A GAZA L’ANNUALE MARCIA DEL RITORNO. QUALE PACE?

A GAZA L’ANNUALE MARCIA DEL RITORNO. QUALE PACE?

Yaser Murtaja, il giornalista ucciso.

Yaser Murtaja, il giornalista ucciso mentre copriva gli scontri…con giubbotto ‘Press’.

Una finestra sulla difficile realtà degli israeliani e dei palestinesi. Popolazioni vittime della politica internazionale, di attacchi, di ingiustizie. Come arrivare a una pace e alleviare le sofferenze degli umani che vivono lì?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini                                                     

Nei Territori Occupati e in particolare nella Striscia di Gaza – 360 km quadrati con 1 milione e 900 mila di abitanti, senza contare il milione e 200 mila rifugiati espulsi dalle loro abitazioni durante la formazione di Israele 70 anni addietro – “Israele mostra il peggio di sé” scrive sul quotidiano Ha’aretz la giornalista israeliana Amira Hass.

1.La situazione dagli anni’90

Nel 1991 Israele imprigiona di fatto, da cielo, mare e terra, l’intera Striscia di Gaza e  quindi i suoi abitanti. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decide un blocco totale, includente anche limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (ente israeliano che governa nei Territori occupati) calcolarono anche le quantità di calorie consentite.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base a principi etici ebraici divennero più chiari: un combattente del Jihad islamico che stesse dormendo è un obiettivo, le famiglie dei combattenti di Hamas meritano di essere uccise e lo stesso vale per i loro vicini, e così anche per  chiunque faccia bollire l’acqua su un fuoco all’aperto e per chiunque suoni nell’orchestra della Polizia.

A questo si aggiungono le “esecuzioni extragiudiziali” con missili contro persone sospette nonostante la presenza di civili nel luogo, e bombardare interi palazzi per la sospetta presenza di un ricercato.

Nel corso delle guerre eseguite a Gaza (2008, 2012, 2014) sono state uccise decine di migliaia di persone, centinaia di migliaia sono rimasti feriti, distrutti abitazioni, ospedali, scuole, palazzi, moschee, fabbriche, edifici dell’Unwra. Vengono danneggiati i tubi di elettricità, gas, acqua, viene impedito l’ingresso di medicine.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Non sorprende quindi che possono giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

2.Cosa accade ai palestinesi durante la “Grande Marcia del Ritorno”.

Il giornalista Yassar Murtaja, 30enne, con un bambino di 2 anni, vive a Gaza e non ha mai viaggiato pur se avrebbe voluto visitare altri Paesi come scrive su Facebook, postando una fotografia fatta dall’alto del porto di Gaza.

Da poco aveva ottenuto una borsa di studio per completare la sua formazione professionale a Doha, nella sede centrale di “al Jazeera”, il salto di qualità che aspettava dopo anni di lavoro per una piccola casa di produzioni tv, “al Ein”. Una collega, Hana Awad, lo ricorda come un ragazzo attivo, non affiliato ad alcuna forza politica: “Voleva solo viaggiare e imparare”.

Quel sogno Yasse Murtaja non potrà realizzarlo. E’spirato nella notte del venerdì 6 aprile. A ucciderlo è stato il proiettile sparato da cecchino israeliano durante la Marcia del Ritorno. Assurdo parlare di una pallottola vagante. Murtaja quando è stato colpito, era a circa 100 metri dalle barriere sulle linee di demarcazione tra Gaza e Israele, all’altezza di Khan Yunis. Indossava il casco e un giubbotto anti-proiettile con la scritta “Press”.

Chi ha sparato sapeva dove mirare: appena sotto l’ascella, mentre teneva sollevata con un braccio la macchina fotografica.

L’esercito israeliano commenta l’accaduto sostenendo, come aveva fatto il 30 marzo, di avere sparato solo “contro gli istigatori coinvolti in attacchi ai soldati” e di non prendere di mira deliberatamente i giornalisti.

Un corteo di centinaia di persone accompagna il giorno dopo nelle strade di Gaza city Murtaja nel suo ultimo viaggio.

A Ramallah, in Cisgiordania, una cinquantina di giornalisti si raccolgono per rendergli onore e il sindacato della stampa ricorda che il venerdì appena trascorso altri cinque reporter sono stati feriti.

In quello stesso momento a Rafah un’altra folla commossa partecipa ai riti funebri per Alaa al Zamili, 16 anni, ucciso il venerdì assieme a Murtaja e altri 8 palestinesi. Sono almeno 35, secondo il ministero della sanità a Gaza, i palestinesi uccisi e 2.850 feriti – di cui 79 ancora in condizioni critiche, dal 30 marzo quando è iniziata la Marcia di Ritorno, nel corso della quale nessun manifestante ha toccato un militare israeliano.

