L’EGITTO A CINQUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE: LO STATO DELL’ARTE.

L’EGITTO A CINQUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE: LO STATO DELL’ARTE.

Il presidente egiziano Al Sisi quando era a capo delle Forze Armate egiziane

Il presidente egiziano Al Sisi quando era a capo delle Forze Armate egiziane.

Un bilancio chiaro e sintetico di cinque anni di ‘primavera’ egiziana.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

L’Egitto, nel triennio tra il 2011 e il 2013, è stato sconvolto da una rivoluzione e da una controrivoluzione che ha diviso un intero popolo in blocchi contrapposti, pro o contro Hosni Mubarak, pro e contro i Fratelli Musulmani e Moursi, pro o contro el Sisi.

Quasi a fattor comune in molti paesi del Medio Oriente, il vento della primavera araba e le mobilitazioni popolari non sono riusciti a realizzare – pur spazzando via alcuni dittatori – delle democrazie stabili, ad eccezione della seppur positiva, e ancora incompiuta, genesi tunisina.

La primavera araba egiziana, che ha sradicato dal potere il Rais Mubarak, ha concesso la possibilità di governare -seppur per poco tempo- a un Presidente, Moursi, che non proveniva dalle fila delle Forze Armate.

Da un regime militare si passava a un nuovo Stato embrionale pieno di contraddizioni, da elezioni stile “bulgaro” si assisteva per la prima volta a un ballottaggio del quale non si conosceva il risultato elettorale ancor prima di recarsi ai seggi.

Le prime mosse di Moursi sono state incoraggianti, con un approccio che si differenziava sensibilmente da quello dei predecessori; ben presto però si diffonde il malcontento in molti strati della popolazione a causa delle promesse disattese soprattutto in campo socio-economico.

Anche a livello politico i Fratelli Musulmani e Moursi hanno peccato di presunzione, dimostrandosi incapaci di trasformarsi da movimento contestatore a classe dirigente, bruciando nel breve volgere di un solo anno di potere una reputazione internazionale costruita con fatica.

Si è assistito a un crescendo di tensioni tra le varie cariche istituzionali con un apice raggiunto a seguito dell’entrata in vigore della nuova Carta Costituzionale.

Un braccio di ferro che degenera e spacca e insanguina nuovamente il Paese, spianando il terreno per la “controrivoluzione” del Generale Abdel Fattah el Sisi.

I Fratelli Musulmani, speranza di un nuovo Egitto post Mubarak, abili a colmare il vuoto politico creatosi all’indomani della caduta del Rais, dopo un anno diventano il fardello di una nazione in stallo.

E il popolo egiziano elegge con una maggioranza bulgara el Sisi nuovo Presidente, pur consapevole di dover pagare un “prezzo” molto alto nel riaffidare nuovamente l’Egitto ai militari, comunque considerati il male minore.

Con el Sisi al potere le Forze Armate si riposizionano (ammesso che nell’era Morsi avessero perso potere), all’interno di un “sistema Paese” tradizionalmente e storicamente militar-centrico.

Forze Armate impegnate a contrastare i rigurgiti dei Fratelli Musulmani ancora presenti sul territorio, a controllare l’esplosiva situazione nel Sinai e le infiltrazioni dei jihadisti, a sconfiggere i numerosi gruppi terroristici a difesa delle interpretazioni più o meno rigide di un Islam combattente.

A cinque anni dalla rivoluzione il Paese sembra essere, tra alti e bassi, abbastanza saldamente nelle mani di el Sisi che, con piglio autoritario, cerca di garantire una maggiore stabilità sociale e politica e di far riprendere un’economia bloccata.

Ripresa economica che, secondo vari indicatori e alcune agenzie di rating internazionali, s’intravede ma è ancora embrionale, rallentata dalla zavorra dei sussidi, dalle politiche d’assistenza e dei costi di un apparato statale elefantiaco e improduttivo.

Segnali positivi arrivano dalle entrate del Canale di Suez che, dopo i lavori di ampliamento, sono aumentate, dal turismo la cui ripresa però è a tappe forzate legata alla sicurezza (l’attentato all’aereo russo in Sinai pieno di turisti di ritorno da Sharm el Sheik di certo non aiuta), dall’aumento delle riserve valutarie della Banca Centrale.

