SINTESI  DEGLI  ULTIMI  AVVENIMENTI DA SIRIA, YEMEN E AFGHANISTAN

SINTESI DEGLI ULTIMI AVVENIMENTI DA SIRIA, YEMEN E AFGHANISTAN

Siria_Idlib

(con la collaborazione di Aldo Madia)

SIRIA. La guerra a IDLIB

Russia e Turchia si sono accordate per creare una fascia smilitarizzata nella zona di Idlib, nel Nord/Ovest della Siria e al confine con la Turchia.

Nel frattempo Damasco accusa Israele di aver lanciato dal mare “diversi missili” sulla costa di Latakia, dove si è insediato dall’inizio della guerra anche la Russia. E di fatto, Israele, facendosi scudo con arerei russi, ne hanno colpito uno uccidendo tutte le persone nel veivolo.

Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan si sono incontrati il 17 settembre a Sochi, sul Mar Nero insieme al ministro della difesa di Mosca, Sergej Shoigu, il quale ha escluso che al momento ci possa essere un assalto alla città da parte delle truppe governative appoggiate all’aviazione russa. Di fatto, quasi 3 milioni di civili intrappolati a Idlib temevano i possibili bombardamenti. Prevenuto, il presidente turco aveva schierato sue truppe come cuscinetto tra ribelli e governativi per evitare un possibile contatto.

In sintesi, la Russia continua e vedere i ribelli  – soprattutto quelli di Al Nusra – come terroristi da annientare subito, mentre Ankara è contraria a un’azione di forza da parte del regime siriano. Tra l’altro, Erdogan teme un nuovo flusso di profughi nel suo Paese, che già ospita più di tre milioni di siriani scappati da terroristi.

I due capi di Stato hanno raggiunto un’intesa accettabile per entrambi: la zona demilitarizzata entrerà in vigore entro il 15 ottobre e avrà un’ampiezza fra i 15 e i 25 kilometri “lungo la linea di contatto tra l’opposizione armata e le truppe del governo siriano”.

Non è chiaro se la città di Idlib sarà compresa in questa fascia. Secondo Russia e Turchia, dalla zona dovrebbero essere ritirate tutte le armi pesanti. Anche i ribelli di Al Nusra dovrebbero abbandonare l’area che sarà pattugliata da unità mobili russe e turche. In merito, Putin ha aggiunto che  “in generale, questo approccio dai vertici è appoggiato dai vertici della Repubblica siriana”.

Putin ha poi spiegato che entro breve tempo ci saranno consultazioni specifiche, nel senso che Mosca dovrà convincere Bashar al Assad a rinunciare, almeno per ora, a chiudere definitivamente la partita con gli oppositori. Erdogan – sodale di Assad che ha tradito appena ci sono stati piccoli cortei di manifestanti che chiedevano solo la fine delle leggi di emergenza, la scarcerazione dei detenuti politici e una più equa suddivisione delle entrate – ringrazia Putin che si convinto ad evitare una crisi umanitaria e Idlib.

YEMEN

Ad agosto scorso, un raid saudita – dopo aver centrato due settimane addietro uno scolabus, uccidendo 20 bambini, durante i suoi continui bombardamenti, uccide 22 minori e quattro donne che stavano salendo su un autobus per fuggire agli scontri nella città di Hodeidha; e questo dopo aver ucciso cinque persone in un raid contro il campo progughi di Duraihami.

I sauditi, in merito, possono contare sugli stock che lo scorso giugno hanno ottenuto: 10.453.696 euro di “armi e munizionamento” con destinazione Arabia Saudita.

I micidiali ordigni della serie MK da 500 a 2.000 libbre, prodotti dall’azienda tedesca Rwm, vengono utilizzati dalla Royal Saudi Air Force per bombardare indiscriminatamente lo Yemen. Dal tadabase dell’Istat non è possibile sapere il numero di ordigni a giugno scorso ma una cosa è certa: sono dello stesso tipo dei quasi 26 milioni spediti lo scorso aprile scorso. Nel 2016 è stata spedita una fornitura per 411 milioni di euro, cioè per 19-675 ordigni. Si tratta di un record storico nell’export di munizionamento militare, e l’azienda Rwm non è certo in grado di realizzarlo in un solo anno: è, infatti, un contratto pluriennale. Ma soprattutto perché nel frattempo la multinazionale tedesca, attraverso la sua controllata sudafricana Rheinmetall Denel Munition (Rdm) ha aperto, una joint-venture con la Samic, a sud di Riyad uno stabilimento per la produzione non solo di bombe da aereo da 500 a 2.000 libbre. Le stesse che la Rheinmetal produce attraverso la sua controllata.

