Un interessante articolo di un esperto del settore, riepilogativo della situazione in Medio Oriente con note storiche.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
1.Premessa.
Il 26 agosto, l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, torna a chiedere al comandante della missione UNIFIL, generale Michael Beary, profonde modifiche al mandato di UNIFIL e raccoglie l’approvazione della delegazione diplomatica israeliana all’ONU. Secondo l’ambasciatrice Haley, UNIFIL, il cui rinnovo del mandato è previso alla fine del mese, è schierata contro Israele per cui si rende necessaria una sostanziale riforma o la fine del mandato.
Di fatto, con l’amministrazione Trump alla Casa Bianca e la tensione in aumento fra Israele e Hezb’Allah, la questione è divenuta motivo di scontro tra i membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza ONU.
L’ambasciatrice Haley ripete ”Non possiamo farla passare liscia ai terroristi”, mentre la vice ambasciatrice francese, Anne Gueguen, ritiene, al contrario, che “è di fondamentale importanza per la stabilità del Libano e della regione che UNIFIL mantenga il mandato”. Dello stesso parere è l’ambasciatore russo all’ONU, Vassily Nebenzia.
Da parte sua, il comandante UNIFIL Beary smentisce totalmente le accuse americane e sostiene che non esistono prove del trasferimento illegale di armi nel Libano meridionale, dove Hezb’Allah ha la sua roccaforte.
Francia e Russia si oppongono alle pressioni di Stati Uniti e Israele, ma il dibattito resta in corso.
L’Italia, che con mille soldati su 10.520, è parte fondamentale dell’UNIFIL e negli anni passati ha svolto un ruolo di primo piano in Libano, resta silente.
UNFIL fu istituita nel 1978 per monitorare il primo ritiro dell’esercito israeliano dal Libano meridionale. Nel 2006, sulla base della Risoluzione ONU 1701, che mise fine al conflitto fra Israele e Hezb’Allah, ha visto il suo compito allargarsi all’interposizione tra Libano e Israele, alla lotta al traffico di armi e al pattugliamento delle coste libanesi. In undici anni il confine è rimasto tranquillo se si esclude qualche scontro isolato.
In merito, l’analista arabo Moquin Rabbani dichiara “Non è facile comprendere l’obiettivo .. delle pressioni americane.. Forse l’amministrazione Trump vuole demolire l’immagine dell’UNIFIL agli occhi della comunità internazionale e descrivere la missione come parte del problema…. Una futura offensiva militare di Israele in Libano verrebbe vista come inevitabile a causa anche del presunto cattivo lavoro svolto da UNIFIL… Se queste pressioni porteranno alla fine della missione vedremo un’altra guerra tra Libano e Israele”.
A distanza di pochi giorni dall’attacco USA a UNIFIL, il governo israeliano avverte la Russia che se l’Iran “espanderà” la sua presenza in Siria “bombarderà” il palazzo presidenziale di Bashar Assad a Damasco.
Preso atto che Bashar Assad rimarrà al suo posto, il governo e i comandi militari di Israele fanno i conti con il successo del presidente siriano sui nemici del suo Paese e sui vantaggi che gli alleati, Teheran e il movimento sciiti Hezb’Allah, otterranno sul terreno.
Forse l’Iran non costruirà una base aerea o una navale come sostiene Israele, ma è chiaro che manterrà, assieme a Hezb’Allah, una presenza militare stabile in Siria e la userà anche per tenere sotto tiro Israele e dissuaderlo dal portare a termine ciò di cui Tel Aviv parla da tempo : un attacco aereo per distruggere le centrali atomiche iraniane – mai viste dall’AIEA durante gli anni di costanti controlli e verifiche – nonostante la firma nel 2015 dell’accordo internazionale sul programma nucleare per soli fini energetici di Teheran.
A fronte di questo, Israele non parla del suo reale patrimonio nucleare che risale agli anni ’50, mai dichiarato all’AIEA. Anzi, il governo israeliano insiste per creare una buffer zone (zona cuscinetto), tra Siria e le Alture del Golan, che occupa dal 1967 in violazione delle Risoluzioni del C.d.S. ONU.
Il premier israeliano ripete quanto comunica da decenni: ”l’Iran vuole costruire una base militare d’appoggio nel suo obiettivo dichiarato di sradicare Israele e per questo scopo sta costruendo siti di produzione di missili di precisione in Siria e in Libano”… cosa che Israele non può accettare”.
