I cambiamenti climatici in Medio Oriente e Nord Africa: un disastro sottaciuto.

I cambiamenti climatici in Medio Oriente e Nord Africa: un disastro sottaciuto.

Un’analisi molto interessante di Paolo Brusadin sulla situazione in Medio Oriente e in Africa per quanto riguarda il clima. Questa difficile situazione in realtà impatta anche sul nostro territorio, non solo per i flussi migratori che stanno arrivando e che difficilmente si fermeranno. Il problema è che nel Medio Oriente e in Nord Africa non solo vi è la mancanza delle risorse e delle infrastrutture, ma anche di una cultura diffusa relativa alla conservazione ambientale.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Di questi tempi si parla molto dei cambiamenti climatici e anche i più distratti di noi iniziano a comprendere la portata del fenomeno che riguarda tutti ed il cui impatto negativo, purtroppo, è destinato a peggiorare. Mentre in occidente si sta cercando di creare una nuova “cultura climatica” per ridurre le emissioni globali del gas e l’effetto serra, in altre parti del pianeta, in particolare nell’area MENA, Medio Oriente e Nord Africa, sembra che il problema non sussista. In verità, tutta l’area sta già subendo le conseguenze del cambiamento climatico ma mancano le risorse e le infrastrutture per fronteggiarlo.

L’anno 2022 è stato testimone dell’aumento delle temperature, di gravi siccità, delle inondazioni, dell’innalzamento del livello del mare e del deterioramento del suolo, con effetti diretti sulla stabilità sociale per il venir meno dei mezzi di sussistenza.

Parallelamente, si è assistito ad un aumento dei consumi energetici e del volume dei trasporti, in particolare nei Paesi del Golfo (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), in cui si registra un consumo di energia quasi raddoppiato rispetto alla media globale. 

In altri Paesi dell’Area del Medio Oriente, produttori di petrolio come l’Iraq, Oman ed anche Iran continuano ad utilizzare infrastrutture obsolete che causano una forte emissione di carbonio.

Pertanto tutta l’area MENA, che comprende circa il 6% della popolazione a livello mondiale, è fortemente vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici e non è pronta a fronteggiare una prevedibile recrudescenza.

Un effetto che diventerà ancor più grave è l’aumento delle temperature, sempre più estreme. In un trentennio, dal 1960 al 1990, la temperatura nella regione è aumentata ad un tasso dello 0,2° C. per decennio, mentre dal 1990 ad oggi la velocità è accresciuta, basti ricordare che in Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Iraq si sono registrate temperature superiori ai 50° C (54°C. in Kuwait e 53,9°C in Mesopotamia). 

Un recente studio redatto dalla Banca Mondiale prevede che l’area MENA dovrà sopportare una media di 4 mesi all’anno di sole cocente, con un aumento della temperatura media di 4°C. entro il 2050. Come se non bastasse, la regione potrebbe registrare circa 200 giorni all’anno di caldo eccezionale entro il 2100, con temperature che nelle città potrebbero arrivare a 60°C.

Va da sé che le alte temperature sono destinate a modificare i modelli meteorologici con conseguenze dirette sulla salute delle persone, portando in triste dote l’estremizzazione degli eventi metereologici, tra cui la siccità, gli incendi e le inondazioni che vanno ad incidere sull’approvvigionamento idrico, veicolo di conflitti, di tensioni sociali e dell’immigrazione non volontaria.

È altresì evidente l’incapacità di molti Paesi di fronteggiare la crescente domanda di energia elettrica a causa dell’aumento delle temperature che hanno anche causato numerosi incendi, in particolare in Algeria, in Tunisia ed in Libano. L’effetto collaterale, a parte le numerose vittime, è rappresentato dall’impossibilità di rigenerazione delle foreste con una conseguente modifica dell’ecosistema e perdita della biodiversità.

C’è poi il problema dell’accesso all’acqua, oggi già pressante in Iraq ed in Siria, con circa 12 milioni di persone in forte sofferenza. 

L’accesso alle risorse idriche, così come la sperequazione nello sfruttamento, rendono tale questione sempre più centrale, vincolante e condizionante per molti Stati. Quasi la metà della popolazione mondiale dipende dai sistemi fluviali (circa 260 bacini idrografici tra laghi e fiumi), comuni a due o più paesi; è il caso del Gange tra l’India e il Bangladesh, del Colorado tra gli Stati Uniti e il Messico, del Danubio tra la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria, dell’Amu Darja e lo Sjr Darja divisi tra cinque repubbliche ex sovietiche ecc…

Storicamente le varie popolazioni del Medio Oriente si sono insediate lungo i corsi d’acqua, basti pensare al Nilo per gli egiziani e i sudanesi o il Tigri e l’Eufrate per i mesopotamici, sviluppando nel tempo una capacità di gestione delle preziose risorse idriche. 

