Emirati Arabi Uniti – EAU: le strategie in politica estera e lo scenario economico attuale.

Emirati Arabi Uniti – EAU: le strategie in politica estera e lo scenario economico attuale.

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Un’articolata e documentata analisi di un mondo da noi non molto conosciuto (se non per le crociere)….e nel quale siamo quasi del tutto assenti in politica estera, di Paolo Brusadin.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Il Medio Oriente è una regione che ci fornisce, quasi quotidianamente, spunti di riflessione. Ciò che avviene in Siria, in Iraq, in Libia oppure nello Yemen, in Iran, in Israele ecc… catalizza una nostra, seppur distratta attenzione e ci obbliga, anche per crudezza di alcune situazioni, ad un approfondimento.

Di altri Paesi disconosciamo le dinamiche, seppur interessanti e utili per comprendere le evoluzioni geopolitiche nell’area. È il caso degli Emirati Arabi Uniti – EAU, che in questi ultimi mesi sembrano aver spostato il baricentro della loro politica estera.

Un Paese che si è sempre caratterizzato per un’attenta gestione politica e un saggio equilibrio tra le molteplici anime che costituiscono la federazione formata da sette emirati: Abu Dhabi (la capitale che occupa l’85% del territorio e detiene il 90% delle riserve energetiche), Ajman, Dubai, Fujarah, Ras al Khaimah, Sharja e Umm al Quwain.

Una distesa di deserto che negli anni s’è trasformata in un presidio dei mercati finanziari, con una forte capacità di attrarre investimenti e di valorizzare la componente multietnica della popolazione (i lavoratori immigrati, spina dorsale dell’economia, sono più di 8 milioni e costituiscono l’85% della popolazione).

La situazione economica attuale, aggravata dagli effetti della pandemia mondiale del Covid 19, non è delle più rosee e le autorità locali, per cercare di fronteggiare la sfavorevole congiuntura economica, sono intervenute per contenere la spesa pubblica, per agevolare i settori no-oil, per privatizzare un buon numero d’imprese statali e per rafforzare l’Abu Dhabi Securities Exchange Market (sul territorio operano una cinquantina di banche nazionali, di cui 18 sono tra le prime 100 banche arabe e 14 sono tra le prime 1000 a livello globale).

A ciò si deve aggiungere che il Paese nell’ultimo lustro ha speso molto nel settore della Difesa (nel 2018 il budget ha superato i 21 miliardi di dollari) ed ha investito fortemente per trasformarsi, a livello mondiale, in un hub oltre che per l’economia, per l’arte, il turismo e le scienze.

Le difficoltà attuali sono legate, oltre al Covid 19 e nonostante una diversificazione economica, al calo del prezzo del petrolio, a conferma di una non piena emancipazione dall’oro nero.

Sommando gli elementi suesposti, il quadro che ne esce non è idilliaco e ciò spiega la recente difficoltà degli EAU ad attrarre investimenti stranieri, di una crisi del settore finanziario e della contrazione del mercato azionario.

E tutto questo ad un anno dall’Expo 2020 di Dubai, un volano importante su cui puntano gli EAU per rilanciare l’economia.

L’esposizione universale, programmata da ottobre 2020 ad aprile 2021, con un flusso di visitatori stimato superiore ai 25 milioni ed intitolata Connecting Minds, Creating the Future, si estenderà su una superficie di quasi 500 ettari e sarà strutturata in tre padiglioni (l’opportunità, la sostenibilità e la mobilità), con aree innovative e punti di best practices in ogni padiglione.

Gli EAU sono fiduciosi su un effetto traino della manifestazione sul comparto infrastrutturale e immobiliare, nonché sui piani di sviluppo infrastrutturali congelati per gli effetti della crisi economica.

Una disattesa delle forti aspettative, causerebbe un grave pregiudizio all’immagine ed al ruolo degli EAU in tutto lo scacchiere regionale.

Le difficoltà economiche contingenti, dovute anche all’adesione all’embargo diplomatico e commerciale contro il Qatar (accusato da più Stati di finanziare i gruppi estremisti nello Yemen e in altri Paesi per fomentare il caos nella regione), ha indotto gli EAU a rivedere le proprie posizioni in politica estera.

