Ancora un focus sull’Asia Centrale, sui suoi problemi e i suoi rapporti con EU, non sempre facili.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
In Asia Centrale, area del mondo particolarmente cruciale per gli equilibri strategici dei prossimi decenni del XXI secolo, il rapporto tra Islam e modernità, tra Islam e sviluppo politico-sociale si configura come particolarmente importante per la stabilità di quest’immensa area geopolitica situata tra Russia, Cina, Iran e India. In questi territori si verifica quello che gli esperti di relazioni internazionali chiamano il power shift, cioè quello spostamento del centro di potere planetario dall’Occidente all’Oriente di cui si avvertono chiaramente i segnali. In questo strategico settore geopolitico, anche a causa delle sue notevoli risorse energetiche, in particolare quelle legate all’area del Mar Caspio, stimate le terze al mondo per importanza dopo Russia e Golfo Persico, la lotta all’estremismo islamico è perciò cruciale sia per i governi centroasiatici sia per le potenze dell’area quali Russia, Cina, Stati Uniti, India e Unione Europea.
Quest’ultima è da tradizione meno radicata in quei territori rispetto alla Russia ed anche agli stessi Stati Uniti, che hanno sempre inteso estromettere la Russia dall’area o perlomeno non consentirle di assumere lì una posizione nuovamente egemone, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. A questo fine hanno inteso sviluppare e rafforzare le istituzioni locali in funzione antirussa, ma anche di ordine interno agli Stati stessi.
L’Unione Europea può offrire un’importante e apprezzata assistenza economica e giuridica ai governi centroasiatici, anche se deve necessariamente scontare la sua insufficiente capacità di proiezione della forza militare nella risoluzione di conflitti e la sua politica di sostegno ai diritti umani. E’ un modo di garantire la democrazia anche quale strumento politico di lotta all’estremismo islamico che finisce spesso per raffreddare o danneggiare i suoi rapporti politici con gli autocrati locali i quali, oltre le dichiarazioni formali di adesione a tali principi, considerano le raccomandazioni europee sui diritti umani come un’indebita intrusione o addirittura una sorta di neocolonialismo nella politica interna.
Questo fattore contribuisce quindi in una qualche misura a allontanare gli interlocutori centroasiatici dal dialogo con l’Unione Europea, preferendogli attori che pongano in misura minore l’accento su questa delicata tematica che, nelle intenzioni europee, dovrebbe servire a rendere la regione politicamente meno instabile.
Di qui la necessità per l’Unione Europea di riformulare una politica flessibile che si adatti alla specifica realtà storico-culturale dell’area centroasiatica. L’obiettivo del contenimento dell’islamismo radicale è comunque comune a tutte le suddette potenze. Possono però variare da Paese e Paese le strategie di contenimento di questa grave minaccia per la sicurezza. Basti pensare a questo proposito al problema della Russia con il suo terrorismo islamico di matrice interna; alla Cina con il problema costituito dalla minoranza interna degli uiguri di etnia turca e di religione islamica nello Xin Jang, regione cinese di confine con l’Asia Centrale; agli Stati Uniti con il terrorismo islamico proveniente da Afghanistan e Pakistan.
Non sorprende, però, che alcuni di questi Paesi, in particolare quelli privi di materie prime, si trovino in uno stato di perenne stagnazione economica e politica. Ciò ha colpito in particolar modo i Paesi dell’Asia Centrale in cui la tradizione islamica è più radicata e l’urbanizzazione è più sviluppata come in Uzbekistan (Samarcanda, Bukhara) rispetto a Paesi del nord come il Kazakhstan dove la vita è stata caratterizzata per lunghi secoli dal nomadismo e da una tradizione religiosa moderata.
Il Kazakhstan, ad esempio, pur essendo uno Stato musulmano, si è posto da molti anni in prima fila nella lotta all’estremismo islamico proveniente da sud, anche a causa della sua composizione multietnica (25% di russi etnici), che renderebbe ingestibile la convivenza tra cittadini di religione prevalentemente ortodossa e quelli di fede islamica, con i rischi di una sanguinosa guerra civile. Ne potrebbe conseguire anche un intervento della Russia in difesa delle minoranze russe che vivono soprattutto nelle regioni settentrionali di confine. Inoltre, altri fattori quali l’accento posto dal Presidente del Kazakhstan, Nazarbaev, sull’armonia tra le diverse comunità etniche che vivono nel Paese, sull’importanza della crescita economica (con il conseguente relativo prestigio nazionale e internazionale che ne deriva come la presidenza dell’OSCE nel 2010), contribuiscono a relegare in secondo piano il fattore religioso islamico che rimane un’entità del tutto separata dallo Stato.
Motivi interni e internazionali si sommano quindi, soprattutto nel caso del Kazakhstan, nel determinare una lotta contro l’estremismo islamico, sia quello di origine nazionale sia quello proveniente da altri Paesi islamici dell’area centroasiatica o comunque di quella islamica. Questo è quindi particolarmente vero per leader diventati adulti durante l’era sovietica. Rimane da vedere come si evolverà la situazione quando nei prossimi anni avverrà il cambio generazionale, cioè quando saliranno al potere i nuovi leader che, per ragioni anagrafiche, non si sono formati e non hanno quindi assorbito l’ateismo propagandato in tempo sovietico dalla dottrina marxista-leninista. I politici non cresciuti nell’indottrinamento sovietico potrebbero, infatti, decidere di assecondare le pressioni che provengono dalla popolazione per una maggiore presenza dell’Islam nella Stato oppure decidere di continuare a mantenere una netta divisione tra Stato e religione, rischiando però potenzialmente un pericoloso calo del consenso popolare.
