IMPRESE IN FUGA DALL’ITALIA…SÌ, È COSÌ.

IMPRESE IN FUGA DALL’ITALIA…SÌ, È COSÌ.

Ormai bisogna anche avere occhi ‘analitici’ sull’Italia, cercando di analizzarla non ideologicamente ma non è facile essendone cittadini. L’economia può essere un buon viatico…affidiamoci a alcuni seri report. Una analisi chiara anche per i non addetti ai lavori, di Paolo Callari, con alcuni seri interrogativi per il futuro.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

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Secondo un report di Unicredit, che nell’Europa centro-orientale è la prima banca in assoluto e sta trovando un nuovo eden di redditività, le imprese italiane delocalizzate a Est sono 7.100, ossia una cifra pari al quintuplo di quelle presenti in un mercato immenso come quello cinese. Ecco perché gli imprenditori spostano le aziende in Europa orientale. In pratica, i capitali prendono sempre più la via dell’oriente europeo, dove alla nostra crisi e alla nostra desertificazione industriale corrisponde un pieno boom economico.

Grazie anche alla capacità di sfruttare al meglio i fondi strutturali dell’Unione europea, Paesi come la Polonia e la Romania sono stati in grado di accrescere la produzione industriale di oltre il 10% annuo, mentre in Ungheria, Slovacchia e Turchia si è sfondato il 15% di incremento.

A livello industriale, la grande fuga riguarda soprattutto la manifattura di prodotti di massa, come automobili ed elettrodomestici. Fiat, che per decenni ha usufruito di incentivi pagati dagli italiani, dopo essere divenuta FCA a seguito della fusione con Chrysler, ha spostato pezzo dopo pezzo la sua produzione all’estero, compresa la sede fiscale. Un destino, quello delle delocalizzazioni produttive, comune a tutti i grandi marchi dell’automobile, se si pensa che un terzo delle vetture prodotte in Europa arriva ormai dagli stabilimenti nei paesi centrali e orientali del continente.

Una simile politica di delocalizzazioni è seguita da Electrolux con gli stabilimenti che furono di Zanussi, la storica azienda friulana di elettrodomestici che, prima di essere acquisita dagli svedesi, contava 35 mila dipendenti, secondo gruppo industriale italiano dopo Fiat: una parte della produzione è ora spostata negli stabilimenti in Polonia, Romania e Ungheria.

Oltre al manifatturiero, molte imprese che delocalizzano in centro ed est Europa, circa la metà, si concentra nei servizi: utility, finanza, consulenza, real estate, servizi professionali, sanità, commercio al dettaglio e all’ingrosso.

Ma cosa spinge molte imprese a delocalizzare? Dopo l’ingresso degli Stati dell’est nell’Unione europea, tra il 2004 e il 2007, molti governi sono ricorsi ad ogni mezzo per attirare investimenti esteri: deregolamentazione del mercato del lavoro, dumping fiscale, noncuranza delle più elementari misure di tutela ambientale. Per molti imprenditori l’occasione era ghiotta: produrre a basso costo per poi esportare i beni nei mercati occidentali, dove l’euro aveva portato i prezzi alle stelle.

I processi di delocalizzazione hanno conosciuto negli ultimi anni nuovi sviluppi. Nei Paesi dell’est, dopo decenni di stallo all’ombra della potenza sovietica, sono stati avviati percorsi formativi tecnici indirizzati al mercato, che sfornano ora lavoratori qualificati ma senza troppe pretese in fatto di diritti. Forse non si arriverà ai livelli della Cina, dove il costo del lavoro è anche venti volte inferiore a quello italiano, ma l’Europa orientale ha il grande pregio di essere vicina, senza vincoli doganali a intralciare il movimento di merci e capitali, e di usufruire dei fondi strutturali dell’Ue.

Nell’Europa dell’est la creazione di nuove imprese e l’aumento del tasso di occupazione hanno provocato un’espansione del mercato interno, che dalla Turchia alla Lituania conta circa 300 milioni di persone, con conseguenti nuovi incentivi ad ulteriori investimenti. Con l’aumento del tenore di vita degli europei orientali i beni prodotti vengono sempre più consumati in loco, anziché esportati, e i capitali migrati a oriente difficilmente prendono la via del ritorno.

La conferma che i capitali si stanno progressivamente spostando verso est arriva da Unicredit, il colosso bancario nato dalla fusione di diverse società di credito del Nord Italia. Una buona parte dei suoi investimenti sono ora nell’Europa centro-orientale, dove conta 3.100 filiali sparse in 14 paesi, per circa 14,5 milioni di clienti e un totale attivo di 163 miliardi di euro: l’area dell’Europa centrale e orientale garantisce un terzo della redditività complessiva del gruppo bancario. I risparmi accumulati dagli italiani nel corso degli anni servono per spingere i consumi oltre confine e per stimolare altri imprenditori a partecipare alla “fiera dell’est.

 

Grafico2Se il Governo Conte punta il dito sulla semplificazione dei processi, il dato riportato evidenzia che, sia la pressione fiscale sia il costo del lavoro, spostano il prodotto interno dove è meno costoso produrre.

Sia in termini di marketing mix sia di dumping l’eterogeneità fiscale e retributiva del territorio Europeo lascia intuire che di unito non c’è mai stato nulla, e non certo per colpa delle periferie e dei loro delegati politici.

Nemmeno la storiella della mafia e della corruzione convince, data l’omogeneità del fenomeno, anche se le testate giornalistiche degli altri paesi non distruggono il capitale reputazionale dei perimetri medesimi.

Piuttosto fa pensare, nel discernimento se gli Italiani vogliano un posto oppure un lavoro, se il sistema impiegatizio, con tutti i suoi benefit contributivi e assicurativi, sia ancora competitivo rispetto alle condizioni per le quali un’impresa decide di fare, o non fare, cosa, dove, per chi, a quale prezzo.

I titoli del debito pubblico emessi dall’Italia fondano la loro circolazione, appetibilità, sul fatto che i risparmi degli Italiani sono tre volte l’importo del debito, oltre al valore, non quotabile se non punto per punto nella storia delle quotazioni, del mercato immobiliare e monumentale.

Sarà ancora opportuno che i figli acquisiscano specializzazioni nello studio e nel lavoro sempre più effimere rispetto alle produzioni semplici che generano prodotto e piena occupazione nei paesi dell’Est Europa?

Sarà ancora opportuno aspirare a redditi non inferiori a  30.000 euro lordi per anno e rimanere disoccupati fino a 30 anni perché per 15.000 euro lordi annui l’unica soluzione è rimanere a casa con i genitori?

E per la scelta di mettere su famiglia, quale reddito è necessario? 30.000 euro a componente del nucleo e 30.000 per ogni figlio che nasce?

Il Governo Conte, inclusa l’opposizione del Ministro Salvini, avrà occhi e orecchie per intendere cosa sta succedendo e perché l’Italia è vecchia nel suo D.N.A. che muta tragicamente verso i comportamenti adeguati, una volta, nell’immaginario collettivo, a quelli che passavano la giornata appisolati all’ombra di un sombrero?

 

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