Un Paese che però non è ancora a distanza di sicurezza dal baratro, e che ha bisogno di decisi interventi correttivi non più rinviabili. Gli aiuti internazionali e gli investimenti esteri non mancano, ma ciò di cui ha più bisogno l’Egitto è un efficace programma di riforme economiche strutturali: necessarie, dolorose e sicuramente impopolari.

El Sisi però non è riuscito a eliminare i dubbi sulla sua “reale” volontà di restaurare e riproporre una versione aggiornata dell’ancien regime; dubbi alimentati dal diverso andamento dei processi contro Moursi e Fratelli Musulmani da una parte, contro Mubarak e gli esponenti del suo vecchio partito dall’altra.

Il nuovo “Faraone” però non potrà continuare a sbandierare all’infinito la lotta dura contro i Fratelli Musulmani ritenuti la causa di tutti i mali, ma dovrà in breve tempo lanciare chiari e tangibili segnali di rinnovamento e di discontinuità con un passato di cui pochi nostalgici ne sentono la mancanza.

Il nuovo Presidente deve definitivamente chiudere la pagina di storia legata alle vicende dell’ex Rais Mubarak e ridurre il più possibile la presenza dei fulul (termine egiziano che identifica tutti coloro i quali hanno avuto un legame con il regime di Mubarak), ancora ben presenti negli apparati statali.

Questa, a oggi, è la fotografia dell’Egitto che lentamente tenta di risollevarsi, di rinnovare le strutture istituzionali con elezioni democratiche, di riprendersi l’antico ruolo nella regione mediorientale.

L’interesse dell’Egitto a riposizionarsi al centro dello scacchiere mediorientale è alto, come altrettanto forte è la voglia di el Sisi di rimarcare una propria credibilità e affidabilità internazionale, prendendo le distanze in toto dall’era Morsi e parzialmente da quella di Mubarak.

Un Egitto politicamente stabile ed economicamente solido è vitale anche per gli equilibri strategici nella regione, alla luce della comparsa dell’Isis, della guerra in Siria, del dissolvimento della Libia, del caos nello Yemen, del mellifluo ruolo dell’Iran, dell’Arabia Saudita e della Turchia.

Un Egitto, inteso come Stato, profondamente mutato in questi cinque anni ma ancora alla ricerca di una nuova via, a metà tra una restaurazione militare d’antica memoria nasseriana e una “compiuta” democrazia.

Alla ricerca di una nuova via, di una diversa identità, è soprattutto la parte più giovane della società egiziana che più s’è ribellata, che ha pagato e continua a pagare il prezzo più alto per un deficit di democrazia.

Giovani che, nel campo di battaglia preferito, i social network, appaiono sempre più depressi, delusi, smarriti e sfiduciati nella consapevolezza che i sogni della Primavera Araba e di quei venti giorni di rivoluzione che li hanno trasformati in eroi (solo per noi occidentali e peraltro già dimenticati), non hanno portato i frutti sperati.

Giovani che, nonostante le difficoltà e un clima che appare ancora eccessivamente repressivo, non mollano, non emigrano in massa e continuano a lottare politicamente nelle piazze quando concesso, o indirettamente attraverso l’impegno politico, la letteratura e le varie forme d’arte ed espressione. E tutto ciò per l’Egitto è una gran fortuna!

Una società egiziana che, comunque, nel suo complesso, non vuol più essere etichettata come nel recente passato una società militarista per il semplice fatto che rifiuta di essere governata dagli islamisti, o considerata antirivoluzionaria perché cerca una stabilità economica e sociale, o islamista perché mal sopporta il potere militare.

Una società alla ricerca di una nuova identità e, in particolare, di una nuova coscienza politica e culturale, riappacificata con il recente passato, meno classista e squilibrata tra ricchi e poveri; tutti valori che, a ben vedere, costituiscono il lascito della rivoluzione del 25 gennaio 2011 e, in qualche misura, della controrivoluzione dell’estate del 2013 per le quali molti egiziani sono morti.

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Il presidente egiziano Nasser, fondatore dell'Egitto attuale

Il presidente egiziano Nasser, fondatore dell’Egitto attuale.

 

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