Le miniere di re Salomone ed il dragone: la competizione dei colossi asiatici in Africa

Le miniere di re Salomone ed il dragone: la competizione dei colossi asiatici in Africa

La Cina si è imposta già da tempo a livello mondiale come potenza economica di prima grandezza e anche in Africa (araba e subsahariana) Pechino conduce una politica molto dinamica che ha indubbiamente minato la presenza europea in molti settori. Osservatorio Analitico continua ad approfondire il tema, dopo un primo articolo su ‘Mediterraneo e Medio Oriente…gli interessi fondamentali della Cina nella regione….di Pasqualini) con l’analisi di un altro collaboratore, Musumeci.

Il Direttore Scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

L’Africa subsahariana, è nota al pubblico come un luogo naturale di guerra perpetua. In effetti, se prendiamo in esame l’ultimo anno, si presentano i casi del Kivu, del Mali, della caccia a Joseph Kony, della Somalia o dei due Sudan. Nonostante le continue crisi il volume d’affari legato allo sfruttamento delle sue risorse da parte dei nuovi protagonisti della scena mondiale è in continuo aumento. Il più interessante fra questi attori è la Cina che è attualmente tra i principali sostenitori dello sviluppo economico dell’Africa, con un impegno economico non molto inferiore a quello statunitense che è di circa 90 mld di dollari.

Il colosso asiatico mantiene un fonte riserbo sui progetti legati al continente africano. Molti di questi puntano allo sfruttamento delle risorse e delle materie prime del continente nero, in cambio della realizzazione di infrastrutture. Gli interessi di Pechino ultimamente sembrano però indirizzarsi sui settori: della sanità, dell’istruzione,  della cultura e dell’agricoltura.

Pechino è conscia che una politica del genere costituisce un soft-power in grado di produrre una penetrazione sul territorio capillare e radicale. La mancanza di informazioni suscita molte preoccupazioni da parte dei paesi occidentali.  Il dinamismo e la grande disponibilità finanziaria rendono Pechino un attore in grado di acquisire sempre maggiore influenza e potere, a discapito di interlocutori storicamente vicini ai paesi africani. L’Occidente abbandonando per diversi anni l’Africa ha lasciato un vuoto che la Cina e gli altri attori asiatici hanno compreso, colmandolo senza incontrare grandi ostacoli. Pechino si è così insediata sul territorio, ricevendo un’ottima accoglienza dai governanti africani: questi, incapaci di gestire le potenzialità economiche avendo fallito nel processo di industrializzazione, hanno cercato il rilancio grazie alle iniezioni di capitali ed expertise cinesi, cercando di limitare così il malcontento della popolazione per le difficili condizioni economiche.

La chiave del successo della politica di Pechino è stata senza alcun dubbio il principio cinese della non-ingerenza nella politica dei paesi ospitanti, i paesi africani non sono tenuti nemmeno a dare spiegazioni su questioni quali democrazia, diritti umani e trasparenza nell’utilizzo dei fondi. Grazie a questo modus operandi la Cina ha guadagnato sempre più terreno nei confronti dell’Occidente. Questo anche in virtù delle relazioni che tiene con Paesi dai regimi dittatoriali dai quali molte volte l’Occidente si tiene distante, dovendo fare i conti con il vincolo dei diritti civili e dell’opinione pubblica interna.

Questo fattore favorisce il consolidamento della presenza di Pechino sul territorio. L’espansione economica segue un ritmo molto rapido: lo scambio commerciale tra Cina e Africa ha raggiunto circa i 198,5 miliardi di dollari nel 2012 con una crescita esponenziale se si pensa che solo nel 2000 era di circa 20 miliardi di dollari. Il volume di investimenti diretti cinesi è di circa 20 miliardi di dollari; sono duemila le società che operano nel continente nero ed oltre un milione gli uomini di affari cinesi che si sono trasferiti nel continente nero. Parallelamente agli investimenti si accosta  un intenso percorso di carattere culturale. Nei paesi africani non è difficile trovare  Istituti di Cultura di Confucio, che fungono da hub per la diffusione della cultura asiatica grazie  all’insegnamento della lingua cinese.