2. Che succede da tempo in Medio Oriente e Africa e perché?
Perché negli ultimi (quasi) 40 anni vi sono state guerre in Afghanistan, dall’invasione dell’allora URSS a quelle successive a guida USA e Gran Bretagna fino a quella in corso dopo l’11 settembre 2001, alla prima guerra del Golfo durata otto anni (1980-1988) scatenata, con l’appoggio USA ed Europa, dall’Iraq di Saddam Hussein contro l’Iran che aveva sconfitto il regno per sostituirlo con gli sciiti?
E ancora: la guerra del 1991 USA contro l’Iraq, passato da alleato a nemico per l’attacco al Kuwait, che sarà seguita nel 2003 da USA e Gran Bretagna con le false accuse a Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa e pronto a utilizzarle; in Afghanistan nel 2001, da parte di USA e Gran Bretagna; le guerre in Libia nel 2010 da USA, NATO, Europa; quelle in Mali e Costa d’Avorio nel 2011 ad opera della dalla Francia; Siria nel 2010 da NATO, USA e coalizioni di Paesi europei.
Guerre che sono ancora in corso.
Frammenti di analisi e ricerche: si parte dal rapporto Campbell-Bannerman del 1907 (citato nel libro” Cinquant’anni dopo”, edito a maggio 2017 dalla Casa Editrice Alegre, autori Chiara Cruciati e Michele Giorgio).
Fra Ottocento e Novecento si alimenta la necessità di instaurare un’enclave bianca e occidentale nel cuore del Medio Oriente e del Nord-africa, mondo arabo dalle immense ricchezze naturali ma pericoloso perché in possesso di potenzialità che avrebbero potuto creare un polo di competizione difficilmente gestibile.
Partizione, suddivisione e frammentazione sono la risposta realizzata attraverso il sostegno a leader divisivi, con promesse d’indipendenza già macchiate dall’accordo Sykes-Picot della prima Guerra Mondiale, attraverso la nascita di confini innaturali che hanno separato popoli e identità politiche e culturali specifiche.
E’ del 1907 il documento passato alla storia come Campbell-Bannerman, dal nome dell’allora primo ministro dell’impero britannico e sottoposto a sette Paesi europei in vista della formazione di un comitato che si occupasse esclusivamente della questione araba con le seguenti raccomandazioni elaborate dall’Europa coloniale:” Promuovere la disintegrazione, la divisione e la separazione della regione; creare entità politiche artificiali da porre sotto l’autorità dei Paesi imperialisti; combattere ogni tipo di unità – che sia intellettuale, religiosa o storica -; creare uno “Stato cuscinetto” in Palestina, popolato da una forte presenza straniera ostile ai suoi vicini e alleata dei Paesi europei e dei loro interessi”.
E veniamo a oggi. Quella necessità eurocentrica di divisione e separazione si traduce nel sostegno a Israele e alla mancata volontà di imporre le decisioni assunte dalla Comunità Internazionale, a partire dalle innumerevoli Risoluzioni delle Nazioni Unite sul tema palestinese.
In breve, la diplomazia mondiale ha optato e opta per il mantenimento dello status quo (e della sua costante erosione da parte di Tel Aviv), apparentemente cristallizzato da oltre venti anni di fittizio processo di pace fondato sulla soluzione dei “Due Stati”. In realtà, mentre le legittime richieste palestinesi rimangono congelate, Israele avanza.
L’ultima ondata coloniale (agosto 2017, 3.500 abitazioni), lanciata poche settimane dopo l’ultima Risoluzione ONU 2334, è stata accompagnata da un voto senza precedenti. La “Regulation Bill”, passata a inizio febbraio scorso alla Knesset con 60 voti a favore contro 52, ha legalizzato gli avamposti coloniali nei territori occupati, ovvero le colonie considerate fuorilegge dalla stessa legislazione israeliana.
Una mossa unilaterale che spiana la strada all’annessione ufficiale della Cisgiordania e che annienta – insieme a numerosi progetti espansionistici precedenti, a partire dal corridoio E1 tra Gerusalemme e valle del Giordano – la possibilità di dare vita a uno stato palestinese all’interno dei confini del 1967.
