Egitto. Crisi economica e crescente povertà…

Egitto. Crisi economica e crescente povertà…

Il Presidente dell'Egitto Fattah Abdel Al Sisi

Il Presidente dell’Egitto Abdel Fattah el Sisi

Un ampio e dettagliato panorama dell’attuale situazione politica e economica dell’Egitto, considerando anche la personalità di Al Sisi e la pesante eredità morale e economica lasciata da Mubarak e Morsi, precedenti presidenti, scritto da Paolo Brusadin.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Negli ultimi mesi in alcuni governatorati egiziani sono ricomparse le proteste e le manifestazioni di piazza che hanno raggiunto il loro picco venerdì 25 settembre 2020, il venerdì della rabbia.

Manifestazioni contro la politica del Presidente Abdel Fattah el Sisi e il deterioramento delle condizioni sociali ed economiche, peraltro aggravate dagli effetti della pandemia.

Nel primo semestre del nefasto 2020 quasi 3 milioni di egiziani hanno perso il lavoro e la disoccupazione, secondo le stime ufficiali, ha superato il 10%.

Più del 26% della forza lavoro egiziana è attualmente senza occupazione in vari settori tra cui il manifatturiero, i trasporti e, soprattutto, il turismo, che ha visto diminuire le entrate del 70% rispetto al 2019.

Le più importanti agenzie di rating hanno declassato il Paese e le uniche voci in attivo del bilancio economico sono rappresentate dai proventi ricavati dal transito delle navi nel Canale di Suez e, in minima parte, dal comparto agricolo. Tutto il resto, a parte il settore oil&gas, è in sofferenza.

Le recenti manifestazioni scaturiscono dal combinato disposto di vari fattori che riflettono il costante deterioramento della situazione sociale, in particolare l’aumento generalizzato dei prezzi al consumo (compresi quelli di prima necessità).

Paradossalmente i prodotti alimentari riservati ai più poveri ed acquistati nei negozi gestiti dai militari, costano di più rispetto a quelli presenti sugli scaffali delle grandi catene di distribuzione.

In aggiunta, sono state introdotte alcune riforme non bene accolte dall’opinione pubblica, come quella che prevede la demolizione o l’imposizione di sanzioni pecuniarie per i proprietari di abitazioni non conformi ai nuovi codici di costruzione (più di 2 milioni di residenze).

Alcuni indicatori economici, tra cui l’inflazione che nell’ultimo triennio è diminuita, il deficit di bilancio che è stato ridotto e le riserve valutarie che sono in crescita, rappresentano segnali incoraggianti ma non sufficienti.

Le prospettive macroeconomiche appaiono ridimensionate oltre che per i problemi interni, anche per la pessima congiuntura internazionale.

Su tutto, e prima di tutto, incombe dunque la pressante necessità di risollevare una complicata situazione economica e migliorare le condizioni di vita del 35% della popolazione egiziana che vive al di sotto della soglia di povertà, senza tralasciare un altro 20% che vive appena al di sopra di tale soglia.

Ciò equivale a dire che circa un terzo dei 95 milioni di egiziani guadagna circa 50 dollari al mese. Nella parte meridionale dell’Egitto la situazione è peggiore rispetto alla zona de il Cairo e del Nord, basti considerare che tra i mille villaggi più poveri 226 sono nella provincia di Sohag, 206 ad Asyut e 66 a Minya, tutte nel Sud.

Pertanto le ultime proteste possono essere etichettate come una sorta di “ribellione” dei più poveri, non della classe media che invece non è scesa in piazza, anche perché fortemente disillusa, demotivata e rassegnata.

Anche se la copertura mediatica internazionale non è stata particolarmente incisiva come in passato ed anche se le proteste sono immediatamente rientrate lasciando sul terreno “solo” due manifestanti uccisi dalla forze dell’ordine, si possono rimarcare alcune novità nel modus operandi si qui adottato dai manifestanti.

