LA DESTRUTTURAZIONE DELL’IRAQ

LA DESTRUTTURAZIONE DELL’IRAQ

Milizie sciite vicino Kirkuk

Milizie sciite vicino Kirkuk

E’ ormai evidente il drammatico errore dell’intervento occidentale in Iraq sempre più destabilizzato e destrutturato, come ben ci spiega l’articolo che segue.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Il rapporto dell’ “United Nations Assistance Mission for Iraq” (UNAMI) del gennaio 2016 indica in 18.802 i morti e 36.245 i feriti fra gennaio 2014 e ottobre dell’anno successivo.

Le cifre non comprendono i morti per mancanza di cibo, acqua e servizi medici essenziali.

A questi dati si aggiungono 3,2 milioni di sfollati interni dall’inizio del 2014, quando i militanti di Daesh danno avvio alla conquista di vaste aree nel Nord Ovest del Paese seminando il terrore.

Il modus operandi dei jihadisti è connotato da crimini di guerra con esecuzioni in pubblico, decapitazioni, crocifissioni, persone bruciate vive e gettate dall’alto di edifici, utilizzo di bambini soldato, abusi sessuali su donne e bambini ridotti in schiavitù, demolizione di abitazioni e distruzione di siti archeologici.

I minori, che vengono uccisi se tentano la fuga, sarebbero circa 4 mila.

Costante, inoltre, è l’utilizzo di fosse comuni, la disseminazione di mine ed esplosivi lungo le strade e all’interno di abitazioni per ritardare l’intervento delle forze armate locali.

Questa situazione di caos è il prodotto unico delle violenze islamiste? La risposta è no.

Quanto sta accadendo è frutto anche dei settarismi interni esplosi dopo l’occupazione USA del 2003 che non ha solo devastato il Paese ma lo ha frammentato in gruppi, etnie e religioni.

In sintesi, le violenze in corso sono la risultante della frammentazione teorizzata dagli USA da oltre 20 anni, come più volte indicato.

E’ l’inizio di una vera e propria guerra civile costellata da sempre più frequenti casi di rappresaglie etniche compiute dalle varie forze armate contro i civili.

A Diyala, Anbar, Muqdadiya e Tikrit, le milizie sciite impediscono ai sunniti di rientrare nei loro villaggi.

A Kirkuk sono i curdi a bloccare i sunniti, secondo il rapporto di gennaio 2016 di Amnesty International che accusa i peshmerga di avere distrutto migliaia di case sunnite in almeno 13 comunità del Nord iracheno per impedire il ritorno dei residenti in zone considerate da Erbil loro territorio.

In questi attacchi i peshmerga sarebbero stati coadiuvati da unità yazidi, che avrebbero operato in ritorsione delle violenze subite da Daesh alle quali accusano i sunniti di avere partecipato.

Dopo le proteste dei parlamentari sunniti che a gennaio 2016 boicottano le sessioni alla Camera contro le violenze sciite, il premier al-Abadi cerca di evitare la frammentazione del Paese coinvolgendo i sunniti nella lotta contro Daesh e promette protezione.

Le milizie sciite, legate all’Iran e spesso indipendenti dal governo, fanno resistenza, anche a fronte della recente proposta del premier di inserire volontari sunniti tra le fila delle Hashed al-Shaabi, le unità di mobilitazione popolari sciite.

In realtà, la situazione continua ad aggravarsi.

Il portavoce del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) ha sospeso il Parlamento curdo già nell’ottobre 2015 e impedito al portavoce del Parlamento, Yosif Muhammed, di entrare a Erbil.

A livello socio-economico, i dipendenti pubblici sono senza stipendio da settembre 2014 e molti curdi disoccupati emigrano verso l’Europa per trovarvi lavoro.

Da ottobre 2015, si registrano proteste soprattutto nelle province di Selmania e Halabja, dove manca l’acqua pulita, l’elettricità e altri beni di prima necessità.

Nel Kurdistan iracheno è sempre più ampio il malcontento rispetto al rifiuto di Masoud Barzani di dimettersi dopo la fine di due mandati e della proroga di altri due anni.

Un passo indietro storico per comprendere il presente e ipotizzare l’evoluzione futura.

Dopo la rivolta curda del 1991, il governo iracheno e l’ONU hanno imposto al Kurdistan un embargo economico che limita il commercio fra curdi e il mondo esterno lasciando la popolazione curda in balia dei due partiti di allora, il PDK e l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK).

La guerra civile fra i due partiti nel 1994 ha diviso il Kurdistan in due zone e spinto i curdi a ricorrere al mercato nero per sopravvivere.

Per questo ogni volta che vi è una guerra mediatica o un disaccordo sul petrolio tra PDK e UPK, il PDK impedisce ai membri dell’UPK e alle agenzie di Stampa di entrare a Erbil dal check-point di Degala.

L’operazione “libertà per l’Iraq” nel 2003 era una grande opportunità per i due partiti di riunirsi per una coesistenza pacifica fra i vari settori sociali ma hanno fallito e deluso i curdi.

Pur sopravvissuti agli attacchi chimici su Halabjan nel 1988 e alla discriminazione messa in atto dal partito del Baath, la popolazione curda non ha più le forze per ricorrere ancora alla resistenza.

Come è potuto avvenire?

In realtà il controllo delle risorse naturali da parte dei leader dei partiti è la risposta per comprendere la trasformazione del vecchio spirito di coesistenza in debolezza, divisione e rabbia.

Oggi il popolo curdo chiede – e avrebbe bisogno di – un governo basato su Stato di diritto e democrazia, e non di leader carismatici o partiti-Stato, e necessita di giustizia, avvicendamento dei poteri decisionali e un’equa distribuzione delle entrate.

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Donne yazide

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