TUNISIA. RITORNO AL PASSATO?

TUNISIA. RITORNO AL PASSATO?

Beji-Caid-Essebsi, Presidente della Tunisia

Beji-Caid-Essebsi, Presidente della Tunisia

Aggiornamenti sulla situazione attuale in Tunisia e riflessioni sulla presenza di foreign fighters di ritorno

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

1.Un giovane si dà fuoco per disperazione.

Il 12 dicembre scorso un uomo di 27 anni si rovescia addosso benzina, che accende con un fiammifero sulla piazza centrale della cittadina di Thyna, sulla costa della Tunisia di fronte all’Italia.

Il giovane ha tentato di immolarsi davanti alla sede della Guardia Nazionale, che gli aveva appena sequestrato il camion cisterna pieno di 1.400 litri di carburante, come numerose altre volte.

L’uomo vuole ricordare la vicenda di Bouazizi datosi fuoco il 17 dicembre 2010 di fronte alla sede del governatorato e della Polizia di Sidi Bouzid che gli aveva sequestrato per l’ennesima volta il camioncino con cui si guadagnava da vivere vendendo verdura come ambulante abusivo, senza licenza commerciale.

Il gesto di Bouazizi scatenò la rivolta contro il regime di Ben Alì, innescando il movimento del 2011 – chiamato dai media poco attenti – “primavere arabe”, in realtà movimenti di ribellione di diversa natura.

Il contrabbandiere da Thyna, a dodici chilometri da Sfax, è trasportato all’ospedale Habib Bourguiba di Sfax dove è ricoverato con ustioni di secondo e terzo grado, ma in condizioni giudicate stabili. Diverso è stato il caso di Bouazizi, che morì dopo 18 giorni di agonia.

2.I foreign fighters.

Fadha Ghozlani, trentacinquenne, vive con le sue quattro figlie in una baracca nelle campagne di Kasserine, città tunisina a trenta chilometri dal confine con l’Algeria, da quando suo fratello Sayed è assassinato da un gruppo di miliziani di DAESH nella loro casa di Thmab, sulle montagne Mghila, poco distanti da lì.

Fadha spiega: “Sono entrati in casa, hanno riunito gli uomini, li hanno fatti inginocchiare e hanno preso Sayed, uccidendolo con un solo colpo alla nuca… non avrei mai pensato che Muntasir potesse fare una cosa del genere”, poi aggiunge: “Muntasir, uno dei terroristi, era cugino di Sayed. I due venticinquenni erano cresciuti condividendo l’infanzia in una delle zone rurali più povere del Paese. Una famiglia di pastori la loro: i padri al pascolo con le bestie; le donne, in casa, si occupavano dei bambini, lavavano i loro abiti, preparavano da mangiare”.

Fadha racconta anche che “erano due ragazzi esemplari fino alle scuole superiori. Poi Sayed decide di lavorare come soldato nell’esercito e Muntasir appoggia i gruppi estremisti sulle montagne … la sera in cui è stato ucciso, Sayed si muoveva come se sapesse che stava per accadere qualcosa, ma lui era qui per portare soldi a me e a nostra madre, per comprare da mangiare”.

“La nostra casa è una baracca di pochi metri quadri, una sola stanza con un letto, coperte sporche e una tanica con l’acqua e pur se Sayed lavorava nell’esercito e difendeva la sicurezza del Paese, io e mia madre elemosiniamo alla Stato un aiuto che non arriva… ci sentiamo abbandonati, come tanti ragazzi di qui, che vivono circondati da disoccupazione ed estremismo”.

Le dichiarazioni di Fadha sono più convincenti di ogni analisi socio-psicologica sulle motivazioni che spingono migliaia di giovani tunisini a unirsi a DAESH. La loro rassegnazione è nei volti che incontrano nei bar affollati di giovani nelle vie della cittadina, in giornate vuote, sempre uguali e senza prospettive. Giovani privi di fiducia, delusi dalle promesse della transizione democratica seguita alle rivolte del 2011.

Oggi, cadute le capitali del presunto “Stato Islamico”, i miliziani legati a DAESH sulle montagne fra Tunisia e Algeria, sono oltre 300. Di giorno si addestrano e di notte fanno incursione nei villaggi per procurarsi qualcosa da mangiare, rubare il bestiame, uccidere.

