IL MEDIO ORIENTE NELLA LA POLITICA INTERNAZIONALE

IL MEDIO ORIENTE NELLA LA POLITICA INTERNAZIONALE

Tzipi Hotovely, vice ministro degli Esteri di Israele

Tzipi Hotovely, vice ministro degli Esteri di Israele

Un rapido panorama di alcune situazioni attuali in Medio Oriente.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

 Iran, il ministro degli esteri, Javad Zarif si dimette.

Il 26 febbraio Javad Zarif dà le dimissioni proprio nel giorno che l’Iran festeggia le donne perché coincide con il compleanno di Fatima, la figlia di Maometto ma la sera dello stesso giorno, il presidente Rohani le respinge.

Dietro quelle dimissioni vi sono due problemi per Zarif.:

– le Guardie Rivoluzionarie;

– Qasem Soleimani, comandante dei Pasdaran.

Il 22 precedente Soleimani aveva incontrato il presidente siriano, Bashar al-Assad alla presenza del leader Supremo Alì Kamenei che aveva ringraziato Soleimani e le Guardie  rivoluzionarie per aver salvato la dinastia alawita. Non manca poi la critica interna per il coinvolgimento militare in Siria, Libano, Iraq e Palestina trascurando le necessità del popolo, atteso che il rial da gennaio 2018 ha perso il 70% del suo valore secondo il Fondo monetario internazionale, il quale aggiunge che la crescita economica è limitata al 3% anche a causa delle ultime sanzioni del presidente USA Donald Trump.

Il Parlamento iraniano lo stesso giorno delle dimissioni ha inviato a Zarif una lettera in cui gli chiedeva di continuare  il suo lavoro.

Attività americana contro Siria e Iran

Gli americani alla fine del 2018 dichiarano che si ritireranno dalla Siria perché la guerra è finita, salvo – come sempre – a rimanervi anche perché Israele continua a bombardare in Siria i siti dei pasdaran iraniani.

In realtà, Usa, Turchia, Israele, Francia, Inghilterra e il C.C.G (Consiglio di Cooperazione del Golfo) infiltrano jihadisti in Siria per continuare a destabilizzarla.

Dal suo canto, la Turchia, dopo l’accordo con la Russia, cerca di debellare a Idlib i residuali ribelli operanti alle frontiere siriane.

Da rammentare che i jihadisti – con l’aiuto della Turchia – in Siria erano sin dal 2011 insieme a militanti provenienti da Libia, Marocco, Tunisia e dalla  Cecenia, con un totale indicato in 45 mila combattenti, anche grazie ai finanziamenti del CCG.

La ribellione siriana era nata con richieste dirette a Bashar al-Assad: cessazione delle legge di emergenza, liberazione dei detenuti politici e spartizione delle entrate anche alla popolazione.

Quella che era una ribellione civile e disarmata è trasformata dai soliti Paesi interessati (Usa, Turchia, Israele) in una guerra  che dura tuttora  con la devastazione del Paese, milioni di profughi in Libano e Giordania, e milioni di morti atteso che americani, francesi e inglesi hanno a suo tempo appoggiato jihadisti con il fine di annullare la  Siria.

Nel 2014, infatti, appare il Califfato di Al Baghdadi che attacca soprattutto Pasdaran iraniani guidati dal generale Qasem Soleimani, le milizie sciite e gli Hezbollah libanesi.

A loro si aggiungono i Curdi che combattono indefessamente nonostante siano perseguitati dalla Turchia.

Gli americani si muovono contro il Califfato solo dopo gli attentati in Francia e in Europa.

Il Presidente americano Trump invita le potenze europee a darsi da fare per difendersi dagli attentati ma soprattutto a attaccare l’Iran.

Intanto in Egitto.

Il 20 febbraio in una prigione del Cairo sono stati impiccati 9 prigionieri, accusati –secondo molti egiziani – di avere confessato reati solo dopo torture e di aver organizzato e eseguito l’uccisione dell’ex procuratore generale Hisham Barakat (ucciso nel giugno 2015 da un’auto-bomba).

