L’Iran sull’orlo di una rivoluzione popolare o politica?

L’Iran sull’orlo di una rivoluzione popolare o politica?

L'ayatollah Sayyed Ali Khamenei, Guida Spirituale dell'Iran

L’ayatollah Sayyed Ali Khamenei, Guida Spirituale dell’Iran

Trentanove anni di potere politico-religioso in Iran hanno riportato questo Stato, di antica cultura e tradizione, a essere uno dei pivot della politica mediorientale, molto più di quando regnava la dinastia Pahlavi, con difficoltà interne dovute al radicale cambiamento di filosofia di governo. È però necessaria alla regione strategica una stabilizzazione che comprenda anche l’Iran, evitando qualsiasi rivoluzione. Sarà possibile?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

L’Iran nel panorama mediorientale rappresenta un unicum non comparabile con altre realtà statuali della regione: non è né una democrazia compiuta giacché gli organi religiosi che controllano e esercitano una grande influenza sulle più importanti istituzioni sono nominati e non eletti, né una dittatura perché il Presidente ed il Parlamento sono eletti dal popolo.

Possiamo definire l’Iran come una teocrazia islamica, guidata da religiosi che indirizzano la politica del Paese in un miscuglio di democrazia e di dittatura, con la supremazia -ad oggi- della parte più conservatrice e radicale dell’elite politica.

L’ondata di proteste che ha investito la Persia nei giorni a cavallo tra il 2017 e il 2018 e che ha causato una ventina di morti, seppur rilevante e da monitorare, non stupisce e non può essere catalogata, almeno per il momento, come una rivoluzione.

Infatti, le proteste popolari in Iran non sono mai inaspettate e ciclicamente, a partire dalla Rivoluzione Costituzionale del 1906, presentano il conto; nemmeno la Repubblica Islamica fondata nel 1979 ne è stata immune, basti ricordare le reiterate proteste studentesche negli anni novanta e il Green Movement del 2009.

In quest’ultime manifestazioni centinaia di persone sono scese nelle strade di Mashad, seconda città iraniana per numero d’abitanti, e in altre più piccole, in particolare nella parte nord est del Paese come Neyshabur, Birjand, Qom ed Isfahan, scandendo slogan contro Rohani e Khamenei e a favore dello Shah Reza Pahlevi.

Gli slogan pro Shah sono legati alla repressione culturale che il clero sciita esplicita maggiormente nelle piccole città e nei villaggi, e lo Shah è identificato quale acerrimo nemico del potere religioso.

La quantità di manifestanti è stata significativa, ma non comparabile con le migliaia di persone (la cosiddetta onda verde) che occuparono le piazze e le strade anche della capitale Teheran.

Certo è che il flusso delle proteste, che peraltro s’è velocemente affievolito, se nuovamente alimentato potrebbe evolversi in una situazione potenzialmente rivoluzionaria.

La conditio sine qua non affinché ciò possa verificarsi è un allargamento della fascia di popolazione che osa sfidare il regime scendendo nelle piazze, non limitata ai giovani e ai più poveri com’è successo ora con le manifestazioni contro il carovita (causa scatenante l’aumento del prezzo delle uova e il taglio dei sussidi), ma intaccando la vasta fascia media, la middle class, vero traino dell’economia. Possiamo dire che il prototipo del manifestante attuale è più proletario e meno intellettuale di quello del 2009.

Gli slogan utilizzati sono stati l’espressione di una crescente frustrazione per la complicata situazione economica e per una dilagante corruzione, condite dal classico sciovinismo anti arabo.

La crescente frustrazione della popolazione è legata anche al continuo aumento dei finanziamenti pubblici a favore delle fondazioni religiose, dei centri di ricerca e di altre istituzioni religiose. Cinquanta di queste organizzazioni nel 2018 si spartiranno, per promuovere la propaganda islamica, una somma superiore ai cinquanta milioni di dollari.

Si calcola che l’apparato religioso nel suo complesso rappresenti quasi un terzo di tutta l’economia iraniana, ma non è soggetto agli stessi livelli di tassazione e di controllo cui devono sottostare i privati.

Buona parte degli introiti ricavati dal petrolio sono stati destinati a finanziare “campagne” militari fuori dai confini nazionali: in Siria, in Iraq, nello Yemen, in Libano e a Gaza.

Strategia militare che non ha il sostegno della popolazione e che non a caso durante le manifestazioni ha gridato anche “…né Gaza e nemmeno in Libano, diamo la vita solo per l’Iran..”.

