino più spazio nell’agenda politica del Presidente, a vantaggio delle giovani generazioni egiziane profondamente deluse dallo stato delle cose, affinché la restaurazione di un ancien regimenon sia l’unico lascito della “mancata” Primavera Araba”.

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