L’IRAN…E L’IRA DI TRUMP…

L’IRAN…E L’IRA DI TRUMP…

Il generale Suleiman e Mike Pompeo

Il generale Suleiman e Mike Pompeo

L’ultimo approfondimento, per il momento, della attuale situazione in Iran con particolare riguardo alla parte economica. Interessante la posizione dei militari guidati dal potente generale Suleiman la cui foto è presente in molte moschee di provincia

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

  1. La minaccia di Trump

Donald Trump utilizza twitter per minacciare Hassan Rohani:  non minacciare mai più gli Stati Uniti o ne pagherai le conseguenze come pochi nella storia ne hanno sofferto prima.

Poche ore prima, il segretario di Stato Mike Pompeo  in California, durante un convegno con i dissidenti iraniani, accusa di corruzione la leadership di Teheran e afferma che gli USA non hanno paura di sanzionare al più alto livello il regime di Teheran che rappresenta un incubo  per il popolo iraniano e lancia un appello. Chiediamo a tutti i Paesi di unirsi alla nostra campagna di pressione, e questo riguarda i nostri alleati in Medio Oriente e in Europa

La campagna di pressione cui allude Pompeo riguarda la volontà degli USA di bloccare del tutto le esportazioni di petrolio iraniano. In risposta alle sanzioni, l’Iran ha minacciato la chiusura dello Stretto di Hormuz, dove non solo transita l’olio nero di Teheran ma anche quello di tutto il Golfo Persico, per cui bloccare quello stretto significa bloccare il traffico mondiale di petrolio.

Il contenuto del twitter di Trump è stato confermato dal consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che ribadisce l’avvertimento di Trump.

La precisazione di Bolton è un’indiretta risposta a tutte le illazioni secondo cui il presidente, senza più la tensione coreana, starebbe scatenando un conflitto con l’Iran al fine di distrarre l’attenzione dai suoi problemi politici interni, incluso il polverone e la reazione negativa al suo rapporto con il presidente russo Vladimir Putin e la dubbia performance tenuta a Helsinki, dove ha sconfessato l’intelligence USA, per abbracciare le teorie di Mosca sul Russiagate.

Ancora più diretta la portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders  ha respinto le illazioni su una possibile manovra diversiva di Trump: il presidente sta rispondendo all’Iran e non lascerà che continui a fare minacce contro l’America…

La retorica dei twitter di Trump non ha comunque spinto il Pentagono ad attivare alcun mezzo militare degli Stati Uniti, né ha generato l’urgenza di spostare le posizioni militari degli USA vicino all’Iran. Mentre Washington un tempo manteneva un gruppo di attacco nel Medio Oriente, al momento non ha nessuno: la portaerei Uss Truman ha lasciato la regione la scorsa settimana e, dicono in funzionari della difesa, la Marina non ha più piano immediati per sostituirla.

Al Twitter di Trump, che mette in guardia Teheran, risponde con Twitter il comandante delle Forze Speciali Qods delle Guardie Rivoluzionarie (Pasdaran) iraniane, il generale Qassam Suleiman che, rivolto al presidente americano dichiara l’Iran è in confronto militare con gli Stati Uniti. Siamo più vicini a voi di quanto non possiate immaginare. Siamo pronti. Non dimenticare che siamo la Forza Qods. Come soldato è mio dovere rispondere. Come osi minacciarci? Se voi cominciate una guerra, noi la terminiamo…

  1. L’Iran chiuderà lo Stretto di Homuz?

Non è la prima volta che le autorità iraniane minacciano di chiudere lo Stretto di Hormuz. E non è detto che siano in grado di farlo, perché nel Golfo persico c’è una massiccia presenza militare americana e da lì transitano anche petrolio e merci della Repubblica islamica: docente dell’Università di Exeter e autore del saggio Iran rivoluzionario(Libreria Editrice Goriziana) Michael Axworthy commenta così le minacce della Guida Suprema, Alì Khamenei, di chiudere lo Stretto di Hormuz, nel caso in cui Washington dovesse imporre l’embargo sull’oro nero iraniano.

Dallo stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico al Mare Arabico, transita il 90% del petrolio estratto nella regione; chiuderlo vuol dire bloccare il 20% degli approvvigionamenti del pianeta con ovvie conseguenze sul prezzo globale dell’energia. L’embargo dovrebbe scattare il 2 novembre prossimo, una data simbolica perché è l’anniversario della presa degli ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran pochi mesi dopo la rivoluzione del 1979.

Gli Ayatollah, però, non sono isolati come lo era il dittatore iracheno: gli europei cercano di bypassare le sanzioni a stelle e strisce e la Cina continuerà a fare acquisti di energia da Teheran.

