STRISCIA DI GAZA. PAESI DONATORI E RICOSTRUZIONE

STRISCIA DI GAZA. PAESI DONATORI E RICOSTRUZIONE

Quanti Accordi di pace per la Palestina disattesi….che sia adesso il momento giusto perché diventi un baluardo contro l’avanzata del DAESH (ISIS)?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini             

Robert Serry

Robert Serry

La Conferenza dei Paesi donatori riuniti in Egitto il 12 ottobre promette un prestito di 5,4 miliardi di dollari all’Autorità Nazionale Palestinese per la ricostruzione della Striscia di Gaza. In realtà, la richiesta dell’ANP è ben più consistente.

Il documento palestinese è un piano per rilanciare l’economia dei territori palestinesi strangolati da 66 anni di occupazione, guerre continue e leadership locali non sempre adeguate. L’ANP chiede 4 miliardi per la ricostruzione di Gaza, 4,5 miliardi destinati al bilancio della stessa ANP nel triennio 2015 – 2017 e 7 miliardi per progetti di lungo termine fra i quali ricostruzione di aeroporto e porto di Gaza, impianto di desalinizzazione e partecipazione alle risorse gasiere al largo del mare di Gaza sinora sfruttati solo dagli israeliani.

Allo stato attuale, permangono difficoltà per l’apertura delle frontiere da Egitto e Israele per il passaggio del materiale edilizio nella Striscia di Gaza per una ricostruzione che prevede dai 5 ai 10 anni di tempo a seconda dei periodi di apertura dei valichi dedicati.

In attesa che la somma promessa venga elargita, l’ONU ha nominato lo “Speciale Coordinatore per il Processo di Pace in Medio Oriente”, Robert Serry, che ha realizzato un dettagliato meccanismo con un Comitato composto da ONU, ANP ed Esercito israeliano per monitorare quantità e qualità del materiale necessario.

Su poteri e attività del Comitato vi sono due scuole di pensiero.

Una parte ritiene che la neonata Istituzione costituisca la legittimazione da parte dell’ONU del prosieguo del blocco di Gaza che dura dal 2007. Infatti, nel meccanismo elaborato è prevista la presenza di 250 – 400 di stranieri esperti in finanza, amministrazione e sicurezza, con conseguente dilatazione della tempistica inerente soprattutto alla ricostruzione.

Inoltre, risulta evidente il fatto che il processo di ricostruzione è guidato e diretto dall’ONU e non dall’ANP, svuotato di ogni potere, e che la tanto promessa soluzione di “due Stati per due popoli” sia solo uno slogan.

La bandiera palestinese

La bandiera palestinese

Nessun cenno, a distanza di oltre 21 anni dagli “Accordi di Oslo” (13 settembre 1993), sui punti nodali del conflitto: status di Gerusalemme, scambio territoriale per ripagare l’ANP del territorio occupato illegittimamente dai coloni e diritto di ritorno dei rifugiati palestinesi dal 1948 in avanti.

Privo di uno Stato, l’ANP resta senza il peso politico e la capacità necessari per portare avanti un negoziato con Israele a guida USA.

Dall’altra parte, si ritiene che l’unica possibilità per il popolo palestinese è che il Presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, abbia richiesto all’Assemblea Generale dell’ONU il riconoscimento dello Stato di Palestina e la fine dell’occupazione israeliana entro un termine dai 2 ai 3 anni.

Dopo anni di immobilismo e tentennamenti, sette anni di divisione tra Cisgiordania e Gaza e un’estenuante quanto inutile sequela di “processi di pace” il Presidente Abbas incassa i primi segnali positivi. Nell’immediato, è la Svezia il primo Paese europeo a riconoscere la “Stato di Palestina”, come fatto da 133 altri Paesi anche se di modesto peso politico.

Subito gli USA protestano il riconoscimento svedese, ritenuto “prematuro”, anticipando che opporranno il veto in sede di Consiglio di Sicurezza ONU e inviano il segretario di Stato, John Kerry, a proporre un altro “processo di pace” fra Israele e ANP sotto l’egida USA.

La posizione svedese attrae invece la Gran Bretagna, il cui Parlamento vota con largo margine (274 si e 12 no) il riconoscimento della Palestina, e la Francia che promette di farlo.

Mahmud Abbas

Mahmud Abbas

Sono passati quasi due anni dal voto (29 novembre 2012) con il quale l’Assemblea Generale dell’ ONU dichiarò con largo margine la Palestina Stato Osservatore non membro, con poche astensioni e il voto contrario di USA, Israele, Canada, Repubblica Ceca, Panama e la solita rete di isolette sempre in linea con la policy statunitense (Marshall Islands, Micronesia Nauru, Palau).

Pur potendo da subito aderire a 60 Istituzioni ONU, Abbas aspetta da quasi due anni, mantenendo la collaborazione con la sicurezza israeliana contro HAMAS e inseguendo l’ennesimo “processo di pace” USA (luglio 2013 – aprile 2014) che finisce nel nulla ed è seguito dalla quarta invasione di Gaza da parte di Tel Aviv in 8 anni (2006, 2008-2009, 2012, 2014). Ad aprile 2014, l’ANP ha promosso il processo di conciliazione nazionale tra il Partico laico del Presidente, FATAH, e il movimento islamico gazawi, HAMAS, e la formazione del Governo Unitario.

I 51 giorni di guerra a Gaza e l’espansione senza sosta delle colonie hanno spinto Abbas a minacciare, in occasione dell’annuale Assemblea Generale dell’ONU (settembre 2014), il ricorso alla Corte Penale Internazionale per ottenere l’incriminazione di Israele per violazioni della Convenzione di Ginevra.

In un quadro politico che registra l’espansione di Daish (Al Dawla al-Islamiyyah, fi Iraq wa Sham) in Siria e Iraq, colline del Golan, fattorie di Sheeva in Libano e a Kobane al confine con la Turchia, emerge anche l’ipotesi che un accettabile e facilmente controllabile Stato Palestinese potrebbe costituire un valido scudo nel caso di mire dei jihadisti di DAISH.

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