I cambiamenti climatici porteranno in dote delle conseguenze negative per le varie comunità che, peraltro, già vivono in condizioni precarie. Sempre secondo la Banca Mondiale, entro pochi anni, da oggi al 2025, solo in queste zone circa 90 milioni di persone saranno fortemente esposte alla mancanza d’acqua.

Una caratteristica delle risorse idriche particolarmente rimarcabile in Medio Oriente è la loro non omogenea ripartizione. In una determinata zona, tra due paesi limitrofi o all’interno di uno stesso Stato, si riscontrano profonde disparità.

La qualità d’acqua non è meno importante della quantità. Il fiume Giordano che scorre oltre che in Giordania anche in territorio israeliano, palestinese, siriano e libanese, ha acque dolci a monte del Giordano, sulle alture del Golan, mentre nel lungo tratto che dal lago di Tiberiade arriva al Mar Morto le acque sono salate.

In definitiva, in Medio Oriente l’acqua (relativamente poca) vale quanto il petrolio (relativamente tanto) ed è causa di tensione tra gli Stati, basti pensare alla Diga Annahda – Diga del rinascimento, e per le ripercussioni sul flusso del fiume Nilo, con la contrapposizione tra l’Egitto e l’Etiopia.

La lotta per il controllo e lo sfruttamento delle acque del Nilo, erroneamente associato unicamente all’Egitto, è un problema atavico che si trascina da più di un secolo e che riguarda in primis l’Etiopia, ma anche l’Uganda, il Kenya, il Ruanda, la Tanzania, il Congo, il Burundi e l’Eritrea. 

È sempre attuale il problema di un equo sfruttamento delle risorse comuni tra Israele e la Palestina, in particolare per quanto riguarda l’utilizzo delle falde acquifere che nascono in Cisgiordania, così come la costruzione della Diga in Turchia nei fiumi Tigri ed Eufrate che ha ridotto il flusso d’acqua verso l’Iraq e la Siria.

In Siria il problema dell’acqua è atavico, essendo il Paese “Eufrate dipendente”, o più precisamente, dipendente dai progetti turchi che condizionano la disponibilità dell’accesso all’acqua per i siriani al variare della temperatura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi confinanti.

In Iraq gli esperti prevedono che le acque dell’Eufrate siano destinate a restringersi con conseguenze nefaste sulla popolazione. Il Tigri e l’Eufrate hanno reso leggendaria la fertilità di una regione molto grande, la cosiddetta “Mezzaluna fertile”, teatro migliaia d’anni fa della prima (e possiamo dire unica) guerra per l’acqua che la storia ricordi, tra i re di Umma e di Girsu, oggi costituiscono un problema alla luce della situazione politico – sociale in cui versa l’Iraq.

La sommatoria tra l’innalzamento delle temperature, la drastica diminuzione delle precipitazioni e la riduzione delle fonti d’acqua dolce creeranno gravi problemi al settore agricolo ed alla catena alimentare in tutta la regione MENA. Un settore che impiega complessivamente circa il 35% della popolazione e contribuisce per il 13% alla formazione del PIL. Così come i problemi si riverbereranno sull’allevamento del bestiame con la riduzione della quantità e della qualità del mangime, la mancanza dell’acqua da bere e l’aumento delle malattie.

Sussiste poi il problema dell’innalzamento del mare, considerando che la popolazione della regione MENA è concentrata nelle zone costiere. Una regione tra le più vulnerabili del pianeta con alcuni paesi a forte rischio, tra cui la Tunisia, il Qatar, la Libia, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait e l’Egitto. Secondo gli esperti, l’innalzamento di un metro del livello del mare avrebbe delle conseguenze negative per il 3,5% della popolazione e la forte perdita della superficie agricola.

Il cambiamento climatico in Medio Oriente e in Nord Africa va dunque letto come un moltiplicatore di minacce, portatore di ulteriore instabilità politica, migrazione, disoccupazione, carestie e malattie.

Cosa fare per cercare, quanto meno, di limitare i danni? Certamente è necessaria una fattiva cooperazione tra i vari Stati, anche a livello sovranazionale, soprattutto nelle aree dove maggiormente scarseggiano le risorse idriche e cercare d’invertire un trend negativo. Inoltre le autorità governative dovrebbero seriamente impegnarsi per ridurre le emissioni di gas serra e diversificare l’economia. Un primo passo tangibile potrebbe essere la ratifica da parte di tutti i Paesi MENA dell’accordo di Parigi (ad oggi mancano all’appello l’Iran, l’Eritrea, la Libia e lo Yemen). Sono necessarie azioni concrete e decise da parti di tutti gli Stati che non si limitino, come è successo sino ad oggi, ad azioni green washing, di pura facciata e non in chiave prospettica. 

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