Non è stato dato il permesso di fare visita ai prigionieri (nonostante sia un diritto sancito dalla legge) e i familiari hanno saputo di poterli rivedere solo per  riprendere i corpi in obitorio. Questo accade nonostante la figlia di Barakat, la notte prima delle impiccagioni,  dichiari “questi giovani non sono killer”.

A questi 9 giovani si aggiungono altri 6 giustiziati sempre a febbraio, secondo la denunzia fatta dal gruppo contrario alla pena di morte, Reprieve:

– tre accusati dell’omicidio di un poliziotto e tre per quello del figlio di un giudice, “ entrambi nel settembre 2013”.

–  tutte e tre le ultime esecuzioni sono avvenute a pochi giorni da attacchi islamisti in Sinai contro l’esercito.

Le esecuzioni sono ormai continue, come dichiara la direttrice di Reprieve, Maya Foa, tra abusi diffusi, violazioni giudiziarie, torture, confessioni false”.

In sintesi questo sarebbe il sistema giudiziario voluto dall’ex generale Fattah al–Sisi dopo il golpe del luglio 2013.

Da allora le Corti militari e civili egiziane hanno condannato a morte 1.451 persone, per lo più membri sospettati far parte dei Fratelli Musulmani.

Va ricordato che, pochi giorni fa, dei 156 condannati  da una Corte militare, 26 erano minori al tempo dell’arresto nel 2014. Altri ragazzini  che all’epoca avevano fra i 14 e i 17 anni sono stati condannati dai 3 ai 5 anni di carcere in violazione della legge egiziana che proibisce l’arresto sotto i 15 anni e impone il giudizio  di una Corte minorile. Dal luglio 2013 sono stati detenuti in Egitto 3.200 minori.

Yemen e USA

A dicembre scorso era stato il Senato USA, immediatamente seguito dalla Camera, a votare a favore di una mozione che chiede la fine dell’assistenza  militare americana alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita.

Il precedente 13 dicembre con 56 voti a favore e 41 contrari, il Senato – a maggioranza repubblicana – aveva per la prima volta in 45 anni invocato il War Power Act, legge entrata in vigore nel 1973 durante l’era Nixon e con lui il Congresso si riprendeva il potere di dichiarare guerra e di ritirare le truppe americane in caso di dispiegamento senza autorizzazione. Ora è un altro Vietnam, quello Yemenita, a muovere il Congresso USA.

Ma il 13 febbraio scorso la “nuova ” Camera ha seguito le orme dei senatori con 248 sì e 177 no e i deputati hanno approvato una risoluzione che chiede la fine del sostegno Usa alla coalizione a guida saudita cioè la fine del coinvolgimento statunitense nel conflitto yemenita.

Anche questa volta la mozione si fonda sul War Power Act. La prossima mossa: la mozione passa al Senato per il voto. Se dovesse passare finira’ nello Studio Ovale, sul tavolo del Presidente: se Trump dovesse porre il veto sarebbe il primo della sua presidenza.

L’obiettivo dei parlamentari è di interrompere l’assistenza che da anni Washington fornisce in Yemen a Riyadh, dalla condivisione di intelligence ai rifornimenti in aria, fino alla logistica. “…Non si tratta di una complessa questione di politica estera, ma di decenza umana. Questa risoluzione dice con chiarezza che deve interrompere la campagna di bombardamenti e sedersi al tavolo del negoziato”…

 “…Abbiamo aiutato a creare  e a peggiorare la più grande crisi umanitaria del mondo – ha sottolineato la parlamentare dem Barbar Lee – il nostro coinvolgimento in questa terra è una vergogna”…

Per il presidente Trump, in rotta con il Congresso da mesi, si tratta dell’ennesima frenata in politica internazionale.

In gioco c’è l’intera strategia mediorientale dell’attuale amministrazione che su Arabia Saudita e Israele fonda i perni della propria politica estera.

Si è visto dopo il brutale omicidio del giornalista dissidente, Jamal Kahashoggi, con Congresso e  Cia che hanno apertamente puntato il dito  contro il  principe ereditario e reggente di fatto di Riyadh, Mohammed bin Salman, mentre Trump ha fatto finta di nulla e proseguito normalmente i rapporti con la petrolmonarchia.

