NUOVE ALLEANZE DELL’ASSE SUNNITA

NUOVE ALLEANZE DELL’ASSE SUNNITA

Il Principe Walid bin Talal con la moglie

Il Principe Walid bin Talal.

La complessa politica saudita in uno scacchiere ad alta tensione                                                                                                                                                    

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Nei media non suscita alcuna eco la recente dichiarazione resa dal direttore saudita del Centro Studi Strategici sul Medio Oriente di Gedda, Anwar Eshqi, al quotidiano israeliano Yediot Aharonot sulla cooperazione raggiunta dall’Arabia Saudita con Israele in merito agli Stati da loro definiti “i comuni nemici”.

Si tratta di Iran, Siria ed Hezb’Allah (leggi Libano) che con l’Iraq e la piccola formazione palestinese “Palestinian Islamic Jihad” (JIP), sin dal 2004 il re giordano Abdallah II indica come “mezzaluna sciita” e minaccia esiziale per la supremazia regionale sunnita.

Anwar Eshqi aggiunge che sarà la stessa monarchia saudita a favorire la normalizzazione di tutti i Paesi arabi con Israele.

In altri termini, Riyadh imporrà la sua posizione agli Stati della Lega Araba come già fatto nello scorso marzo con la decisione di dichiarare il partito di Hezb’Allah “organizzazione terrorista”, suscitando l’entusiasmo di Israele.

La proposta di pace, presentata dai sauditi sin da maggio scorso, elimina il diritto al ritorno dei profughi palestinesi e la restituzione delle Alture del Golan che resterebbero sotto controllo israeliano.

Se Tel Aviv accetterà, l’Arabia Saudita farà partecipare Israele a una confederazione economica con tutti i Paesi della regione per dare una spinta propulsiva ai contratti che da tempo Tel Aviv ha in corso con gli Emirati per centinaia di milioni di dollari.

In realtà l’ex generale Eshqi non rivela nulla di nuovo.

Nei giorni precedenti alla sua intervista è la stessa monarchia a ufficializzare l’inizio dei lavori di costruzione dell’ambasciata in Israele che sarà la più grande e importante di Tel Aviv e avrà a capo il principe Walid bin Talal.

In effetti, anche se i due Paesi non avevano relazioni diplomatiche dal maggio 1948, con la dichiarazione unilaterale della formazione dello Stato di Israele, già nel marzo 2002, Riyadh aveva presentato al Vertice della Lega Araba a Beirut la proposta di riconoscere lo Stato di Israele se Tel Aviv avesse implementato le Risoluzioni di Assemblea Generale e Consiglio di Sicurezza ONU 194/48, 242/67 e 338/73.

Tre anni dopo, il presidente pro-tempore USA, George Bush, firma un accordo con il re saudita Fahd nel quale la monarchia si dichiara favorevole al riconoscimento ufficiale di Israele insieme a tutti i Paesi arabi della regione.

Sul piano militare la cooperazione saudita con Israele è attiva sin dal 2006, quando Riyadh finanzia l’invasione del Libano, per annientare Hezb’Allah, e la campagna militare a Gaza nel 2008-2009 in chiave anti-Hamas il cui segretario generale Khaled Meshaal con Mousa Abu Marzouk e altri esponenti della formazione si erano trasferiti a Damasco e avvicinati all’Iran.

Gli accordi di Vienna del luglio 2015 tra i 5 Paesi membri permanenti del C.d.S. ONU (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, USA) più la Germania e l’Iran sul nucleare sono vissuti come un tradimento dell’America in danno degli storici alleati, Israele e Arabia Saudita, che vedono minacciata la loro egemonia regionale e il rafforzamento della Siria, sciita (di scuola alawita), che Tel Aviv e Riyadh volevano fare cadere.

A livello militare, la cooperazione Israele-Arabia Saudita è molto attiva.

Israele fornisce armi e supporto logistico all’esercito saudita impegnato da marzo 2015 nello Yemen contro gli Houthi, corrente minoritaria dello sciismo, gli Zaydi, più noti come “Ansar Allah” (i partigiani di Allah).

Gli Houthi, discendenti da Zayd bin Alì, pronipote di Maometto al quale riconoscono il tutolo di quinto imam, nell’ambito delle scuole sciite la minoranza Zayda è ritenuta la più vicina al sunnismo.