Sorprende – ma si tratta in realtà di quanto accade sempre in questi casi – come i media occidentali diano evidenza maggiore alla narrazioni israeliana, che descrive i manifestanti come “marionette pronte a morire su ordine dei “registi” della Marcia, gli islamisti di Hamas, in cambio di 3.500 dollari per le loro famiglie. Dal loro canto, i militari israeliani riferiscono di “scontri violenti” e di Israele costretta a difendersi dagli “attacchi terroristici” palestinesi. In realtà, i soldati restano ben protetti dalla barriera di demarcazione fra Gaza e Israele.

Sorvolano sull’impiego di tiratori scelti israeliani, sulla decina di morti da una sola parte e su Gaza stretta da oltre dieci anni nel rigido embargo attuato da Israele che ha trasformato in detenuti (quasi) 2 milioni di palestinesi.

3.La narrativa israeliana

L’analisi israeliana si concentra solo sui vantaggi politici che la leadership di Hamas starebbe ottenendo dal ritorno di Gaza al centro dell’attenzione e dall’impossibilità, con tanti morti e feriti, per il presidente dell’ “ANP” (Autorità Nazionale Palestinese) di introdurre nuove sanzioni con il movimento islamico dopo lo stop alla riconciliazione palestinese.

E’ opportuno chiarire l’attività dell’82enne Abu Mazen, che, persino in questa fase, è colui che ha accusato Hamas (21 marzo scorso) di essere responsabile dell’attentato al premier dell’ANP Hamdallah il quale, con il capo dei Servizi Majdi Faraji e la loro scorta, in arrivo a Gaza per facilitare la riconciliazione tra il movimento islamico e Fatah, s’è salvato dall’esplosione di una potente bomba, con una strana dinamica che lascia a tutti – tranne che ad Abu Mazen – la convinzione possa essersi trattato di un messaggio politico e non di un possibile omicidio.

Del resto, manca una rivendicazione  e è vista la determinazione con cui Hamas ha già dal primo momento respinto le colpe attribuitegli da Mazen. Resta da chiedersi perché l’ANP possa seguitare, come fa Israele, ad attribuire ad Hamas ogni colpa, facendo così franare il processo di riconciliazione come fosse un dispetto da fare al suo rivale.

In merito, comunque, nell’arco di due giorni, due presunti attentatori – e non certo di Hamas – sono stati feriti gravemente e deceduti in ospedale, e altre due sono stati arrestati, mentre Hamas ufficialmente seguita a condannare l’attentato al primo ministro dell’ANP e i suoi esponenti dichiarano che chi ha agito lo ha fatto sia contro il processo di riconciliazione  sia contro lo stesso partito  che governa Gaza e che è favorevole alla riunificazione con Fatah, mentre, al contrario, Abu Mazen sembra abbia colto la palla al balzo per dichiarare il processo fallito, ignorando persino le stesse parole del primo ministro, che, a pochi minuti dall’attentato, affermava che il tentativo di riconciliazione sarebbe andato avanti.

“I vantaggi che Hamas starebbe ottenendo sono di poco conto in questa situazione –spiega l’analista Ghassan al Khatib – la cosa più importante è che la gente di Gaza vuole una soluzione ai suoi problemi, chiede la fine del blocco israeliano e l’apertura del valico di Rafah con l’Egitto”.

Questa è la realtà e questi sono i motivi- aggiunge al Khatib – che continuerà la Marcia del ritornoper i suoi diritti, a prescindere dagli interessi di tutte le forze politiche.

Dall’altro canto, mentre l’assedio prosegue indisturbato e ignorato dai media mainstream, il ministro dell’estrema destra israeliana, Bennet, dichiara che non ci sarà mai uno Stato di Palestina in Cisgiordania e che i palestinese se vorranno farsi uno Stato potranno andarsene a Gaza che potrà allargarsi fino al Sinai: Israele accampa la pretesa su basi divine e per ciò stesso indiscutibili, di espandersi  dal Giordano al Mediterranep. Il presidente Abu Mazen, invece che mettere in pratica l’antico e universale  insegnamento dell’unione che fa la forza, si lascia andare a sfoghi non equilibrati  contro l’ambasciatore USA “padrino” di Israele lasciando che lo stesso Israele stesso possa godere nella messa in pratica di un altro storico insegnamento che dagli antichi romani ad oggi ha sempre funzionato, quello del “dìvide et ìmpera”.

4.La nuova tecnologia israeliana

Ancora un israeliano, Ofri Ilany, sempre sul quotidiano “Ha’aretz, espone la trasformazione di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi.

Nell’estate 2017, i siti di notizie israeliane raccontavano di una nuova tecnologia sviluppata nei laboratori dell’”IDF”(Forze di Difesa Israeliane) per combattere la sindrome da stress post-traumatico. Inizialmente, per allenarli, i soldati al fronte erano spinti a identificare gli “elementi di minaccia”  per resistere allo stress.

