IL CAOS AFGHANO

IL CAOS AFGHANO

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Mentre in Libia il caos impazza….l’Afghanistan non è da meno!

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Lo stato islamico colpisce sempre a Kabul, come è successo alla fine di aprile scorso.Un attacco in un centro di registrazione per le elezioni parlamentari, in quartiere Sciita: 60 morti. Il giorno successivo, un duplice attentato nel quartiere centrale di Shash Darak con 26 morti e almeno 45 feriti: tra loro colpiti nove giornalisti con la seconda esplosione.

Secondo la rivendicazione su Amaq, l’agenzia mediatica del gruppo Abu Bakr al- Baghdadi,  i due attentatori sarebbero Qa’qa’ al Kurdi e Khalil al- Qurashi.

In sintesi, il primo attentatore si è fatto esplodere nei pressi di un chekpointnon lontano dal quartier generale del National Directorate of Security, i servizi segreti afghani e dell’ambasciata statunitense; il secondo, secondo quanto riferito da Najib Danish, portavoce del ministero degli interni, si sarebbe finto giornalista, mostrando la tessera di categoria e aspettando che la folla si infittisse. Dopo venti minuti si è fatto esplodere, colpendo in particolare i giornalisti. Sette quelli morti sul colpo, due qualche ora dopo. Sono tutti afghani.Le altre vittime sono civili, passanti, tranne cinque poliziotti e, secondo Amaq, un funzionario dell’intelligence.

Dalla caduta del regime talebano, nel 2001, ogni giorno è sempre più tragico per loro. Mentre si piangevano i morti a Kabul, da Khost, cittadina nell’omonima provincia al confine con il Pakistan, arrivava la notizia dell’omicidio di Ahmad Shah Angar, giovane giornalista della Bbc, freddato mentre tornava a casa in bicicletta.

Per Reporters Without Borders, l’Afghanistan rimane il terzo Paese più pericoloso al mondo per gli operatori dell’informazione. Ventuno i giornalisti uccisi nel 2017 e la “provincia del Khorasan,”  la branca locale dello Stato Islamico, istituita formalmente nel gennaio 2015, si è guadagnata visibilità a colpi di attentati, rivolti soprattutto contro gli hazara, la minoranza sciita.

Come non ricordare anche la strage di bambini? 30 di loro uccisi e 51 feriti: sono le conclusioni di una indagine ONU sul raid che l’aviazione afghana, supportata da quella USA, ha condotto lo scorso 2 aprile nella provincia nord orientale di Kunduz, in Afghanistan, colpendo una scuola coranica e una festa nuziale nelle vicinanze.

Obiettivo presunto, una riunione di leader talebani che secondo le autorità avrebbero poi aperto il fuoco sui civili. Tesi smentita  non solo dai talebani ma anche dalle autorità mediche locali, in base al tipo di ferite rilevate sui corpi delle vittime. Il rapporto aggiunge al conto anche sei adulti falciati dai colpi esplosi dagli elicotteri. Anche il governo afghano ha aperto un’inchiesta, mentre l’ex presidente Hamid Karzai condanna “simili raid, che in nome della guerra al terrorismo vanno contro ogni principio”.

I danni non sono finiti.

Con la violazione dell’accordo sul nucleare iraniano, il presidente Donald Trump mette una pietra tombale sul processo di pace in Afghanistan. La guerra afghana è derubricata come secondaria, ma rimane la più lunga combattuta dagli Stati Uniti, che qui mantengono soldati, mezzi, basi militari. A due passi dal confine iraniano. Insieme alla Siria, è qui che più concretamente si vedranno gli effetti della decisione di Trump.

A Kabul è allarme rosso. Già il 10 maggio scorso l’Alto Consiglio di Pace, l’organo che ha il compito di favorire il negoziato con i talebani, ha espresso forti preoccupazioni, augurandosi che l’uscita degli USA dall’accordo nucleare non renda più lontana la risoluzione del conflitto. In realtà, sarà proprio così.

L’Afghanistan ha sei Paesi confinanti, ma i due più rilevanti sul piano politico ed economico sono l’Iran  e il Pakistan. Senza la loro collaborazione, la guerra non potrà concludersi. Attaccando l’Iran, la scelta di Trump prolunga dunque il conflitto e fornisce a Teheran un motivo ulteriore per contrapporsi alla presenza di Washington nel Paese centro-asiatico. Lo può fare attraverso strumenti diversi. Il più efficace rimane la Shuradi Mashad (dall’omonima città nel Nord-Est dell’Iran, a due passi dal confine afghano), una delle cupole dei Talebani. La Shuradi Mashad è controllata e finanziata dalle Guardie della Rivoluzione. Che usano l’influenza sui militanti per condizionare la partita afghana. Fino alla fine del 2014, quando è avvenuto il ritiro della maggior parte delle truppe straniere, l’obiettivo era lavorare ai fianchi gli americani, colpirli il più duramente possibile, ricordargli che l’Asia centrale non è casa loro. Più recentemente, i Pasdaran hanno visto nei Talebani un argine contro l’espansione della “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato Islamico, che persegue una politica settaria fortemente anti-sciita.

Come Mosca, Teheran ha deciso di attribuire una patente di legittimità politica ai Talebani in cambio del sostegno contro la provincia del Khorasan, troppo vicina geograficamente alle ex repubbliche sovietiche e al Caucaso.

