IRAQ. LA GUERRA A DAESH

IRAQ. LA GUERRA A DAESH

Haidar al-Abadi

Haidar al-Abadi

Quale è la situazione in Medio Oriente, Siria, Irak, Turchia e Kurdistan, alla fine del 2017? Un riepilogo…per affrontare consapevolmente il 2018, che di sicuro ci regalerà molte sorprese in quella regione strategica…speriamo non tutte pericolose!

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

  1. Il 10 dicembre, il premier iracheno Haidar al-Abadi annuncia la fine della guerra a Daesh a una conferenza organizzata dal sindacato Giornalisti iracheni a Bagdad precisando che ”Le nostre forze hanno il controllo totale del confine iracheno”.

In verità il tempo necessario alla coalizione contro Daesh per riprendere il controllo del confine siro-iracheno è di 3 anni e mezzo di terribili combattimenti da quando miliziani fedeli al “califfo” Abu Bakr al Baghdadi intraprendono la loro avanzata senza trovare alcuna resistenza nel frantumato esercito iracheno.

Inoltre, la vittoria non è neanche così “totale” atteso che resistono sacche di jihadisti e depositi di armi nelle zone desertiche a Ovest di Palmira e a Est di Deir Ezzor. In ogni caso, dopo la caduta di Mosul e Raqqa, anche il generale russo, Sergei Rudskoi, sin dal 6 dicembre dichiara la missione contro “il banditismo Daesh in Siria compiuta”.

E’ utile fare un passo indietro per meglio comprendere le dinamiche sottese all’attuale situazione.

  1. Il prezzo della guerra

Dieci giorni dopo gli annunci di al-Abadi e Sergei Rudskoi, sono diffusi i dati inerenti alle stragi a Mosul. La liberazione di Mosul Ovest è stata un massacro: 11 mila civili, cui vanno aggiunti 4 mila nelle fosse comuni alla periferia e altre centinaia sotto le maceria dei quartieri distrutti. Oltre i 15 mila morti, numeri lontanissimi da quelli che il premier iracheno al-Abadi – che ha utilizzato per il suo rapporto 9.606 referti degli obitori di Mosul e i dati dell’Ong Airwars e dell’ONU – parla di 1.260 vittime, lontani anche da quelli della coalizione USA che si attribuisce 326 morti.

In realtà, il bilancio è dieci volte più grande: coalizione e esercito iracheno sono responsabili di almeno 3.200 uccisioni tra ottobre 2016 e luglio 2017, con casi eclatanti come la distruzione di un intero palazzo, con 105 vittime, per uccidere due cecchini di DAESH; gli altri muoiono per spari, mine islamiste, esecuzioni da parte dei miliziani.

I dubbi che accompagnarono l’offensiva riemergono: stanare gli islamisti dai vicoli stretti e i palazzi arroccati di Mosul Ovest non poteva che tradursi in una strage presto archiviata: né Baghdad, né Washington sentono il bisogno di rivedere la strategia o, dopo, di aprire inchieste.

Gli USA dicono di non avere risorse a sufficienza e il loro portavoce dichiara: “E’ irresponsabile criticare per vittime accidentali della nostra guerra a DAESH”.

  1. Autobombe a Kirkuk

Un mese prima, Kirkuk ha rappresentato uno dei temi più controversi del referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno, promosso lo scorso 25 settembre, dal dimissionario presidente curdo Barzani. L’obiettivo del governo regionale autonomo del Kurdistan (KRG), infatti, era quello di mantenere Kirkuk – liberata dall’occupazione di DAESH grazie alle forze Peshmerga curde – all’interno del suo territorio pur non rientrando nei confini del KRG pre-avvento del Califfato. Un desiderio che ha dovuto però fare presto i conti con la realtà: l’esercito iracheno, complice il sostegno delle potenze regionali e internazionali, in sole due settimane addietro a riprendere il controllo di gran parte delle “aree contese”.

Contestualmente, il premier al-Abadi celebra la conquista di al_Qaim e del valico di Huybah. Vittoria militare importante anche quella raggiunta da Baghdad dopo la battaglia al confine con la Siria a Rabbia, lasciando a DAESH il controllo di solo piccole zone nell’area, nella provincia siriana di Hama e a Sud di Damasco.

Proprio nell’area meridionale della Siria aumentano i timori dei drusi di Siria e Israele. Il leader della comunità dello Stato ebraico, Shaykh Muwaffak Tarif, dichiara che “il Fronte an Nusra (il ramo siriano di Al Qaeda) è sotto l’occhio vigile dell’esercito israeliano, e avvisa i drusi di non andare vicino a quel villaggio perché per loro rappresenta una linea rossa”. Il riferimento di Tarif è a Hader dove la precedente settimana un attentato qaedista ha ucciso 18 persone. L’attacco jihadista ha aumentato i timori dei drusi israeliani dando vita a proteste spontanee a Majdal Shams (nella parte “israeliana del Golan occupato) che hanno portato una decina di manifestanti ad oltrepassare la frontiera ed entrare in territorio siriano salvo poi essere accompagnati sul versante israeliano dell’esercito dello Stato ebraico.