Trump e i suoi alleati puntano sul cambio di regime ma, se nel 2009 gli iraniani scendevano in strada reclamando maggiori diritti, oggi protestano per la corruzione e l’incompetenza di chi ha in mano le chiavi del potere, il mancato pagamento dei salari, la svalutazione del rial, le sanzioni internazionali, la siccità in diverse regioni, la mancanza di acqua, i tagli alla corrente elettrica che blocca internet e l’aria condizionata. Ad allarmare gli iraniani è soprattutto la svalutazione della valuta locale: se nel 1979 servivano 70 rial per comprare un dollaro americano, queste settimane, nelle vie del centro di Teheran i cambiavalute  chiedevano fino a 75 mila rial a fronte di un dollaro.

L’aggravarsi della situazione ha colto di sorpresa gli iraniani, che nel 2013 avevano votato per il presidente moderato Rohani ed esultato per la firma dell’accordo nucleare a Vienna nel 2015 che avrebbe dovuto portare alla fine delle sanzioni e allo sdoganamento di Teheran. Il regime iraniano non è però sull’orlo del collasso. Al contrario, la sua leadership è in sella da 40 anni e i meccanismi del potere sono ben oliati. Ora, gli scenari preoccupanti sul fronte interno sono due: il prevalere dei militari, in particolare dei pasdaranovvero delle Guardie rivoluzionarie che si sono fatti strada con la guerra Iran – Iraq (1980-1988) e poco alla volta si sono insediate  nei gangli della politica; oppure, a fronte della sfiducia della popolazione nei confronti del presidente Rohani e del parlamento (e quindi degli organi eletti dai cittadini), un affermarsi degli organi non elettivi dominati dai falchi, per i quali la priorità non è il benessere  della Repubblica islamica e dei suoi cittadini, quanto piuttosto tenere alti i valori e l’ideologia della Rivoluzione del 1979. E quindi, in primis, gli slogan contro gli Stati Uniti.

  1. L’attacco mirato all’”Ayatollah economy”

Iniziamo dalla Setad, una della Bonyad, le fondazioni esentasse che amministrano gran parte dell’economia iraniana dopo la rivoluzione del 1979.

La Setad di Khamenei, ovvero Setad Ejraiye Farmane Hazrate Imam (Sede per l’esecuzione degli ordini dell’imam) fu costruita nel 1989 dall’imam Khomeini, con il compito di gestire le proprietà sequestrate negli anni caotici post rivoluzionari per poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni (1980-1988, un milione fra morti e invalidi) contro l’Iraq.

All’epoca dello Shah 100 famiglie introdotte alla corte dei Palhavi controllavano l’80% dell’economia che oggi è passata nelle mani dell’élite al potere. La Setad nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare che ha acquisito partecipazioni in decine di aziende in quasi tutti i settori: finanze, petrolio, telecomunicazioni, dalle produzioni di pillole  anticoncezionali all’allevamento degli struzzi. Tra portafoglio immobiliare (52 miliardi di dollari), e quote societarie (43 miliardi) la Setad, in un certo periodo, con le quotazioni dell’oro nero al ribasso, aveva un valore superiore alle esportazioni petrolifere.

Le Bonyad, fondazioni i cui utili non sono sottoposti al prelievo fiscale, sono il cuore dell’economia: detengono circa il 50% del PIL e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicino alla cerchia del potere.

Anche i pasdaran, impegnati in battaglia in Siria e Iraq e che appoggiano gli Hezb’Allah libanesi, hanno la loro fetta importante di potere economico da preservare e sviluppare, così come gli Ayatollah.

La domanda di fondo è questa: è possibile riformare un’economia rivoluzionaria per di più islamica? L’impresa è ardua, specialmente adesso che con le sanzioni USA, l’Europa dovrà decidere se essere ancora protagonista in Iran o relegare, sotto pressioni americane, questo Paese e il suo petrolio, oltre che all’ala militare dei pasdaran, a Cina e India, i due maggiori clienti di Teheran (l’Italia è al terzo posto).

In Iran ci sono circa 80 tra moschee, templi e istituzioni religiose  che amministrano terre e imprese  come facevano i monasteri nel Medioevo europeo quando la Chiesa faceva concorrenza in tutti i campi  al potere temporale. A Mashad la Fondazione Reza, sorta interno al famoso santuario dell’Ottavo Imam, fattura il 7% del PIL iraniano e tiene in pugno l’economia del Khorassan; la Bonyad degli Oppressi (Mostazafan Foundation), da dove viene anche l’attuale capo della Setad, ha un volume di affari stimato oltre 12 miliardi di dollari l’anno. La Bonyad Shaid(Fondazione dei Martiri) controlla un centinaio di società e alla borsa di Teheran il 60% della capitalizzazione è costituito da compagnie che ruotano interno all’Ayatollah economy.