3.La radicalizzazione

Per i giovani tunisini, l’apparente successo del processo democratico della rivolta, dal Paese Nobel per la pace nel 2015, alle elezioni del 2011 e 2014 e la nuova Costituzione non presenta un cambiamento delle condizioni di vita, e ancora aspettano che il governo risolva i problemi strutturali che affliggono il Paese: la disoccupazione giovanile è al 40/%, per una popolazione di 11 milioni di persone e più di 650 mila disoccupati.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, sarebbero tra i cinquemila e i seimila i giovani tunisini divenuti miliziani di DAESH per combattere in Iraq, Siria e Libia negli ultimi anni. La maggior parte di loro proviene da zone rurali e periferie di Tunisi, aree in cui la marginalizzazione sociale, l’esclusione politica e l’altissimo tasso di disoccupazione sono stati fattori determinanti nella scelta di combattere per il “Califfato”.

Sono tunisini i terroristi che hanno attaccato la località turistica di Sousse, il Museo Bardo, ed era tunisino anche Anis Amri, l’attentatore che ha travolto con un camion un mercato di Natale a Berlino il dicembre 2016. Tunisino era pure Mohamed Lahouaiej Bouhle, che ha investito la folla a Nizza con un tir nel luglio 2016. Tutti gli attentati sono stati rivendicati da DAESH.

Attualmente, la Tunisia deve gestire i foreign fighter di ritorno, ma Badra Galoul – presidente del Centro Internazionale di studi strategici e militari di Tunisi dichiara – ”Non abbiamo mezzi per controllarli”. Badra è contraria al ritorno dei combattenti, nonostante la nuova Costituzione del 2014 prevede che nessun cittadino tunisino possa essere privato della cittadinanza, né che possa essere negato a qualcuno il ritorno in patria.

La presidente del Centro Internazionale aggiunge “I centri di riabilitazione costano e noi non abbiamo denaro. Di progetti di deradicalizzazione non c’è traccia e anche se ci fosse, non credo funzionerebbe. Potrebbero dare risultati forse Francia e Belgio, su numeri minori, ma qui stiamo parlando di 900 persone già in carcere e 3.000 che potrebbero ritornarvi: cosa dovremmo dire loro? Accomodatevi, avete perso la guerra e il vostro Califfato, ora tornate pure a destabilizzare il Paese con il vostro odio e la vostra violenza? No”

4.L’afflusso

I militanti si starebbero riorganizzando in Turchia e Libia. Report sui gruppi in Somalia e in Niger avvisano di cellule dormienti nelle periferie tunisine. Continua Badra Galoul: “E’ il nostro vicolo cieco, ma la storia ci insegna che non possiamo ignorare la realtà. Guardiamo all’esperienza dei vicini algerini e all’ondata di violenza durata 10 anni, con i jihadisti che avevano combattuto in Afghanistan tornati a casa con l’intento di stabilire la legge islamica. I risultati sono stati una guerra brutale e una riconciliazione solo fittizia. L’altra soluzione sono le prigioni. Ma stiamo parlando di migliaia di ragazzi fra i 25 e i 30 anni che hanno cercato di costruire la propria identità affiliandosi a gruppi armati e che tornano sconfitti dopo aver passato anni al fronte. Forse saranno condannati per terrorismo. Quindi, fra 15 – 20 anni saranno fuori della prigione più rancorosi e radicalizzati di prima. Ma la storia ci insegna anche questo: quanto le prigioni aumentino il problema, anziché risolverlo. La Tunisia non è pronta”.

Dopo aver spiegato i problemi, sostiene che i foreign fighters di ritorno possono rappresentare un esempio da emulare per l’enorme quantità di giovani cui è stato impedito di partire. Una delle leggi emanate per lo stato di emergenza prevede, infatti, che gli uomini al disotto dei 35 anni possono con un permesso scritto dai genitori lasciare il Paese.

