Egitto: otto anni dal 25 gennaio 2011. Il lascito di una “mezza” rivoluzione.

Egitto: otto anni dal 25 gennaio 2011. Il lascito di una “mezza” rivoluzione.

Il Presidente dell'Egitto, Fatah el Sisi

Il Presidente dell’Egitto, Fatah el Sisi

Otto anni dopo la rivoluzione contro Mubarak, l’Egitto è ancora e sempre un punto centrale del Mediterraneo, un Paese importante che deve essere molto stabile a lungo per garantire la stabilità dei Paesi rivieraschi a nord e a sud del Mare. Una lucida analisi della situazione attuale.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Dalla rivoluzione del 2011 a oggi sono trascorsi otto anni. In otto anni si è passati dalla caduta del regime militare di Hosni Mubarak  al rapido fallimento dei Fratelli Musulmani e di Mohammed Morsi, a una controrivoluzione che ha riconsegnato il Paese nelle saldi mani di Abdel Fatah el Sisi.

Più il tempo passa, più gli anniversari diventano l’occasione per una ricostruzione asettica con maggiori dati ed informazioni sugli accadimenti che hanno portato gli egiziani a scendere in piazza il 25 gennaio 2011 al grido di schab yurid iskat alnidham– il popolo vuole la caduta del regime.

L’11 febbraio 2011, dopo diciotto giorni di violente manifestazioni scoppiate in tutti i governatorati del Paese che causarono la morte di più di mille persone, Mubarak fu costretto a dimettersi.

Gran parte della popolazione era esausta per la crescente povertà e per  un divario sempre più marcato tra le classi sociali a causa di una distorta applicazione di politiche neoliberiste che hanno impoverito la maggior parte della popolazione a vantaggio di pochi uomini d’affari, peraltro collusi con le istituzioni.

Le redini del comando furono prese dal Consiglio Supremo delle Forze Armate che lo mantennero con fatica (centinaia di morti negli scontri di Mohamed Mahmud e nell’assalto all’ambasciata israeliana), sino alle elezioni presidenziali indette nel mese di giugno del 2012.

Il risultato delle elezioni, per la prima volta non scritto ante voto, vide il prevalere dei Fratelli Musulmani e la vittoria di Morsi, speranza per un nuovo Egitto post Mubarak.

I Fratelli Musulmani, molto abili a colmare il gap politico creatosi all’indomani della caduta del Rais, approfittando anche dell’inconsistenza di un’opposizione frastagliata, andarono al potere e dopo un solo anno diventarono d’emblée il fardello di una Nazione in stallo, incapaci di trasformarsi da movimento contestatore a classe dirigente.

Nel luglio del 2013 fu indetto un referendum che, di fatto, legittimava l’atto di forza dell’Esercito che destituì Morsi.

La mano pesante dell’allora Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate egiziane, Generale el Sisi, azzerò la leadership della Fratellanza costringendola a ritornare alle origini, alla semi clandestinità e a un islamismo militante e non di governo.

Con una maggioranza bulgara el Sisi fu eletto nuovo Presidente da una popolazione che, pur consapevole di dover pagare un “prezzo” molto alto nell’affidare nuovamente l’Egitto ai militari, lo considerava (e lo considera tuttora) il male minore.

Ed è questo uno dei motivi perché la rivoluzione egiziana, a differenza di quella tunisina, è fallita: la maggioranza della popolazione, quella silenziosa, non ha partecipato né alla rivoluzione né tanto meno alla controrivoluzione perché terrorizzata e non disposta a pagarne il prezzo.

La paura per la violenta repressione alle proteste ha avuto l’effetto d’ingrossarne le sue fila, a scapito degli oppositori che si sono trasformati, agli occhi dei militari, in indistinti rivoluzionari armati, compresi (purtroppo) i giovani attivisti che otto anni fa avevano ottenuto la ribalta internazionale ed il sostegno immediato dell’opinione pubblica mondiale.

Molti di quegli attivisti oggi sono espatriati, altri sono in carcere, altri ancora presenti solo sui loro profili social (sorvegliati e controllati). Parlano di tutto, meno che di politica.

A tutto ciò si deve aggiungere lo scarso supporto, nei momenti cruciali, di una pavida Comunità internazionale, a partire dagli statunitensi.

E’ storia che l’allora Presidente americano Obama, allo scoppio della rivoluzione, assunse un atteggiamento d’ambiguo vigile distacco, non sostenendo apertamente il Rais Mubarak, ma nemmeno forzandolo a dimettersi, pur guardando con favore  i manifestanti di piazza Tahrir. Pertanto, Mubarak non è stato estromesso per l’incalzante pressione americana, bensì per volontà dei suoi stessi generali.