Correggere il sistema  è la sfida in cui ha fallito finora il presidente Rohani, un pragmatico nel mirino dei fondamentalisti. Colpire al cuore questo sistema, con un mix di azioni economiche e destabilizzanti è l’obiettivo di USA, Israele e Arabia Saudita: ognuno con le armi che ha in mano, dalle sanzioni alla finanza, dalla produzione dell’export di petrolio alle incursioni militari. Non è solo una questioneeconomica ma di sicurezza  per tutto il Medio Oriente e l’Europa: le conseguenze  non le pagherà solo Teheran, come minaccia Trump, ma anche l’Europa e tutto il Medio Oriente.

  1. Rischio di guerra aperta Gerusalemme -Teheran

La diplomazia israeliana e quella russa lavorano dietro le quinte per evitare che gli attriti fra Gerusalemme e Teheran sfocino in guerra aperta. Una settimana fa Putin ha inviato al premier Netanyahu una delegazione di alto livello per cercare di trovare un punto d’accordo. Con il ministro degli esteri Lavrov c’era il Capo di Stato Maggiore Valeri Geraimov ma il meeting con i vertici dello Stato ebraico (erano presenti anche il ministro della difesa Avigdor Lieberman e il Capo di Stato Maggiore Gady Eisenkot), non ha sortito alcun effetto. I russi volevano offrire garanzie su un’ampia demilitarizzazione a ridosso del Golan. Putin parlava di una fascia di sicurezza larga 100 km, completamente liberata da truppe iraniane e milizie sciite. Gli israeliani hanno ribadito che tutti gli sciiti combattenti in Siria devono andarsene.

Liebarman ha mostrato ai russi i report riservati elaborati dal Mossad e dallo ShinBet, i servizi segreti di Gerusalemme. Da questi documenti emerge che non solo gli sciiti continuano a affollare le aree a ridosso del Golan, ma un flusso continuo di armi e rifornimenti parte da Teheran e, anche attraverso l’Iraq arriva nelle Siria occidentale. Lo spionaggio di Netanyahu ha mostrato alla controparte russa immagini che testimoniano come gli Ayatollah continuino a inviare truppe nel teatro di guerra siriano. Colonne di mezzi militari iraniani sono state segnalate in viaggio attraverso Abu Kamal e, in merito, il ministro Lieberman ha elencato i nomi delle unità sciite dislocate in zona.

Si comincia dalla Brigata internazionale 313, e dai “Quneira Hawks”, commandos di Hezb’Allah e dai miliziani inseriti nella Quinta brigata siriana. Si prosegue con il reggimento corazzato “Al Ghith”, facente parte della Quarta divisione governativa di Damasco, posizionato a ridosso del Golan settentrionale, vicino alla città Majdal Shams. Il problema di fondo per Gerusalemme è una situazione strategico-militare non proprio ideale, dato che lo Stato ebraico si sente attaccato da Nord e Sud, in direzione di Gaza atteso che Hamas dalla Striscia ha preso a sparare razzi contro un bersaglio privilegiato, il centro di Haf Ashkelon. Mentre a Nord sono piovuti due “Grad” nel mare della Galilea, in arrivo da un’area a 8 km dal confine.

L’incidente fa il paio con quello verificatosi alcuni giorni fa, quando il sistema antimissile David Slim non è riuscito a intercettare due missili SS-21 siriani diretti verso il Golan. L’antiaerea israeliana ha comunicato di aver abbattuto un Sukhoi-24 siriano che aveva sconfinato. A entrare in azione sono state le batterie di missili “Patriot” forniti dagli americani. Per la verità, per quanto riguarda i due “Grads”, pare che siano stati lanciati  dalle milizie di Khalid Ibn Wakid, una branca dell’ISIS che sta rialzando la testa con azioni a macchia di leopardo. E’, infatti, recente il sanguinario attentato rivendicato dalle residue forze del califfato, che hanno fatto oltre 250 morti a Sweida.

Il contrattacco israeliano contro Khalid Ibn Walid ha suscitato molte polemiche in Israele, atteso che diversi analisti hanno sottolineato che colpendo le ultime milizie operative dell’ISIS è stato fatto un grande favore ai reparti sciiti che operano in quell’area, a cominciare dalle Guardie rivoluzionarie iraniane.

©www.osservatorioanalitico.com– Riproduzione riservata

Lo Stretto di Hormuz

Lo Stretto di Hormuz

Comments are closed.