Iraq oggi…quali strumenti per stabilizzarlo?

Iraq oggi…quali strumenti per stabilizzarlo?

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Anche l’Iraq è di nuovo in gran movimento…si sperava di averlo stabilizzato…invece l’Occidente non è stato capace…un’interessante analisi a tutto campo

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Iraq: dopo le fasi di paura, terrore, incertezza e precarietà, le proteste di piazza quale strumento necessario per un periodo migliore?

In questi ultimi mesi, in Iraq, stiamo assistendo a un dilagante aumento delle proteste popolari non più circoscritte alla capitale, bensì estese nelle province del sud e nella regione dell’Eufrate, che vanno a inserirsi in una situazione regionale già particolarmente fragile e turbolenta.

Molti manifestanti hanno perso la vita e centinaia sono rimasti feriti a causa della violenta repressione.

Verrebbe da dire la giadid tahta el shams, nulla di nuovo sotto il sole, giacché l’ultimo quarto di secolo di storia dell’Iraq, che prende il nome dall’antica città sumerica di Urua e che in aramaico antico significa “terra lungo le sponde della riva sud”, è una continua striscia di sangue intervallata da tensioni sociali.

La violenza, purtroppo, sembra essere oramai un metodo accettato (subìto) dalla popolazione irachena per la risoluzione di tutte le controversie.

Violenza che, peraltro, ha caratterizzato il Paese ancor prima dell’ultimo ventennio, in particolare negli anni venti e trenta del secolo scorso, con l’inizio della formazione dello Stato moderno dell’Iraq ed è poi continuata nell’era di Saddam Hussein.

In questo Paese tutti i cambiamenti politici sono avvenuti con la violenza, con la repressione, con l’assoggettamento della maggioranza della popolazione a vantaggio di una dispotica minoranza.

Prima di interrogarci sul perché delle manifestazioni di questo periodo e di analizzare l’attuale situazione in Iraq, non si può non riconoscere, una volta di più, l’invalidità della facile equazione in base alla quale senza Saddam Hussein l’Iraq sarebbe diventato un Paese democratico.

E’ di tutta evidenza che l’azione della coalizione internazionale in Iraq guidata dagli Stati Uniti d’America non ha prodotto il risultato voluto (o sperato) e il concetto di democrazia rappresentativa continua ad essere scarsamente applicato.

L’Iraq è un Paese ancora dilaniato, diviso, settario, devastato, incapace di utilizzare le sue grandi potenzialità e dove i sunniti, un tempo privilegiati, ora sono emarginati.

Infatti, per secoli in Iraq la popolazione dello shī’ at Alī è vissuta nell’ombra rispetto a quella di credo sunnita; è sempre stata perseguitata a partire dagli Abbasidi, poi dalla Sublime Porta e infine dal regime dittatoriale di Saddam, mentre oggi i rapporti di forza sono mutati.

Gli iracheni, dunque, sono passati da uno stato di “paura e terrore” con Saddam Hussein, a quello di “incertezza e precarietà”, in una società che permane arcaica e tribale.

In tale scenario i curdi sono sempre più arroccati sulla loro autonomia settentrionale, mentre i sostenitori dell’Isis, anche se il progetto di el Baghdadi (ancor prima che morisse per mano degli americani),  di realizzare un emirato islamico che unisse l’Iraq con la Siria per cacciare i rafida, i negazionisti (i musulmani sciiti) insieme a tutti i Kafr, infedeli (le altre minoranze religiose compresa quella cristiana) è fallito, continuano ad essere radicati nel territorio e quindi pericolosi.

All’interno della variegata società irachena la violenza prende sovente la forma della rappresaglia e le motivazioni da cui essa scaturisce sono varie: dalla spartizione del potere sociale ed economico, alla conservazione dei gruppi tribali, al mantenimento dell’onore della famiglia.

E proprio l’incertezza e la precarietà hanno spinto gli iracheni a riversarsi in massa e a manifestare in piazza Tahrir(libertà) a Bagdad e nelle altre piazze più importanti del Paese a Bassora, Ramadi, Samarra, Falluja, Kirkuk, Tikrit e Hillah, contro il Governo del Primo Ministro Adil Abdul Mahdi.

