Il primo di una serie di approfondimenti sull’Iran: storia, economia, politica attuale (con foto in esclusiva per OA; proprietà riservata)
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
Dopo quasi un mese dalla decisione del presidente Donald Trump di uscire dall’Accordo nucleare del 2015, la Guida Suprema Alì Khamenei, all’inizio del giugno scorso dichiara: “gli europei sognano se credono che l’Iran possa continuare a rispettare l’Accordo nel caso entrino in vigore nuove sanzioni economiche contro di noi”.
Non si ferma qui. Khamenei aggiunge di aver “ordinato preparativi per l’eventuale ripresa dell’arricchimento dell’uranio, per ora rimanendo all’interno delle previsioni previste nel JCPOA(Joint Comprensive Plan of Action)”.
La Guida Suprema si è espresso con queste parole nel Mausoleo dedicato all’imam Khomeini, commemorando la sua morte avvenuta 19 anni prima. Era stato lui, il fondatore delle Repubblica islamica, a mettere fine al nucleare civile avviato dalla shah Muhammad Reza Pahlavi negli anni Cinquanta, in collaborazione con gli americani.
Sull’accordo firmato a Vienna il 14 luglio 2015, il leader Supremo Khamenei ha sempre manifestato perplessità. Se successivamente aveva ceduto, è perché la fine delle sanzioni avrebbe potuto risollevare l’economia.
L’Europa deve tremare all’idea che Khamenei abbia ordinato di riprendere l’arricchimento dell’uranio?
Il vecchio continente non rischia di essere preso di mira: negli ultimi secoli l’Iran non ha attaccato alcun Paese. Al contrario, è stato invaso dagli Alleati nel 1941 e da Saddam Hussein nel 1980. E proprio per questo l’Ayatollah e i Pasdaranconsiderano i missili come un deterrente.
Senza l’accordo, l’Iran potrà ridurre le tempistiche necessarie per eventualmente passare da utilizzi civili a militari dell’energia nucleare, creando nuove incertezze e tensioni nella regione mediorientale.
Di fatto, il fallimento dell’accordo sul nucleare e l’isolamento dell’Iran nel quadro regionale e internazionale hanno rappresentato due obiettivi strategici israeliani, da perseguire per impedire la ripresa economica della Repubblica islamica.
Il rischio per Israele è – secondo il ricercatore Michele Gaietta – “che il livello di scontro, puntualmente innalzato negli ultimi mesi, possa arrivare a un punto di rottura, portando a un confronto armato in risposta a possibili operazioni dell’intelligence e attacchi mirati nei confronti di obiettivi iraniani”.
In ogni caso, in questo gioco pericoloso a perderci parecchio sono il presidente moderato Hassan Rohani e il suo ministro degli esteri Zarif, che avevano fatto dell’accordo nucleare il perno della loro proposta politica di apertura dell’Iran nel sistema internazionale.
Ma anche Bruxelles aveva raggiunto uno dei risultati più significativi in politica estera.
L’impressione è quindi che Rohani, Zarif e la diplomazia europea stiano nello stesso campo. Solo un buon gioco di squadra potrebbe riuscire a farli vincere contro l’America di Trump e i falchi israeliani.
Comunque, il ministro degli esteri iraniano, Javad Zarif fa ricorso al Tribunale del sistema ONU: secondo il regime, le nuove sanzioni decise dagli USA, dopo il recesso dall’accordo nucleare e che dovrebbero entrare in due trance (ad agosto e a ottobre), sono illegittime per il trattato sulle relazioni economiche e consolari firmate dai due Paesi nel 1955 e tuttora in vigore. Al momento la Casa Bianca non commenta ma il 17 luglio scorso ha inviato una delegazione di alto livello a New Delhi per discutere del tema con il ministro degli esteri indiano.
A Teheran la preoccupazione è che, chiuso per il momento il dossier nordcoreano, l’amministrazione Trump concentri ora tutta la sua aggressività in politica estera sul “nemico” iraniano, sotto la spinta delle pressioni del governo israeliano. Con il rischio concreto che lo scontro diplomatico e economico si trasformi presto o tardi in un conflitto militare.
I timori degli iraniani sono ben fondati, le parole di Trump non lasciano dubbi: Spero cha al momento giusto, dopo le sanzioni, che sono davvero brutali, l’Iran torni a sedere al tavolo dei negoziati: ora è troppo presto, ha detto dopo il Summit di Singapore. I negoziati che ha in mente Trump hanno un unico obiettivo: riscrivere il contenuto del JCPOAdel 2015, per inserirvi forti restrizioni non solo sulle attività nucleari ma anche allo sviluppo di missili balistici da parte degli iraniani in modo da ridurre le capacità difensive e offensive di Teheran, a vantaggio di Israele che, forte anche del possesso (segreto) di armi nucleari, rafforzerebbe ulteriormente la sua supremazia strategica nella regione mediorientale.
C’è un’amministrazione diversa, c’è un presidente diverso, un segretario di Stato diverso. Per loro non era una priorità, per noi lo èha detto Trump, marcando la differenza con l’amministrazione Obama.
La difesa europea del JCPOAè un muro di argilla. Teheran lo sa e non si accontenta delle rassicurazioni dell’Alto rappresentante della politica estera dell’UE, Federica Mogherini.
Si indebolisce di pari passo la posizione del presidente iraniano Rohani, il maggior sostenitore in patria dell’JCPOA. I conservatori sostengono più che mai che “negoziare” con l’Occidente sia stato un errore e che l’Iran debba riprendere con il massimo della forza il programma nucleare e lo sviluppo dei missili. Keyhan, principale quotidiano oppositore della linea di Rohani, scrive: ‘le buone’ con l’Occidente è controproducente mentre con le ‘cattive’ si raggiungono risultati concreti.
Hanno avuto un riflesso immediato i 2,5 miliardi di dollari che, lo scorso 10 giugno, assieme a Emirati e Kuwait, l’Arabia Saudita ha messo a disposizione della Giordania, attraversata nei giorni scorsi da proteste e manifestazioni contro la politica economica dell’ex premier Hani al Malqi. Il 9 giugno la Giordania ha annunciato di aver “trasferito”, ossia richiamato in patria, il suo ambasciatore in Iran, Abdullah Abu Rumman.
Una decisione che il governo di Amman ha spiegato con una presunta “interferenza dell’Iran negli affari regionali” e con la preoccupazione della Giordania per la “sicurezza della regione e in particolare dell’Arabia Saudita e dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo”.
Il passo giordano prosegue quello, altrettanto immotivato, mosso qualche settimana fa dal Marocco, sempre su pressione saudita, per accrescere l’isolamento di Teheran.
Ora, sussurra re Abdallah potrebbe dare appoggio all’ ”accordo del secolo” di Trump per la “soluzione” della questione israelo-palestinese, cioè tutto a Israele e nulla ai palestinesi.
Infine, il 4 luglio la Corte Suprema USA ha dato ragione al presidente Trump sul decreto esecutivo contro i musulmani, in cui sono inclusi i cittadini dell’Iran ma non dell’Arabia saudita. Una misura che mette in ulteriore difficoltà il presidente moderato Rohani di fronte al suo elettorato.
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