Il medesimo atteggiamento d’ambiguo vigile distacco è stato mantenuto con l’avvento al potere dei Fratelli Musulmani, considerati poco affidabili e soprattutto invisi a molti alleati dell’America nella regione mediorientale, su tutti l’Arabia Saudita e Israele.

Con l’avvento di el Sisi la strategia americana è rimasta inalterata, seppur con un occhio benevolo e accondiscendente (se non il pieno appoggio di qualche apparato di sicurezza) sull’estromissione dei Fratelli Musulmani.

C’è il rimpianto dell’America, espresso nelle parole dell’ex Segretario Generale John Kerry, di non avere supportato adeguatamente l’Egitto nella fase della transizione verso una democrazia che, “…come del resto quella americana, non è certo nata dal giorno alla notte …”.

Anche con el Sisi il Paese continua ad arrancare in un complesso quadro economico, senza segnali di un tangibile miglioramento e con l’urgente necessità di potenziare alcuni settori chiave tra cui quello dell’istruzione e della sanità.

Un Paese appesantito dal costo dei sussidi, delle politiche assistenziali e di un mastodontico quanto improduttivo apparato statale, depresso per l’aumento della disoccupazione giovanile e della povertà.

Riformare l’economia egiziana è difficile per la forte dipendenza dall’estero del Paese che deve importare quasi tutte le materie prime (compreso il grano) ed è legata agli aiuti finanziari delle Istituzioni internazionali, in primis il Fondo Monetario Internazionale, e di singoli paesi tra cui gli Stati Uniti d’America.

A livello di sicurezza, la situazione generale è decisamente migliorata, a parte il problema del controllo del Sinai. Il numero degli attentati s’è via via attenuato, a tutto vantaggio delle ripresa del turismo che, dopo anni decisamente negativi, si sta lentamente riprendendo.

L’Egitto è un Paese in difficoltà che non riesce a scrollarsi di dosso il pesante fardello di un recente passato che ha ancora dei lati oscuri e non ha chiuso tutti i conti (in particolare con i destini di Mubarak e di Morsi). Entrambi chiari nella loro evoluzione (il secondo più del primo), ma che non riappacificano gli animi contrapposti.

Morsi nel 2017 è stato condannato all’ergastolo (pena massima di 25 anni) dalla Corte di Cassazione egiziana per l’accusa di spionaggio a favore del Qatar, a cui si devono sommare i 20 anni già comminati in primo grado di giudizio per la morte di numerosi manifestanti nel corso di alcune proteste di piazza.

Si ricorda che Morsi era stato già condannato all’ergastolo (poi revocato) per aver complottato con Hamas e gli Hezbollah, così come aveva subito una condanna a morte, anch’essa annullata.

Tutti i leader e i militanti dichiarati dei Fratelli Musulmani seguono indissolubilmente la strada di Morsi, destinati all’ergastolo o alla pena capitale alla fine di estenuanti processi; un modello oramai consolidato.

In generale, possiamo rilevare una scarsa reazione da parte dell’egiziano “medio” sul trattamento riservato ai Fratelli Musulmani, mentre sulla liberazione di Mubarak il malcontento s’è fatto sentire.

Nell’aprile del 2011, all’indomani della rivoluzione, il Consiglio Supremo delle Forze Armate aprì un inchiesta contro Mubarak per le centinaia di vittime, certificando l’uso eccessivo della forza da parte della polizia che, peraltro, obbediva a degli ordini impartiti direttamente dal Ministro degli interni Habib al-Adly, quindi dal Presidente.

La famiglia del Rais fu messa in custodia e sottoposta ad indagine. Una seconda commissione d’inchiesta fu istituita da Morsi nel 2003, che ribadì le stesse accuse della prima.

Nel frattempo, Mubarak e i suoi due figli Gamal e Alaa furono incarcerati. Quattro anni dopo l’ex Ministro degli interni è stato assolto da ogni accusa così come, poco tempo dopo, sia Mubarak sia i suoi figli sono stati rimessi in libertà.

Dopo otto anni esatti la rivoluzione lascia in eredità un Egitto non riappacificato e controllato dai militari, in difficoltà economica e con una popolazione divisa. Da una parte i favorevoli a Mubarak, gli attivisti, quelli che sostengono i militari e el Sisi e i simpatizzati del Fratelli Musulmani. Sullo sfondo una maggioranza della popolazione indifferente e refrattaria a ogni forma di cambiamento.

Questo però, a ben vedere, non è l’eredità di una rivoluzione, bensì di una mezza rivoluzione, di un processo che non ha saputo/voluto/potuto portare avanti sino alla fine l’idea di un cambiamento radicale della società e che si è perso nei rivoli dei giochi di potere.

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