Un primo segnale di questa “mutazione geostrategica” (una nuova “piccola Sparta” così definita dall’ex Segretario della Difesa americano James Mattis), lo si è avuto nel corso dell’estate con l’annuncio, a sorpresa, di una riduzione e redistribuzione delle forze EAU da anni impegnate nello Yemen.

Pian piano i soldati emiratini si sono ritirati dalle province settentrionali, consegnandole al controllo delle forze dell’Arabia Sudita. Le autorità emiratine hanno giustificato questo cambio di passo per cercare d’implementare la strategia del peace first, piuttosto che del military first, evidentemente giudicata fallimentare.

Un secondo segnale è stata la visita di una delegazione emiratina di alto rango in Iran per la firma di un Memorandum of Undestanding, con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza delle frontiere e per regolamentare la pesca nelle acque territoriali.

È stato altresì riattivato il Comitato misto per il controllo dei confini dopo sei anni d’inattività, con una nuova pianificazione delle riunioni (annuali a Teheran e Abu Dhabi e semestrali lungo le linee confinarie).

Un terzo segnale è stato l’annuncio da parte iraniana del superamento degli ostacoli burocratici che gli uomini d’affari iraniani incontravano all’atto d’investire negli EAU. Lo Sceicco Mohammed bin Rashid ha rassicurato la controparte iraniana e promesso una più snella procedura nel rilascio dei visti commerciali, lo scongelamento dei conti bancari iraniani esistenti e l’apertura di nuovi, nonostante le sanzioni statunitensi.

Perché questa mutazione e, soprattutto, perché un riavvicinamento all’Iran?

In un ginepraio d’ipotesi, un motivo plausibile potrebbe essere una crescente sfiducia degli EAU nei riguardi degli Stati Uniti d’America, in particolare nel Presidente Trump.

Da una posizione intransigente a fianco d’Israele e dell’Arabia Saudita contro l’Iran, dal sostegno alla decisione americana del ritiro dall’accordo sul nucleare e l’imposizione di dure sanzioni economiche, si è passati ad una posizione quasi speculare, certamente più morbida.

Infatti, allorquando le petroliere battenti bandiera emiratina, saudita e norvegese furono attaccate nei pressi dello snodo portuale di Fujeira, che gestisce buona parte delle esportazioni di greggio emiratine, la reazione EAU non è stata accusatoria contro l’Iran, a differenza di quella americana e, seppur con sfumature diverse, di quella britannica.

La stessa trama s’è ripetuta poco tempo dopo, con il sequestro iraniano di una petroliera battente bandiera britannica nelle acque territoriali omanite.

In tale scelta ha pesato, come un macigno, la dichiarazione del Presidente Trump secondo cui la responsabilità di proteggere le forniture di petrolio del Golfo ricade sugli stessi Paesi del Golfo e non sugli Stati Uniti d’America.

Una dichiarazione che, agli occhi degli emiratini, è apparsa come un netto disimpegno americano nell’area e che, probabilmente, non andrà oltre l’imposizione dell’embargo.

Se ancora c’erano dubbi sulla scarsa volontà americana di presidiare la zona, il silenzio americano a seguito dell’abbattimento iraniano di un costoso drone americano e della successiva dichiarazione iraniana secondo cui lo stesso drone era stato lanciato da una base emiratina, li ha dissipati.

La paura degli EAU di rimanere soli a fronteggiare l’Iran è ulteriormente accresciuta dopo il rifiuto della Francia e della Germania di inviare proprie forze navali a presidiare il Golfo.

Gli effetti negativi di tale decisione si sono già fatti sentire con i cinesi, indiani, giapponesi e sud coreani che hanno iniziato a cercare delle alternative al petrolio del Golfo, per i timori di tagli alle linee di approvvigionamento e una (ipotetica) chiusura dello stretto di Hormuz.

Pertanto, il combinato disposto della situazione economica e di un quadro geostrategico in movimento, ha trasformato l’intransigenza in apertura verso l’Iran da parte degli EAU che, non a caso nel passato erano definiti la “finestra” iraniana sul mondo.

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