Gli africani dalla loro sembrano però tollerare sempre meno volentieri la presenza cinese. Se inizialmente fare affari con le controparti cinesi era preferibile, rispetto ai paesi occidentali, perché la Repubblica Popolare era vista come un paese in via di sviluppo, delle esperienze negative con gli imprenditori cinesi hanno prodotto un notevole scetticismo. Nel rapporto con il colosso Asiatico le aziende africane non riescono a vincere gli appalti di progetti per la realizzazione di infrastrutture, superati sempre dai cinesi che riducono i costi di produzione e che sono appoggiate dell’autorità centrale. Una forte problematica è poi quella dell’occupazione. Le aziende di Pechino si avvalgono infatti della forza lavoro cinese senza la possibilità per la popolazione indigena di poter usufruire dei posti creati dalla costruzione delle infrastrutture,  provocando perciò l’aumento dei flussi migratori dalla Cina all’Africa. Si parla quindi di violazioni sulle norme del lavoro e di una mancanza di trasparenza, che influisce sulla qualità dei prodotti importati. Tale fenomeno sta producendo una reazione da parte di numerosi imprenditori che chiedono la revisione dei termini di negoziali per consentire a Pechino di continuare a investire nei loro paesi.

Il Giappone ha riconosciuto  il potenziale dei mercati africani già nel 1993 lanciando la Tokyo International Conference on African Development (TICAD) un modo per promuovere le relazioni economiche e commerciali con il continente. Grazie a questa, il Giappone ha esteso i suoi mercati e i suoi investimenti in Africa attraverso l’assistenza ufficiale allo sviluppo, il coinvolgimento del settore privato ed il trasferimento di tecnologie. Verso la fine degli anni 90, il Giappone ha dovuto però decurtare i suoi aiuti ufficiali all’Africa a causa del deficit nazionale sempre più in aumento e da quel momento la politica estera nipponica nei riguardi del continente africano si è sclerotizzata, permettendo alla Cina il sorpasso sulla terra del sol levante.

Pechino ha organizzato nel 2000 la sua versione della TICAD ovvero il Forum on China Africa Cooperation (FOCAC)  superando nel 2003 il volume di affari giapponese con l’Africa e allargando il divario negli ultimi dieci, fino al 10% mentre il Giappone è rimasto al 3%. Sia la TICAD che la FOCAC attirano i leader di più di 50 paesi africani e mirano a creare mercati e opportunità di investimento grazie alla cooperazione per lo sviluppo con l’Africa. La competizione fra Cina e Giappone si è intensificata ora che le due potenze sono più accanite che mai per la conquista delle risorse energetiche necessarie per far fronte alle nuove sfide dello sviluppo economico. Per Tokio la ripresa di floridi rapporti di commercio e nuovi investimenti in Africa vogliono essere un nuovo inizio dopo la crisi seguita agli eventi disastrosi del 2011 e rimettere in moto la crescita economica giapponese, per ridarle visibilità internazionale e credibilità.

La compagnia statale PetroChina fa di tutto per assicurarsi petrolio grezzo e gas naturale conquistandosi un ruolo preminente in Africa. Per concorrere con  la Cina, la Japan Oil, Gas and Metals National Corp (JOGMEC) si è impegnata nel fornire un aiuto finanziario del valore di 2 miliardi di dollari alla TICAD nei prossimi cinque anni, per aiutare le aziende giapponesi attraverso progetti di sviluppo delle risorse naturali. Nel frattempo, i paesi africani hanno espresso la loro preoccupazione riguardo all’accaparramento di materie prime da parte di alcune nazioni per il loro esclusivo guadagno. Molti paesi africani sono diventati così dipendenti dalla Cina ormai da non poter più sussistere senza di essa. Il Giappone, tuttavia, gode sostanzialmente di un’immagine più positiva soprattutto per i suoi aiuti volti allo sviluppo.