  1. La precedente situazione del governo regionale del Kurdistan (KRG)

Assalti alle sedi dei partiti di opposizione, omicidi di giornalisti, irruzione in parlamento: a poche ore dalle storiche dimissioni di Masoud Barzani, presidente del governo regionale (KRG), il Kurdistan brucia.

Sembra trascorso un secolo dal 25 settembre, quando milioni di curdi si sono messi in fila ai seggi dislocati in tutta la regione per dire sì all’indipendenza da Baghdad. Di quel voto restano solo rovine economiche, militari e politiche.

Barzani anticipa tutti e invia una lettera con la quale fa un passo indietro: dall’indomani sveste i panni indossati per dodici anni,, quelli del presidente, e si dichiara vicino ai Peshmerga al servizio del popolo kurdo.

Apparentemente sembra l’implosione del potere del clan, da decenni èlite politica ed economica del Kurdistan iracheno, o almeno di una sua parte, quella che fa capo alla capitale Erbil, e simbolo di corruzione, clientelismo e verticismo.

Forse Barzani compie un suicidio politico, tirando la corda dell’indipendenza e dimenticando che gli alleati storici – Turchia e Stati Uniti – sfruttano i curdi come “forza lavoro”, proky militare contro DAESH e conveniente via di transito del greggio iracheno, per tradirne le velleità indipendentiste al momento buono?

Barzani dunque perde la scommessa e quel che Erbil aveva guadagnato dagli anni ’90: l’autonomia del KRG era nei fatti qualcosa di più, uno Stato nello Stato, con un proprio esercito e ricche riserve petrolifere ? Il voto del 25 settembre ribadisce le diverse intenzioni dei vicini e l’avanzata militare irachena, durata appena 11 giorni, cancella i risultati ottenuti.

La rabbia dei sostenitori del KDP, il partito di Barzani, è specchio di storiche fratture interne: una sessantina di persone fa irruzione nel parlamento e letteralmente sequestra per oltre un’ora Rabun Maruf, capogruppo del partito di opposizione Gorran, accusato di insulti ai Peshmerga. Nelle stesse ore, altri filo-KDP danno alle fiamme le sedi di Gorran, del rivale PUK (espressione della famiglia Talabani) e della radio Ashhti nella città di Zakhgo, a Nord/Ovest di Dohuk.

Il messaggio è chiaro: le due fazioni sono tacciate di tradimento, di avere aperto a Baghdad e ordinato la ritirata dei Peshmerga legati ai Talabani da Kirkuk e le zone contese. Di fatto, dunque, di aver messo sul vassoio parlamentare la testa di Barsani. L’episodio più grave, però, è successo a Daquq, a Sud di Kirkuk: Arkan Aharif, giornalista 54enne di Kurdistan TV (vicina al KDP), è ucciso a coltellate nella sua abitazione.

Il Kurdistan rischia il collasso e Baghdad è pronta a sguazzare sulle rovine?

In realtà la sconfitta di Barzani non è totale: politico di esperienza, ha saputo – dimettendosi – dimostrare “responsabilità”, cioè riconoscere gli errori commessi (capaci di rinviare per anni il sogno dell’indipendenza). Contemporaneamente tiene una mano infilata nel governo. Dal giorno dopo le dimissioni, i poteri della presidenza saranno spartiti tra governo, parlamento e magistratura in attesa di un eventuale interim ma Barzani resterà a capo dell’Alto consiglio politico, organo creato per gestire la fase post-referendum.

Il tutto in vista delle elezioni parlamentari e presidenziali che avrebbero dovuto svolgersi l’indomani ma che sono state rinviate a luglio 2018, lasso di tempo durante il quale Barzani spianerà la strada al già potente nipote Nechirvan, attuale premier curdo e dunque primo destinatario dei poteri di Masoud, nonché tessitore degli accordi energetici con la Turchia nel 2013 e leader prediletto dal presidente turco Erdogan. Al primo ministro spetterà il compito di ricostruire la credibilità del partito e l’autonomia (in bilico) di Erbil.

Una capitale dimezzata che nell’immediato è stata costretta a siglare un nuovo accordo con il governo centrale di Baghdad: lo strategico valico di frontiera di Fish Khabur (tra Kurdistan iracheno, Turchia e Siria) così come la sicurezza nelle aree contese, da Diyala a Kirkuk, saranno gestiti congiuntamente da Peshmerga e truppe irachene. La linea rossa che Baghdad diceva di non voler oltrepassare (i confini ufficiali tra le due entità) è sfumata: il governo irakeno entra in Kurdistan.

  1. 5. Barzani, Iraq e Turchia

Così un debolissimo Barzani, passato in poche ore dalle stelle alla polvere, dall’entusiasmo popolare per il referendum sull’indipendenza all’isolamento internazionale , tenta di salvare l’autonomia guadagnata nel 1991 e messa in serio pericolo dall’avanzata – iniziata il 16 ottobre scorso – di truppe irachene e milizie sciite.