Bombe, attentati, scontri prolungati. In Afghanistan si combatte e si muore in quasi tutte le province. Quel che è accaduto recentemente a Farah, capoluogo dell’omonima provincia al confine con l’Iran, ha però un significato particolare.

I Talebani hanno assaltato la città alle prime luci dell’alba, Gli scontri con le forze di sicurezza  sono andati avanti per 22 ore. Per tutta la giornata sui social network si sono alternati dati, immagini e video di propaganda.

Da una parte, i Talebani, che mostravano di avere il controllo di piazze e strade; dall’altra, il governo di Kabul, che rispondeva mostrando eroici soldati in difesa della città di Farah.

Soltanto il giorno successivo il governatore della provincia – che aveva lasciato la città – ha potuto dichiarare conclusa la battaglia, costata la morte a trecento Talebani e venticinque militari. Almeno così pare perché i numeri per ora, non si possono verificare.

Certo è che l’esito sarebbe stato diverso senza l’intervento delle forze aeree afghane aiutate da quelle americane. Per alcune emittenti locali, sarebbero intervenuti anche gli elicotteri degli italiani, che qui a Farah hanno operato e combattuto a lungo. E ogni tanto tornano a farlo.

Intanto a Kabul i talebani, come nelle province periferiche, invocarono una tregua, almeno per il Ramadan. Diventano umanitari? Gli scontri però continuano in tutto il Paese. I Talebani minacciano attacchi ancora più duri, ma tengono conto della richiesta di pace. Almeno sulla carta. La loro amnistia, infatti, è sempre condizionata.

La dichiarazione con cui l’hanno resa pubblica iniziò con un bilancio dell’offensiva Al Khandaq, la campagna di primavera lanciata alcune settimane fa “contro gli invasori americani e i loro sostenitori interni”. Come prevedibile rivendicano sempre successi: ampie regioni sono state ripulite dal regime servile e il nemico  è stato costretto a una debole postura difensiva” con la perdita “di decine di soldati sulle linee del fronte, ogni giorno.  Ed è proprio a quelle decine e decine di soldati che si rivolgono i Talebani: Sono nostri connazionali che si sono uniti agli americani a causa di cattivi consigli e di altre ragioni…

Hanno mogli, figli, famiglie intere, lasciano intendere. Proprio a causa della sofferenza per le famiglie afghane, l’emirato islamico dichiara un’amnistia generale rivolta a tutte le formazioni militari, all’esercito nazionale, alla polizia, alle milizie Arbaki e a tutti i funzionari del regime, così da salvaguardarne le vite e la salute.

La decisione è apparsa clamorosa. Ma ci sono alcune precisazioni che ne rendono chiara la natura: un espediente politico e di propaganda, non una scelta “umanitaria”. Il primo punto è esplicito: disertate! Abbandonate i ranghi e vi garantiremo l’immunità, dicono i Talebani ai membri delle forze di sicurezza. Che possono salvarsi ma a condizione che disertino.

Il secondo è un argomento religioso. Gli americani sono nemici storici dell’Islam, del Corano e dell’Ummah islamica. Pentitevi, perché servendo negli stessi ranghi degli infedeli compite un reati gravissimo, rischiando di trovarvi nell’al di là insieme a Bush, Obama e Trump.

Infine, gli studenti coranici usano un argomento cruciale: la disillusione verso il governo, la distanza fra chi governa (avendo cura di “trasferire la famiglia all’estero”) e chi deve sbarcare il lunario, tutti i giorni. In poche parole: perché sacrificare la vita “per governanti così corrotti e immorali ? ”. I seguaci del mawlawi (titolo religioso onorifico) Haibatullah Akhundzada  non rinunciano dunque alla lotta armata, né avranno cura di risparmiare le vite dei soldati, ma puntano a combinare la componente militare  con quella politica: indebolire il governo, facendo crescere la percentuale (già alta) delle diserzioni.

Il momento è giusto: la fiducia della popolazione è ai minimi termini. Il governo di unità nazionale rimane inefficiente e corrotto. I barbuti provano a toglierli la terra da sotto i piedi. Si rivolgono a una platea ampia e decisiva, anche se i numeri sono incerti. Il 30 aprile scorso il Sigar – l’Ispettorato che fa le pulci per il Congresso USA sui soldi spesi in Afghanistan – comunicava che il totale delle forze di sicurezza afghane era di 296.409. Poi è arrivata la rettifica: 313.728. IL dipartimento della Difesa USA aveva fornito numeri sbagliati. In realtà nessuno conosce quali siano i numeri reali, gonfiati in passato. E nessuno sa in cosa consista di preciso l’addestramento e l’assistenza che le truppe straniere – compresa quella italiana – forniscono a quelle locali.

Quel che è certo è che sbaglia la portavoce del Pentagono, Dana White, quando sostiene  – come fatto il 17 maggio – che “i Talebani sono disperati”. Al contrario, minacciano città importanti come Farah e Ghazni e intere province come quella Nord-occidentale del Faryab e possono permettersi persino di fare propaganda umanitaria. L’obiettivo è accreditarsi come fazione moderata rispetto ai radicali della “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato Islamico.

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