Jihadisti europei. I nuovi strumenti della propaganda e del reclutamento per l’ISIS. Ovvero: come Twitter e Facebook sono diventati la voce dell’ISIS in Occidente.

Jihadisti europei. I nuovi strumenti della propaganda e del reclutamento per l’ISIS. Ovvero: come Twitter e Facebook sono diventati la voce dell’ISIS in Occidente.

Cosa rappresenta il Califfato per gli islamici e come mai si diffonde con tanta rapidità presso la gioventù, digital native…? Qualche interpretazione.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini 

James Fowley. R.I.P.

James Fowley. R.I.P.

L’assassino del giornalista americano James Foley la settimana scorsa a Raqqa e il sospetto, non ancora confermato, che possa essere stato effettuato da uno jhaidista made in England, ha risvegliato l’attenzione dei governi occidentali sul numero sempre maggiore di giovani che dall’Europa sono partiti per unirsi ai gruppi di combattenti islamici. Il condizionale è d’obbligo perché il video sembra essere stato creato unendo clip diversi, mancando così la certezza su chi abbia realmente ucciso il reporter. Ammettendo pure che il giornalista sia stato ucciso da qualcun altro, però, è da mesi che si è acquisita la consapevolezza che i combattenti europei si sono macchiati di crimini che superano l’uccisione di soldati regolari in combattimento. Le immagini diffuse in rete di giovani sorridenti, con in mano le foto decapitate dei loro avversari, postate orgogliosamente su profili facebook, twitter, instagram, youtube, sono diventate tristemente comuni.

Non facciamoci illusioni. L’impiego, laddove fosse confermato, di uno jihadista londinese per spedire un messaggio all’America è stato voluto ah hoc per il terrore che avrebbe creato sull’opinione pubblica. L’obiettivo è far sapere al mondo che i loro membri sono anche europei e che ciascuno di loro può diventare un combattente, un carnefice.

L’effetto è stato duplice. Da un lato ha reso la popolazione non musulmana occidentale irrequieta e insicura; dall’altro è pubblicità indirizzata a coloro che si stanno avvicinando allo jihadismo e vorrebbero partire per la Siria e l’Iraq. Come Raffaele Pantucci, direttore dell’International Security Studies, Royal United Services Institute, ha fatto notare (“Extremists preach to the converted and bid to provoke a global reaction” The Observer 24 Agosto 2014), le reazioni dei followers all’esecuzione di Foley sono state tutto fuorché di orrore, anzi: la sensazione principale era un senso di orgoglio, piacere per il potere dimostrato dal proprio gruppo e sulla “percepita” debolezza di un Occidente che non aveva voluto\potuto salvare uno dei loro.

Questo colpisce molto l’immaginario di una sezione del pubblico, in particolar modo dei “wannabe” di chi cioè vorrebbe partire. L’uso da parte dell’Isis di questi metodi propagandistici è particolarmente permeabile all’età media dei così detti nativi digitali, persone che sono cresciute respirando e vivendo all’interno dei social network. I giovani, spesso appartenenti alla seconda o terza generazione d’immigrati o neo convertiti, sono alla ricerca di una nuova identità giacché non possono integrarsi o respingono quella in cui sono cresciuti. Oltre a ciò vi è anche l’attrattiva di essere parte dell’esercito che riporterà il Califfato nelle Terre Islamiche. Per un occidentale l’appeal del Califfato è incomprensibile, ma per un musulmano è grandioso: significa il ritorno ad un periodo della storia in cui non solo la Sunna era la forza trainante nel mondo ma anche un periodo in cui unità e la fratellanza nella fede erano realtà. Questo, almeno, nell’immaginario collettivo poiché gli studiosi dell’Islam sanno bene che i più grandi scismi islamici si sono consumati in quel primo periodo. Divenire soldato dello Stato Islamico significa dunque essere pari a quei primi guerrieri che accompagnarono Muhammad durante l’Hijra e che con lui tornarono alla Mecca portando ordine e una nuova vera fede nel mondo. Si può ben capire l’attrattiva di questo sogno su persone incapaci di integrarsi in una cultura diversa dalla quale si sentono respinti.265px-FSA_soldiers_in_truck_moving

L’uso aggressivo dei social network è sicuramente una delle più grandi novità che questa guerra terroristica: mai prima d’ora il reclutamento era avvenuto principalmente in rete. L’ICSR londinese (International Centre for the Study of Radicalisation) ha analizzato per dodici mesi gli account di 190 conosciuti combattenti europei e ha dipanato la matassa di come le informazioni erano trasmesse e di come avvenivano gli arruolamenti. Punto chiave e snodo cruciale di questo sistema sono coloro che Peter Neumann, direttore dell’ICSR, ha definito disseminatori: persone anche non affiliate ufficialmente all’organizzazione che attraverso i loro tweet e messaggi divulgano e ampliano l’impatto e la propaganda della Jihad tra i guerriglieri e chi è ancora a casa. Sono loro a trasmettere informazione su cosa sta accadendo e dove, come vanno le cose a casa e a commemorare le morti di chi è ucciso in battaglia. Spesso sono persone che non vivono neppure in Siria, Iraq o Pakistan ma si trovano in Paesi europei, dove operano come trasmettitori d’informazioni. Inoltre sia su Twitter sia su Ask.FM (che appaiono essere i più apprezzati tra i network), è possibile contattare direttamente i combattenti e chiedere loro di persona consigli come cosa portarsi dietro e che tipo di clima si troveranno ad affrontare.