Secondo le stime della Galoul, i giovani radicalizzati in Tunisia sarebbero almeno 27 mila: ”Immaginate cosa possa significare, per chi non è riuscito a partire e combattere, entrare a contatto con i terroristi che tornano a casa. Si innescherebbe un meccanismo imitativo ancora più acuto del passato, perché nutrito di frustrazione mista ad adorazione”.

Fuori dal centro di studi militari, lungo le strade sfila intanto il funerale di Riadh Barrouta, il comandante di polizia accoltellato al collo il 1°novembre scorso.

L’assassino, Zied Gharbi, nome di battaglia “Zied Abou Zied”, informatico e disoccupato di 25 anni, sarebbe collegato ai gruppi fondamentalisti di Cité Ettadhamen, sobborgo a Nord Ovest di Tunisi ad alta concentrazione di salafiti, in passato aderenti ad Ansar Al Sharia e che è stata fucina di combattenti per DAESH. A Ettadhamen il sostegno ai gruppi estremisti è ancora solido. Quando la polizia ha perquisito la casa di Gharbi, i vicini hanno lanciato sassi e pietre contro le loro vetture.

Anche Mohammed viveva ad Ettadhamen, prima di partire per la Libia e poi raggiungere la Siria, da cui non ha fatto ritorno. Sua madre, Naziha, ancora lo aspetta. “Un giorno hanno bussato alla mia porta gli stessi che me lo hanno portato via. Mi hanno detto: “Naziha devi essere fiera: sei la madre di un martire di Allah, è morto combattendo”. Io non ci credo. “Non so se tornerà, dice piangendo – mentre guarda la fotografia del ragazzo appesa a un muro – ma quegli uomini sono ancora in mezzo a noi e parlano di martirio in mezzo alle strade con i loro figli, con bambini di 10 anni e reclutano giovani per il jiadh. Anche ieri ho sentito uno di loro che diceva che sarebbe fiero se uno dei suoi figli si facesse saltare in aria “.

Il fatto che un alto numero di “aspiranti jihadisti” siano in Tunisia è un pericolo anche per l’Italia, che, grazie ai buoni rapporti con il Paese e il suo presidente, è stato in grado di ottenere una ottima intesa tra il suo intero sistema di sicurezza e quello tunisino.

5.Le donne tunisine in patria

Si fa riferimento sintetico a un articolo di Giuliana Sgrena, che segue da anni la situazione della Tunisia in particolare in merito alla situazione delle donne.

Sin dal 13 0ttobre 21017, il presidente tunisino Béji Caid Essebsi, in occasione della giornata della donna – e anniversario della proclamazione del codice della famiglia del 1956 – ha voluto riconoscere il ruolo delle donne tunisine nel progresso del Paese.

Il presidente annuncia subito la composizione della commissione che sarà presieduta dalla deputata Bochra Belhaj Hamida, avvocato che ha militato nel sindacato e partecipato alla fondazione dell’Associazione tunisina delle donne democratiche e dell’Associazione delle donne per la ricerca e lo sviluppo.

Eletta nel Partito laico Nidaa Tounes, l’avvocato Bochra si è impegnata per l’approvazione della legge contro la violenza sulle donne.

Le donne tunisine da anni lottano per ottenere la parità nell’eredità e anche la possibilità di sposare un non musulmano (finora ai musulmani è permesso di sposare una donna che appartenga a una religione del libro: ebrea, cristiana o musulmana). Anche questo punto è stato toccato dal presidente Essbsi che, rifacendosi alla libertà di pensiero garantito dalla Costituzione, afferma che “è necessario emendare il decreto numero 73”, quello che impedisce alle donne di sposare un non musulmano.

L’affermazione dei diritti delle donne, secondo il capo dello Stato, si basa anche sul ruolo che la donna tunisina ha nella società: la donna partecipa per il 45% alle spese familiari, il 54%dei crediti sono contratti dalle donne ma solo il 6,6% degli investimenti sono fatti da loro.

Infine il presidente Essebsi insiste sulla necessità di riequilibrare in senso egualitario il rapporto fra uomo e donna non solo nelle zone urbane ma anche nelle campagne. Per ottenerlo, il governo deve “aumentare il reddito minimo delle donne che vivono nelle campagne”.

©www.osservatorioanalitico.com – Riproduzione riservata

2233422-kasserine-locator-map

Comments are closed.