Il 18 settembre,18 pescatori sono stati uccisi nel porto yemenita di Khokha (90 chilometri a sud di di Hodeidah) dal fuoco  sparato da una fregata di stanza  sul Mar Rosso.

I ribelli Houthi, che da Khokha sono stati cacciati dallo scorso dicembre 2017, accusano la coalizione a guida saudita, che da parte sua nega ma annuncia anche l’apertura di un’inchiesta.

Il porto è oggi controllato dalle truppe degli Emirati arabi, presenti soprattutto nel sud del Paese  e alleati dei movimenti secessionisti meridionali. Le famiglie delle 18 vittime hanno detto alla Reuters  che solo un pescatore che si trovava a bordo del piccolo peschereccio colpito è sopravvissuto.

Lo scorso 4 agosto, a seguito di una strage simile (oltre 60 uccisi da un raid saudita nel porto di Hodeidah) è stato rilevato che la situazione del settore della pesca in Yemen, è devastata da tre anni a mezzo di guerra: dal marzo 2015, inizio delle offensive di Riyadh, oltre 250 barche sono state distrutte, oltre 170 pescatori sono stati uccisi e quasi 500 arrestati. Le perdite totali ammontano a 4,5 miliardi di dollari, con 37 mila che hanno perso il lavoro.

AFGHANISTAN – USA

James Mattis, atterrato a Kabul per una visita non annunciata, il 7 settembre scorso,  nell’incontro con il presidente afghano Ashraf Ghani – nominato dagli americani – sostiene in modo esplicito la nuova linea dell’amministrazione Trump: sì al processo di pace.

Già a febbraio scorso Ghani annunciava l’offerta di pace senza condizioni ai talebani, che il successivo mese di giugno proclamano il primo “cessate il fuoco” : 3 giorni di tregua capitalizzati anche dagli studenti coranici, che hanno dimostrato di saper serrare le fila intorno alla decisione della leadership.

Infine, il successivo luglio, lo storico incontro a Doha, in Qatar, , fra alcuni rappresentanti dell’amministrazione Trump, inclusa Alice Welles, e quelli del movimento talebano, che proprio a Doha hanno stabilito l’ufficio politico.

Da ultimo, il 19 agosto è arrivata la proposta del presidente afghano di un secondo “cessate il fuoco”, questa volta più lungo  condizionato all’adesione formale dei talebani, che però hanno declinato l’invito e continuano la campagna militare, pur avendo ridotto gli attacchi contro il processo elettorale  che condurrà alle elezioni politiche del 20 ottobre prossimo, cruciali per la legittimità di un Parlamento fortemente delegittimato e preliminari alle presidenziali per aprile 2019.

Sia talebani che americani seguono dunque un doppio binario: da una parte continuano il conflitto, dall’altra controllano le attività dell’avversario per capirne meglio le intenzioni e sapere quanto e se fidarsi. Per la prima volta dopo molti anni di guerra sembra che entrambi abbiano capito quel che ha dichiarato pochi giorni fa, nel discorso di commiato, perfino il generale John Nicholson, a capo delle truppe USA e di quelle NATO per ben 31 mesi.

“E’ tempo che questa guerra finisca”, ha detto Nicholson, che sarà sostituito dal generale Scott Miller, una lunga carriera nei settori delle Operazioni speciali  e poco dimestichezza, sottolinea il New York Times, con la complessità politica del fronte afghano.

Dove si continua a combattere  e a morire, a dispetto dei canali di comunicazioni aperti tra talebani e statunitensi e della morte annunciata pochi giorni addietro di Jalaluddin Haqqani, fondatore dell’omonima  rete terroristica, imprenditore criminale per molti anni di un impero economico-militare  poi ereditato dal figlio Sirajuddin, attualmente numero 2 dei talebani.

L’ultima strage, rivendicata dalla “Provincia del Khorasan” la branca locale dello Stato Islamico, risale al giorno 5 settembre, quando un duplice attentato  ha provocato almeno 26 morti e un’ottantina di feriti a Dasht-e- Barchi, quartiere della capitale a prevalenza Hazara, la minoranza sciita già discriminata e oppressa dai talebani e oggi sempre più nel mirino dello Stato Islamico, che punta ad alimentare un conflitto settario.

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