L’uso dei social network ha inoltre avuto il dubbio merito di rendere la Jihad democratica, almeno sul fronte di ‘genere’. Fino a dieci anni fa, sempre secondo Neumann, si potevano contare su una mano il numero di donne appartenenti a gruppi terroristici islamici ma, adesso, l’uso dei social network ha reso possibile a molte di loro partire, sposarsi con guerriglieri, combattere al loro fianco oppure restare in Europa e operare come fiancheggiatrici, raccogliendo fondi e preparare i viaggi per i nuovi volontari. È stato calcolato che ormai il 10-15% dei 3000 occidentali in Siria e Iraq è donna. Il caso più famoso è conosciuto è probabilmente Khadija Dare, 22 anni, inglese, che insieme alla sua gioia per l’esecuzione di Foley, ha proclamato in un tweet di voler divenire la prima donna a giustiziare un prigioniero (lei li ha chiamati terroristi). Vi sono altri casi di giovanissime, come le gemelle inglesi di sedici anni bloccate in extremis all’aeroporto dove tentavo di partire per unirsi all’ISIS oppure come Rosliana Adelline Geerman, 21 anni, belga, di Bruxelles reclutatrice dell’ISIS, bloccata mentre tentava di far partire due ragazze, una di 18 anni e una di appena 17, per la Siria dove avrebbero dovuto, si suppone, sposare membri dell’organizzazione terroristica. E, ovviamente, Samantha Lewthwaite, la “vedova bianca”, vedova appunto di uno degli attentatori che il 7 luglio 2005 scosse Londra.

Cosa si può fare per limitare questo tipo di proselitismo? Ogni tipo di azione è limitata da un lato dal fatto che per la sua stessa natura la rete è incontrollabile: per fare un esempio su YouTube sono caricate 100 ore di materiale ogni minuto. Ciò significa che una volta inserito un video di propaganda o un’esecuzione il minuto successivo è già troppo tardi per bloccarlo; né è utile cancellare account giacché, gli jihadisti, “migrerebbero” semplicemente su altri ancora meno controllabili siti. Questo è accaduto, ad esempio, la settimana scorsa quando più di un centinaio di pagine legate a guerriglieri, sono state chiuse su Twitter nello spazio di una notte: l’unico risultato è stato il trasferimento in massa su “Diaspora” sito più piccolo e, dove i dati degli utenti poiché conservati da server privati non sono cancellabili direttamente dall’amministratore.

Oltre a questa criticità si deve anche considerare come le diverse agenzie d’intelligence non vogliano chiudere ciò che è probabilmente il loro unico modo per individuare, seguire sia combattenti – è così ad esempio che stanno tentando di individuare il presunto assassino di Foley -, sia eventuali fiancheggiatori che potrebbero farsi sfuggire informazioni importanti. Ad esempio nomi e luoghi di fiancheggiatori o chi regola e dirige il flusso di denaro verso l’Oriente.

Il tentativo, infine, di applicare ai server europei un sistema di monitoraggio e controllo simile a quello cinese o russo sarebbe accolto con un’alzata di scudi e definito contrario alla libertà individuale. Basterebbe questo a paralizzare la volontà politica necessaria per portare avanti tale decisione e avrebbe come unico risultato di far apparire ancora più debole l’Occidente.

L’inerzia sul tipo di strategia specifica da applicare contro la prolificazione dell’ISIS in rete ha portato nell’ultimo anno a un aumento imponente della radicalizzazione di Musulmani e, pare, all’aumento di partenze verso le guerra mediorientali.

Non vi sono soluzioni semplici e la prossima battaglia contro la radicalizzazione sarà combattuta direttamente sul più grande strumento di propaganda adesso esistente, la rete, e in luoghi, virtuali, nati per rendere più facile fare amicizia, non certo combattere. Si dovrà decidere tra limitare la libertà del singolo per proteggere la comunità? A Londra in questi giorni si sta aprendo una Conferenza sull’Estremismo Online (Violent Online Extremism) con la partecipazione dei maggiori esperti mondiali sull’argomento che forse saprà darci qualche risposta.

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