Giovani disoccupati (il tasso di disoccupazione è al 25% secondo i dati della Banca Mondiale), laureati, medici, militari, commercianti e cittadini di ogni estrazione sociale si sono trovati fianco a fianco nel chiedere un miglioramento delle condizioni generali di vita, stanchi di un carovita insostenibile, della mancanza di servizi essenziali, di governi inconcludenti e corrotti che calpestano i diritti dei cittadini.

Una buona fetta dei 39 milioni di abitanti dell’Iraq, nonostante il petrolio, vive in condizioni economiche precarie, mentre dalle casse statali sono spariti, dalla caduta di Saddam Hussein ad oggi, non meno di 450 miliardi di dollari! Una cifra enorme a tutto vantaggio di pochi.

Le tensioni nel Paese sono via via accresciute anche a seguito della decisione del Primo Ministro Mahdi, in qualità di Comandante in Capo dell’Esercito, di trasferire uno dei più importanti generali che hanno combattuto contro il Califfato, il Gen. Abdel-Wahab el Saadi, togliendoli il comando delle Forze d’Elite e dell’antiterrorismo, per destinarlo ad un anonimo incarico presso il Ministero delle Difesa.

In Iraq el Saadi è considerato il simbolo di un rinnovato sentimento nazionale ed è stato uno degli artefici della ricostruzione dell’esercito iracheno che, sebbene addestrato ed equipaggiato dagli americani, negli anni non ha brillato nel mantenere il controllo del territorio.

Un esercito che conta più di 250 mila soldati ma che rispecchia, nella sua composizione, la spaccatura tra sunniti e sciiti insita nella società irachena, esasperata negli anni della guerra e aggravata dalle azioni dei nuovi governanti.

I sostenitori di el Saadi sono convinti che dietro la sua defenestrazione ci sia la longa manus iraniana, mentre i suoi oppositori lo considerano un cospiratore, intento a tessere le fila per tentare di organizzazione un colpo di stato militare.

La situazione è complessa e le motivazioni che hanno portato alla recrudescenza della violenza non sono chiare. Di certo anche le autorità irachene devono fare i conti con i social media, per la prima volta importante strumento di mobilitazione di massa (centinaia di video che hanno documentato la violenza sono state diffuse nelle varie piattaforme).

E proprio nei social molti intellettuali iracheni hanno espresso la convinzione che l’Iraq sì sta attraversando un brutto momento, ma che comunque era atteso e tutti sapevano che, prima o poi, sarebbe arrivato.

Molti affermano di vedere un Iraq, forse per la prima volta, unito e non diviso dal credo religioso e dalla politica, con una popolazione che manifesta e “combatte” per il proprio Paese e per i propri diritti.

Forse questa “ipotetica” unione dipende in parte da un sentimento diffuso di “scampato pericolo” dopo che il risveglio degli antichi fantasmi di trasformare la “Terra dei due Fiumi” e il Levante in un unico Paese della Jihad, uno Jihadistan, da parte di el Baghdadi, aveva terrorizzato l’intera regione.

Se è vero che anni di malgoverno, d’instabilità e d’ingiustizia fortificano la voglia di cambiamento, è altresì evidente che le manifestazioni di piazza che, seppur imponenti, nascono il venerdì dopo la preghiera del mezzogiorno e muoiono prima della preghiera della sera, non sono sufficienti.

Il cambiamento è un processo che, per tramutarsi in un’azione duratura, deve essere strutturato, quotidiano, capillare ed investire tutti i settori della società.

Se la presenza di una lotta intestina tra varie anime, correnti, tribù e religione ci (in quanto occidentali) ha confortato molto nel considerarla tra le cause del fallimento nella creazione di un “nuovo” Stato islamico radicale da Baghdad sino a Beirut passando per Damasco, la stessa potrebbe però essere d’impiccio per l’avvio di un prossimo (si spera) efficace processo di ricostruzione economica, sociale e politica in un quadro di sicurezza e di stabilità sociale.

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