In ballo ci sono l’architettura di Trump per la regione mediorientale, il conflitto con l’Iran che egli sta costruendo passo per passo  grazie al sostegno degli alleati regionali e la normalizzazione  – in corso attualmente a Varsavia – tra Paesi sunniti e Israele.

L’Arabia Saudita, da parte sua,  sente la pressione montare. Una settimana fa è stato il Marocco ad abbandonare la coalizione sunnita anti-Houthi in Yemen.

Di certo Rabat ha sospeso il coinvolgimento dei propri caccia nella campagna di bombardamenti del Paese del Golfo e non parteciperà più a meeting degli Stati coinvolti nella guerra.

Il moderato appoggio a una possibile pace israelo-palestinese è un’alternativa che il Governo israeliano non vuole.

ll premier israeliano Netanyahu ritiene che i Paesi europei “mettono a repentaglio la sicurezza di Israele che pure aiuta la sicurezza europea”.

Va anche rilevato che il vicepresidente americano, Michael Pence, eccellente amico di Israele, è anche un evangelico appassionato alla Bibbia e alla parola di Dio.

Pence e gli evangelici dicono di amare Israele, ai quali affidano un ruolo importante sulla via della redenzione per poi perseguitare i musulmani.

Negli Stati Uniti le critiche alle dichiarazioni della neodeputata Ilhan Omar che ha denunziato la forza della lobby pro-israeliana sono state virulente, tanto che il Presidente Trump, Pence e i difensori della cosiddetta ‘supremazia bianco-cristiana’ sono andati su tutte le furie e così gli estremisti ebrei e israeliani.

Peraltro, il premier israeliano nelle prossime settimane del mese di marzo è in attesa che si chiuda l’inchiesta che lo coinvolge in fatti di corruzione, da lui negati anche perché sta gestendo la sua campagna elettorale.

In merito, il leader ha preferito nominare Israel Katz ministro dei trasporti e delle questioni strategiche. Ma avviene che Katz inauguri  le proprie funzioni con una dichiarazione inerente al suo nuovo incarico che si ritiene possa addirittura essere una candidatura a premier nelle prossime elezioni.

Il premier Netanyahu non lo ha criticato, malgrado la crisi  fra Polonia e Israele e il conseguente annullamento del summit  dei Paesi del gruppo di Visegrad  a Gerusalemme.

Intanto, il ministro degli esteri dell’Oman ha spiegato che non ci potrà essere normalizzazione senza un accordo con i palestinesi…situazione che sembra senza via d’uscita…

Olanda, Palestinesì e Israele.

L’11 Febbraio scorso, le autorità olandesi per bocca del sottosegretario agli Affari interni, Raymond Knops dichiara che dall’11 in poi  considereranno formalmente i territori palestinesi in questione come”entità autonome”. L’esecutivo dell’Aja giustifica la recente decisione evidenziando il fatto che lo Stato ebraico non ha “alcun titolo giuridico” per accampare pretese di sovranità  sulla Striscia, sulla Cisgiordania e su Gerusalemme Est.

Secondo la tesi enunciata dai Paesi Bassi, la giurisdizione israeliana sui territori in questione si fonderebbe su una “illegittima occupazione militare” e quindi la comunità internazionale  sarebbe tenuta, alla luce delle “norme imperative del diritto delle genti “ a non riconoscere le tre unità amministrative come “parti dello Stato ebraico”.

Le stesse autorità dell’Aja hanno però poi puntualizzato  che tale svolta “non costituirebbe affatto” un “atto ostile” nei confronti del governo di Netanyahu, ma sarebbe esclusivamente una “ritorsione proporzionata “ alle violazione del diritto internazionale”, perpetrate negli ultimi anni da Israele.

Nonostante le giustificazioni fornite dall’Olanda, lo Stato ebraico ha definito “assurda  e patetica “ la decisione di quest’ultima. E Tzipi Hotovely, vice ministro degli Esteri, accusa le autorità dei Paesi Bassi di avere “dato credito” alle “mistificazioni  propagandate dai Palestinesi” e ha quindi ribadito il diritto di Israele a esercitare la propria “sovranità”  sulla Striscia di Gaza, sulla Gisgiordania e su Gerusalemme Est.

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