Il complicato accordo sul nucleare e il conseguente allentamento delle sanzioni economiche hanno sì migliorato la situazione economica, meno però di quanto preventivato e auspicato dalle autorità locali.

Certo è che nell’ultimo decennio la speranza di un accordo tra gli Stati Uniti d’America e l’Iran si è più volte alternata con il gelo nelle relazioni diplomatiche; il tutto a scapito del tessuto socio-economico iraniano.

Un tessuto socio-economico che nel corso degli anni è mutato completamente perché mentre la Rivoluzione khomeinista è servita per elevare la fascia più povera della società iraniana trasformandola in classe media, nell’ultimo ventennio si è assistito a un lento processo inverso con il progressivo impoverimento della borghesia.

Il lungo braccio di ferro con gli Stati Uniti d’America non ha giovato all’Iran giacché, a una primavera nelle relazioni tra i due Paesi che è coincisa con la presidenza iraniana del riformista Mohammed Khatami, è seguito l’inverno con l’avvento al potere di Ahmadinejad e la decisione di proseguire il programma nucleare.

L’ostilità crescente di Ahmadinejad nei confronti dell’occidente e di Israele, ha accelerato la decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite d’imporre le sanzioni economiche all’Iran. Sanzioni che hanno condizionato i successivi rapporti tra le nazioni ed hanno favorito l’ingresso al tavolo dei negoziati della Cina e della Russia, quest’ultima sempre critica nei confronti della politica estera americana.

Anno dopo anno la morsa dell’embargo si è sempre più stretta attorno all’economia iraniana ricca di risorse ma strutturalmente molto fragile, con effetti devastanti.

Nel volgere di alcuni anni, è apparsa del tutto evidente la necessità per l’Iran di tornare al tavolo della negoziazione con gli americani per risolvere la questione.

Ciò è avvenuto sotto la presidenza americana di Obama e di quella iraniana di Hassan Rouhani con vantaggi opposti: più politici per gli americani e maggiormente economici per gli iraniani.Adesso, con le azioni e le dichiarazioni della presidenza Trump, tutto è nuovamente in discussione.

Sul tappeto restano tutti i problemi economici di un Iran alle prese con un tasso di disoccupazione -in particolare della fascia più giovane della popolazione- in continua crescita (al 12% secondo le statistiche ufficiali, de facto sopra il 25%), e con un mercato finanziario in difficoltà.

In Iran tre milioni di studenti si stanno preparando per sostenere il prossimo esame di scuola superiore che dà accesso ai corsi universitari; il problema è che le Università Statali sono in grado di reclutare non più di trecento mila studenti, marginalizzando tutti gli altri e costringendoli a entrare subito in un mercato del lavoro stagnante che non offre grandi possibilità.

In altre parole: un tasso d’inflazione sotto controllo e la crescita economica sotto la gestione di Rouhani non hanno (ancora) creato un numero significativo di nuovi posti di lavoro, in un Paese in cui metà degli ottanta milioni d’abitanti ha meno di trent’anni.

Secondo molti osservatori, al di là delle questioni economiche, ci sarebbero le lotte intestine tra le diverse fazioni per individuare il successore di Ali Khamenei, la guida spirituale del Paese che, tra l’altro, non gode di ferma salute. La posta in gioco è altissima, non solo per gli equilibri interni dell’Iran, ma anche di tutta la regione.

L’aumento del caos interno creerebbe un forte scompenso e vedrebbe l’Iran impegnato a respingere una probabile interferenza nella gestione degli affari interni da parte di alcuni paesi vicini.

Ciò in risposta all’attitudine iraniana che, a più riprese e con interventi diretti o sottotraccia, ha cercato d’influenzare l’andamento delle rivoluzioni scoppiate nei paesi vicini, che non aspettano altro che un’occasione per ricambiare il favore, senza tralasciare l’acerrimo nemico saudita. La preoccupazione delle Autorità iraniane permane alta, anche se i riflettori dei media internazionali sono già puntati su altri scenari.

Di certo, se le proteste popolari potranno essere gestite dalle Autorità e incanalate con il pugno di ferro dalle Guardie Rivoluzionarie rendendo però il Paese una polveriera, più imprevedibile è il confronto politico interno (successione della Guida spirituale), che potrebbe portare a degli sviluppi inaspettati, finanche a una rivoluzione, però di matrice politica.

©www.osservatorioanalitico.com – Riproduzione riservata

 cartina_geografica_iran

Comments are closed.