L’Occidente deve essere consapevole che in molti Stati dell’Asia centrale i legami etnici e di clan spesso prevalgono sulla pura valutazione strettamente meritocratica o programmatica del miglior candidato da parte delle istituzioni dello Stato o della popolazione, il che impedisce, o almeno ostacola, la creazione di una democrazia di matrice occidentale.
Questo implica che la scelta del leader è spesso fatta non esclusivamente sulla base del suo programma politico ed economico, ma soprattutto sul suo clan di appartenenza etnica e sulla lunga tradizione centro asiatica di personificazione del potere, che implica la scelta di un leader forte che può governare da autocrata, in un contesto di forte concentrazione di poteri di governo nelle sue mani. Nella migliore delle ipotesi riceve, infatti, una sorta di mandato plebiscitario da parte della popolazione nel quadro di elezioni non sempre libere, senza però che la concreta attività di governo sia organizzata secondo il tradizionale schema che comprende potere legislativo, esecutivo e giudiziario. In alcuni Stati dell’Asia Centrale post-sovietica, in particolare in Kazakhstan, si afferma insomma una cultura economica moderna, sostenuta soprattutto dalla presenza d’ingenti risorse energetiche, ma anche una concezione politica prevalentemente autoritario-paternalistica, in cui sono ampiamente garantite le libertà di tipo economico-sociale e limitate quelle politiche, se non una concezione autoritaria-dittatoriale, com’è avvenuto, ad esempio, in Turkmenistan.
Questa lunga tradizione di tipo autoritario-paternalistico evidenzia la presenza di alcuni problemi strutturali di questo tipo di modello politico come la scottante questione della successione di Nursultan Nazarbayev o altri Presidenti dell’area, per la quale, fino ad oggi, non è previsto un meccanismo istituzionale e trasparente. Il ricambio può portare, ovviamente, a una lotta violenta per il potere, poiché i meccanismi di successione e i loro criteri non sono stati ancora definitivamente stabiliti. E’ evidente che la scelta di questi meccanismi successori si rivela un fattore essenziale per mantenere la stabilità di un Paese o dell’intera regione centroasiatica, determinante per gli equilibri continentali e forse mondiali. Quanto più la validità di questi meccanismi successori sarà riconosciuta quale chiara e trasparente dalla popolazione, cioè condivisa, in modo che il Presidente in carica o la sua amministrazione non scelga i suoi collaboratori o successore in base a criteri esclusivamente clientelari o nepotistici, ma almeno in parte anche meritocratici, tanto meno vi sarà la possibilità che sulla scena politica centroasiatica si presentino in futuro forze estremiste di tipo etnico o religioso in grado di conquistare il consenso popolare elettoralmente con proposte politicamente demagogiche, o attraverso la lotta politica senza esclusione di colpi, l’insurrezione popolare od il terrorismo.
Questi, infatti, prosperano quando nel Paese sussiste un diffuso malcontento popolare legato ad una cattiva situazione economica e sociale. Ciò potrebbe però verificarsi nel momento in cui l’intera popolazione cominci a maturare una coscienza politica dei suoi diritti economici e sociali che il paternalismo autoritario, esercitato da parte della leadership di alcuni Stati centro asiatici mediante frequenti elargizioni di fondi pubblici o la costruzione di infrastrutture oppure l’impiego di una propaganda tanto martellante quanto paternalista, potrebbe in futuro non essere più in grado di soddisfare a causa di una possibile diminuzione dei prezzi delle risorse energetiche, di un loro progressivo esaurimento con relativo assottigliamento del fondo sovrano destinato agli investimenti finanziari e infrastrutturali dello Stato in questione.
Una maggiore consapevolezza politica della popolazione potrebbe quindi spingere a richiedere al governo una migliore trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche, come anche una loro contrazione potrebbe spingere verso una feroce lotta politica, dagli esiti più o meno incerti, per una più equa suddivisione di queste ultime tra la popolazione. Infatti, una parte più o meno importante del reddito nazionale delle ricchezze del Paese sfugge al controllo della popolazione e viene quindi incamerata per scopi di arricchimento personale dal partito politico al potere e quindi dalla cerchia presidenziale, quella burocratica e tecnocratica, cioè quella che si occupa essenzialmente delle attività estrattive e della loro commercializzazione. Proprio la presenza d’ingenti ricchezze energetiche, infatti, porta statisticamente alla presenza di un partito unico, detentore del potere in modo pressoché assoluto: cioè la concentrazione di grandi ricchezze derivanti dalle risorse energetiche impedisce o ritarda la nascita di una società democratica o almeno politicamente policentrica e quindi consapevole delle proprie scelte. Basta vedere a questo proposito i casi di Russia, Arabia Saudita e Kazakhstan, ognuno con le sue specificità storico-politiche, ma tutti accomunati da una dinamica politica comune o almeno comparabile.
Può l’Europa far qualcosa?
©www.osservatorioanalitico.com – Riproduzione riservata
Commenti recenti