Israele è stato progettato e fatto crescere all’interno della Comunità Internazionale e delle regole che si è data dopo la seconda guerra mondiale. Se oggi il governo di Tel Aviv insiste sullo strumento negoziale bilaterale per (NON) risolvere il conflitto, definendo le poche iniziative dell’Autorità Nazionale Palestinese come atti unilaterali controproducenti, è attraverso l’internalizzazione del proprio essere che ha potuto prosperare.
Dal documento Campbell-Bannerman fino alla dichiarazione Belfour del 1917, dalla Risoluzione dell’Assemblea generale ONU 181 del 1947 (Piano di partizione della Palestina storica in due Stati, uno ebraico sul 55% del territorio e uno arabo nel restante 45%), ai trattati di pace con Egitto e Giordania passando per l’accordo stipulato con la Germania nel 1952 (risarcimento per l’Olocausto), lo stato ebraico ha imposto la propria legittimazione sui riconoscimenti della Comunità Internazionale proponendosi esattamente nella forma in cui è stato immaginato “un’enclave occidentale” nel cuore del mondo arabo, colonna portante della strategia statunitense in una regione strategica.
In merito, basta sfogliare i dati sugli aiuti che da settanta anni gli Stati Uniti girano nelle casse di Tel Aviv. Dal 1949 al 1965 gli Usa hanno versato a Israele una media di 63 milioni di dollari l’anno; dal 1966 al 1970, 102 milioni l’anno; dal 1971 al 1975 in miliardo l’anno; dal 1976 al 1984 due miliardi e mezzo l’anno. Dall’amministrazione Reagan in poi la media si è assestata sui 5 miliardi e mezzo l’annui. Somme che non tengono conto di donazioni private comprese per le guerre combattute, premi per le conferenze di pace, investimenti in fondi americani.
Una legittimazione politica che fa il paio con quella commerciale e militare. Un quadro del peso dell’economia militare israeliana lo dà il libro “Gaza e l’industria israeliana della violenza”: nel 2011, il 6,5% del PIL (18 miliardi di dollari) è stato destinato all’esercito, ammontare a cui vanno aggiunti gli aiuti statunitensi (112 miliardi di dollari dal 1948, con l’ultima assegnazione decisa da presidente Obama nel settembre 2016 e pari a 38 miliardi in 10 anni; 43 mila impiegati nell’industria militare, 140 mila tenendo conto dell’indotto; mille aziende registrate al ministero della difesa e 680 quelle con licenza di esportazione.
Israele esporta il 75% della propria produzione militare (sesto al mondo in valore assoluto con quasi 7 miliardi e mezzo di dollari l’anno, dopo potenze come Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), forte di una lunga esperienza di conflitto ad alta intensità e della creazione di una macchina repressiva altamente tecnologica, quotidianamente sperimentata sui laboratori dei territori occupati. E se a Gaza si sperimentano tecnologie per operazioni militari, la Cisgiordania è il laboratorio per le armi non letali di controllo della folla, i proiettili rivestiti di gomma, i moderni gas lacrimogeni, la skunk water (acqua maleodorante usata per controllare l’ordine pubblico, non letale), le bombe sonore. Armi teoricamente non letali, vendute all’estero come “strumenti etici di dispersione delle proteste”, ma che uccidono regolarmente manifestanti palestinesi durante gli scontri nei villaggi, nei campi profughi o lungo il muro di divisione, lungo 780 km, oltre la linea armistiziale del 1947 delineata dalle Risoluzioni del C.d.S. ONU e in gran parte sui restanti territori palestinesi occupati, ritenuta illegale dalla Corte di Giustizia europea. Inoltre v’è la “cosi-detta guerriglia urbana asimmetrica” fatta unilateralmente da Israele con rastrellamenti, raid notturni, arresti indiscriminati, un sistema di repressione che ha permesso nei decenni lo sviluppo di un altro filone commerciale: quello della sorveglianza, delle prigioni di sicurezza, dei radar aerei, delle barriere elettrificate, delle torrette di avvistamento a controllo remoto, dei droni. Tutti strumenti che l’opinione pubblica europea comincia a conoscere sempre più da vicino perché impiegati lungo le frontiere usate dai rifugiati per entrare in territorio europeo e muoversi al suo interno.
(continua)
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