In primis, e per la prima volta, si può notare come le manifestazioni siano scoppiate simultaneamente nei vari governatorati e, in secondo luogo, abbiano smosso le fasce più povere della popolazione.

Inoltre, sono scesi in piazza per la prima volta anche i giovani che ai tempi della caduta di Hosni Mubarak del 2011 e della cacciata di Mohamed Morsi da parte dell’allora Comandante dell’Esercito el Sisi, erano infanti.

Le proteste in futuro potrebbero riverberarsi, anche perché il periodo di grazia con la popolazione egiziana di el Sisi è terminato da tempo e le promesse fatte nel 2013 sono state disattese.

Il vero problema è che il Presidente non è riuscito a chiudere definitivamente la pagina della storia legata alle vicende dell’ex Rais Mubarak e il bel discorso d’insediamento in cui asseriva di essere “….pronto a portare l’Egitto verso una nuova fase che consentirà una rinascita complessiva del Paese sul piano nazionale e internazionale”, è rimasto per l’appunto solo un bel discorso.

I fulul, termine che identifica tutti coloro i quali hanno avuto un legame con il regime di Mubarak, non sono del tutto scomparsi, anzi sono ben presenti in tutti meandri della mastodontica macchina pubblica egiziana, esercito compreso.

Dunque el Sisi, con una biografia che non si discosta moltissimo da quella di Gamal Abdel Nasser, non è più considerato il salvatore della patria, a differenza del suo illustre predecessore che, nell’immaginario collettivo, rimane il simbolo degli Ufficiali liberi che assunsero il potere nel 1952 ponendo fine alla monarchia e che restò Presidente nonostante l’umiliante sconfitta della guerra dei sei giorni contro Israele nel 1967.

La corruzione è diffusa a tutti i livelli e, recentemente, ha avuto risalto in patria e all’estero l’accusa postata sui social media dell’imprenditore e attore Mohamed Aly contro l’Esercito (che peraltro controlla il 50% dell’economia egiziana), per aver realizzato molti progetti faraonici miseramente falliti, senza alcun beneficio per la popolazione.

Correlato al problema dell’Esercito che gestisce buona parte dell’economia, sussiste un’endemica difficoltà a dar corso alle privatizzazioni delle aziende statali.

Recentemente si sono registrati alcuni deboli segnali che hanno riguardato il monopolio dei tabacchi e le privatizzazioni bancarie; ben poca cosa rispetto alle grosse imprese che incidono sulla formazione del Pil.

La difficoltà a procedere con le privatizzazioni è legata al fatto che ai vertici di queste imprese sono sistematicamente posti i generali in quiescenza (anche per compensare delle pensioni non molto alte), appiattendo la concorrenza ed avvilendo le competenze dei dirigenti provenienti dal mondo civile.

E’ di tutta evidenza che la perpetuazione della casta è complicata da scardinare, anche perché il “peso” dei generali nel regime di el Sisi permane forte.

Le accuse di Mohamed Aly, rifugiatosi a Madrid, sono probabilmente risuonate come un monito per le Autorità egiziane che hanno ben presente quanto è successo in Tunisia, dove un anonimo professore universitario ha vinto le recenti elezioni presidenziali. E la storia recente ha più volte unito le dinamiche tunisine con quelle egiziane (la memoria corre alle vicende della Primavera araba).

C’è dunque l’assoluta necessità di una maggiore democrazia in tutti i settori della vita sociale egiziana, una vera riappacificazione sociale e politica e migliori prospettive economiche, in particolare per le giovani generazioni.

Giovani generazioni che continuano a pagare il prezzo più alto in un Paese che è ancora alla ricerca di una nuova via, ancora a metà del guado tra una restaurazione militare d’antica memoria nasseriana e una “compiuta” democrazia di stampo occidentale.

Per il bene dell’Egitto, quale attore importante nello scacchiere regionale ma soprattutto per il suo popolo, ci auguriamo che tutto ciò possa quanto prima realizzarsi e che il vento possa finalmente soffiare dalla parte della democrazia.

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