Un’offensiva rapida e semi-indolore (i Peshmerga in buona parte dei casi si sono ritirati prima dello scontro) che ha permesso la ripresa delle zone contese, a partire dalla ricca Kirkuk e dai valichi verso Siria e Turchi, ovvero le vie di transito del greggio e dei prodotti commerciali.

Una delle frontiere è già tornata in mano a Baghdad. E il valico di Rabia, tra Iraq e Siria, per lungo tempo una delle vie privilegiate di transito di DAESH. Secondo le autorità irachene, i Peshmerga hanno ceduto pacificamente e “il personale ha cominciato a riparare linee elettriche e condotte d’acqua danneggiate”. E a sostenere gli sforzi iracheni in chiave anti-Erbil c’è il vecchio alleato di Barzani, la Turchia, ma chi in realtà avanza invisibile è l’Iran. Le milizie sciite legate a Teheran stanno ampliando il loro raggio di azione, portandosi direttamente (e senza combattimento) al confine con la Siria e ricollegandosi con le forze sciite al di là della Frontiera.

  1. Gli scontri tra forze irachene e Peshmerga curde nel nord Iraq.

La guerra continua. E’ respinto l’attacco iracheno verso il confine con la Turchia, mentre, nel mezzo del conflitto nascosto dai media, ci sono anche gli istruttori italiani dei Peshmerga a Ebril, la capitale, e quelli a difesa della diga pericolante di Mosul.

L’intento militare delle composite truppe agli ordini di Baghdad sembra quello di proseguire verso il Nord e conquistare la punta Nord-occidentale del Kurdistan, un triangolo che confina con la Siria e la Turchia, di grande interesse strategico. E non è più azione anti-secessione ma occasione di vera e propria conquista.

“Le milizie Hashd al-Shaabi sono respinte verso Rabiaa” sostiene Barzani: Rabiaa si trova a 40 chilometri dal posto di confine in Siria di Fish Khabour, e a 50 chilometri da quello con la Turchia di Ibrahim Khalil. Poco distante si trova anche la diga di Mosul.

La linea dei Peshmerga corre lungo un terrapieno che sovrasta il Piccolo Zab, l’affluente del Tigri, e i curdi l’hanno fatto saltare in aria prima che i carri armati dell’esercito iracheno e delle milizie sciite lo attraversassero. “Dopo di che mancavano 45 chilometri di autostrada per raggiungere Erbil”, spiega il generale Kamal Karkuki, mandato sul fronte più caldo nella guerra fra il governo centrale di Baghdad e il Kurdistan.

Lo schieramento dei Peshmerga è nascosto dietro le trincee. Le postazioni strategiche, quelle che proteggono i lanciamissili anti-tank e pezzi di artiglieria da 122 millimetri, sono tenute segrete. Si vede solo qualche jeep con i pezzi da 105 montati sopra.

“Kirkuk è caduta solo per il tradimento di una parte del partito PUK. Hanno ritirato i loro Peshmerga di notte e gli abitanti si sono risvegliati con le milizie Hashd al-Shaab per le strade. Se avessimo potuto combattere come abbiamo fatto qui sarebbe ancora nostra”. I “traditori” sono i figli dell’ex leader del PUK Jalal Talabani, morto tre settimane fa, che hanno preso in mano il partito “e si soni accordati con Baghdad e con l’Iran”.

“Noi Siamo per una soluzione politica ma Baghdad deve fare attenzione. I civili a Kirkuk si stanno organizzando. Li attaccheranno, per loro sarà un inferno continuare a occupare la città. I nostri sono pronti a azioni di guerriglia”.

I civili, però, fuggiti da Kirkuk continuano ad aumentare; sono ora 150 mila, e a Erbil nessuno si fida più degli iracheni e neanche delle garanzie americane. Previste manifestazioni di protesta davanti al consolato USA, mentre le voci su nuovi attacchi si moltiplicano. Le milizie sciite, è il timore, stanno puntando al confine con la Turchia, “vogliono passare il Tigri al ponte di Zumar e occupare il posto di frontiera di Khakik Ibrahim”. I Peshmerga sono schierati in forze, anche perché il premier iracheno, Haider al-Abadi, sarà presto ad Ankara e la sensazione è che il cerchio continui a stringersi attorno al Kurdistan, con buona pace delle garanzie statunitensi.

Non va trascurato che l’Esercito italiano, sicurezza e intelligence annessi, è presente nel Kurdistan iracheno sin dall’ottobre 2014. In Kurdistan, l’Italia prepara le forze destinate alla difesa dei luoghi pubblici come aeroporti, ambasciate e checkpoint.

Gli addestratori sono circa 200, ma il numero totale di militanti italiani presenti sul suolo iracheno-curdo è di quasi 900 uomini, ai quali si devono aggiungere altri 500 impegnati a garantire la sicurezza al personale della ditta Trevi, incaricata dei lavori di risanamento della diga di Mosul.

Per l’Iraq la guerra non solo non è finita ma sarà suddivisa in più partti.

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Le regioni dei curdi

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