Dove ci sono Cina e Giappone non può non essere presente anche l’India che già dai primi del Novecento aveva una forte presenza di manodopera che si era stabilita in Africa orientale, tanto che per lungo tempo la rupia è stata la moneta più diffusa nella regione. Fino agli anni 90 l’India aveva, rispetto alla Cina, relazioni più solide col continente nero, da un punto di vista sia qualitativo che quantitativo. Negli ultimi due decenni però il colosso cinese è riuscita a scalzare la potenza Indiana attraverso politiche commerciali e fiscali tese a favorire l’insediamento in Africa delle aziende e dei capitali cinesi che  ha agevolato e non poco il sorpasso, in termini numerici, sugli Indiani.

Il “conflitto” tra i due paesi, oltre che sul piano commerciale, ha valore soprattutto sul piano geopolitico. Gli interessi asiatici si stanno scontrando in maniera sempre più forte con quelli statunitensi ed europei. Gli investimenti in materie prime (giacimenti di terre rare) e infrastrutture sono notevoli. Uno degli ultimi in termini cronologici è quello della Oil e Natural Gas Corp il colosso indiano energetico, che ha acquistato una partecipazione del 10% in una piattaforma del Mozambico per 2,6 miliardi di dollari. Secondo la società il giacimento potrebbe essere uno dei più grandi al mondo.

L’agricoltura è un altro punto di forza nell’economia indiana, portando il governo ad investire oltre un miliardo di dollari in aziende agricole in Etiopia. Un esempio di questa politica è la Karuturi Global, un azienda indiana insediata in Kenya  che è tra i più grandi produttori di fiori recisi al mondo con oltre 5000 dipendenti. Una delle zone più strategiche del continente sembra essere la Nigeria, che secondo le previsioni diventerà in breve tempo un punto nevralgico degli interessi economici delle potenze asiatiche. In primo luogo perché risiede nello stesso fuso orario dell’Europa. Questo elemento garantirebbe la possibilità di mettersi in stretta relazione con l’Europa, soprattutto per quanto riguarda le telecomunicazioni ma cosa più importante le aziende farmaceutiche indiane sono i maggiori fornitori di medicinali in Nigeria con un fatturato in crescita del 35% annuo, oltre alla presenza dei ben noti giacimenti di petrolio e gas.

D’altra parte come avviene per molti interventi interni, la burocrazia indiana è lenta e non agevola per niente le imprese. Un esempio di tale lentezza è sicuramente il progetto idroelettrico di Katende in Congo. L’arco temporale per l’ottenimento dei finanziamenti è stato di circa tre anni. In Cina per lo stesso tipo di progetto il tempo per la preparazione dei documenti necessari sarebbe stato di tre mesi. Le cifre per ora sembrano favorire Pechino anche se  l’India mira a raggiungere i 100 mld di dollari nel giro d’affari con l’Africa entro il 2015 se pur la Cina tutt’oggi possiede un volume d’affari di circa 200 mld che incrementerà nei prossimi anni. Gli indiani sperano tuttavia di ridurre il gap puntando come ormai fanno da parecchi anni sul vantaggio d’immagine e le migliori alleanze con i paesi occidentali, che attraverso l’India ed il Giappone sperano di portare avanti una politica di contenimento nei confronti della Cina.

Ancora una volta l’Occidente, e più propriamente l’Europa, sembra perdere una grande chance collaborativa ripiegandosi su se stesso sulla base di interessi particolaristici. Solo un’Europa unita, potrebbe contrastare la forza economica di questi nuovi attori che sembrano ormai scalzare il vecchio continente da tutte le aree d’interesse strategico del pianeta. Soprattutto il ruolo della Cina in grado di infiltrarsi con successo in realtà stratificate come quelle africane, costituisce un elemento cui deve essere prestata la massima attenzione poiché le risorse del pianeta non sono infinite. Una nuova corsa alla conquista del continente nero è cominciata: questa volta il premio non sono le sorgenti del Nilo o, come nel romanzo di Haggard, le miniere di re Salomone ma le materie prime dell’Africa che possono garantire la supremazia tecnologica ed energetica nei prossimi cinquant’anni.

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