Un appoggio indiretto viene dato anche ai gruppi jihadisti finanziati e sostenuti dai sauditi in Siria, come riportato dall’analista israeliano Yossi Melman che sul quotidiano Jerusalem Post dichiara che “i gruppi jihadisti come Daesh e al-Nusra non sono una minaccia per Israele… questi gruppi che si sono insediati nella zona delle alture del Golan hanno sempre dato prova di buon vicinato con Israele”.

Il rapporto logistico e medico di miliziani jihadisti protetti e curati nei vicini ospedali israeliani è stato documentato nel tempo da numerosi quotidiani israeliani e arabi.

Sul sito israeliano Hona, l’esponente del Partito Meretz conferma che la realizzazione di una base militare in territorio saudita gestito da soldati americani e militari israeliani.

La base sarà costruita nel Nord/Ovest del Paese, a Tabuk, e avrà sofisticati sistemi radar e missili.

La stabilizzazione dei rapporti fra Stati arabi e Israele avrà una ricaduta negativa principalmente su due protagonisti mediorientali:

  • palestinesi, già da tempo scomparsi dai media internazionali se non per riproporre l’ennesimo esercizio della “ripresa dei colloqui di pace” dopo oltre 20 anni dall’Accordo di Oslo, esercizio mediatica da ultimo proposto dalla Francia e già rifiutato da Israele;
  • Hezb’Allah, già abbandonato dalla Lega Araba.

In questo quadro, non appaiono casuali le parole pronunciate dal nuovo ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman: “ non consiglio a nessuno di provocarci o di metterci alla prova” nel corso della prima visita estera proprio al confine settentrionale con il Libano.

Un’altra indicazione sui progetti della neonata alleanza Israele – Asse sunnita riguarda i palestinesi.

Nello scorso maggio, il portale d’informazione “Middle East Eye” (MEE) riporta che sarebbe in atto un tentativo per sostituire Mahmoud Abbas alla presidenza della “Palestinian Liberation Organization” (PLO) e dell’”Autorità Nazionale Palestinese” (ANP).

Emirati Arabi, Egitto (recentemente offertosi a Israele come mediatore con i palestinesi per la ripresa negoziale) e Giordania vorrebbero insediare Mohammed Dahlan.

Si tratta dell’esponente della prima Intifada, poi leader di Fatah a Gaza e nominato capo dei servizi di sicurezza, acerrimo nemico di Hamas, vicino a USA e Israele e dal 2008 mandato in esilio negli Emirati dopo la guerra fratricida con Hamas e le accuse da parte di Abbas di complicità nell’avvelenamento di Arafat.

Secondo la narrazione del MEE, Abu Dhabi avrebbe già informato Israele della progettata sostituzione che esporrà anche ai sauditi.

Gli obiettivi sono molteplici: unificare Fatah in preparazione delle elezioni, ferme dal gennaio 2006; indebolire Hamas; assumere il controllo di PLO e ANP; arrivare a un accordo di pace con Israele con il programma delineato dai sauditi.

Anche questo progetto non appare per caso: Egitto prima (1979, un anno dopo gli accordi di Washington) e Giordania dopo (1994, un anno dopo l’accordo di Oslo) hanno consolidati trattati di pace con Israele e il Golfo non ha mai nascosto la cooperazione di sicurezza con Israele.

Questo progetto presenta qualche problema.

La riconciliazione di Fatah guidata da Dahlan, odiato dalla maggioranza dei palestinesi, accusato di corruzione, strette relazioni con l’intelligence israeliana e americana non sarà facile impresa.

Il movimento islamico Hamas, rivoltosi all’Egitto per ottenere almeno la riapertura del valico di Rafah, unica uscita dalla prigione a cielo aperto di Gaza, non ha dimenticato le persecuzioni, gli arresti e le torture subite da Dahlan e dalle sue “unità speciali”, difficilmente consentirà l’implementazione del progetto che segnerebbe la loro fine.

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Il gen. Anwar Eski, Direttore del Centro Studi Strategici sul Medio Oriente di Gedda

Il gen. Anwar Eski, Direttore del Centro Studi Strategici sul Medio Oriente di Gedda (Foto Hispan TV)

 

 

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