Quest’attività venne pubblicizzata nel periodo in cui era stato reso noto che a 143 soldati, combattenti a Gaza nel 2014, era stato ufficialmente diagnosticato il “Disturbo da Stress Post-Traumatico” (DPST). Ma per i soldati rientrati, l’orrore non è scomparso: le urla di terrore, i corpi fatti a pezzi e la sensazione d’impotenza si ripresentavano in flashback quando meno se lo aspettavano.

Gli ebrei israeliani erano quasi tutti convinti che la guerra a Gaza fosse giusta e necessaria, e le truppe fortemente motivate che hanno assaltato i quartieri di Gaza erano sostenute da dimostrazioni di incoraggiamento, canzoni confortanti di cantanti famosi ed esortazioni di rabbini militari e personalità televisive. Tuttavia, fare incursioni militari in zone densamente abitate lasciavano qualche segno nelle loro anime.

Come affronta il problema Israele? Inventa una nuova tecnologia nota come “Formazione dell’attenzione” e in futuro sarebbe stato il supporto del MDMA (anche conosciuta come ecstasy).

Nei suoi anni da primo ministro, Benjamin Netanyahu ha cercato di innalzare il morale israeliano a livelli mai visti prima. Quella Israele in preda all’ansia, è diventata oggi una società sicura di sé, che gode della prosperità del proprio Stato.

5.La tecnologia israeliana

In realtà, Israele ha fatto in modo da superare molti dei problemi che la preoccupavano in passato con l’aiuto di soluzioni tecnologiche: gli ordigni che minacciavano le aree di confine sono oggi intercettati dall’Iron Dome; le ondate di rifugiati africani sono state bloccate da un muro; la crisi idrica conosce, oltre all’utilizzo dell’acqua dei palestinesi, gli impianti di desalinizzazione; la minaccia demografica viene contrastata dagli studi sulla sterilità; il “BDS” (Boicottaggio, Disinvestimenti, Sanzioni) utilizzato dai palestinesi con campagne informatiche all’estero per sottolineare che la maggior parte dei prodotti in vendita non sono frutto di Tel Aviv, ma prodotti nelle terre dei palestinesi.

Perfino la c.d. “Intifada dei coltelli” è stata neutralizzata consentendo ai soldati di attaccare anche il supposto attentatore, addirittura prima ancora che lo stesso sapesse di esserlo.

Resta irrisolto ogni problema politico. I palestinesi sono ancora presenti ed è chiaro che la maggioranza si trova nell’area compresa tra il mare e il fiume Giordano. Comunque Israele, con l’aiuto di muri, chekpoint, alleanze e altri sistemi sofisticati, gestisce la popolazione palestinese e quella ebraica in modo da limitare la pressioni sul regime.

Nonostante ciò, la tensione insita nel regime sionista relativamente a chi non gode dei diritti politici, sta spingendo l’autorità a impiegare misure sempre più disperate per scacciare i residuali palestinesi indicandoli come “minacce” che devono essere eliminati per passare al prossimo livello, cioè evitarne la presenza.

Ecco come si arriva alla situazione in cui centinaia cecchini sparano a manifestanti disarmati e li uccidono al ritmo di dieci al giorno, e nessuno si rifiuta di obbedire agli ordini, così allenandosi a raggiungere uno stato di consapevolezza che permette ai militari di superare l’istinto elementare della compassione che normalmente sorge spontaneo davanti alla sofferenza umana.

Le migliaia di persone dall’altra parte della barricata sono descritti come ribelli, provocatori, terroristi, nemici, infiltrati, islamici, antisemiti. Ma, come amano dire i commentatori televisivi, a scanso di equivoci, queste persone si chiamano anche “Esseri umani”. E il loro rifiuto di accettare una vita in cui sono intrappolati è esattamente ciò che li rende umani. Il loro principale crimine, quello per il quale sono colpiti dai lacrimogeni, da pallottole gomma e da colpi di arma da fuoco, è avere osato apparire nel campo visivo dei militari nascosti dietro la barriera di demarcazione.

Un anno fa, Israele ha cercato di oscurare quasi completamente il 50% anniversario dell’occupazione. Da allora, la sua arroganza è aumentata, e oggi programma le celebrazioni per il 70° anniversario della sua nascita. Autorizzati dalle dichiarazioni del presidente americano Donald Trump, Netanyahu e il suo governo aspirano a incenerire una volte per tutte il progetto palestinese.

Quindi, in un certo senso, le marce palestinesi sono motivo di speranza, perché costringono gli israeliani a ricordarsi che loro vivono in questa terra – da cui sono tornati dopo duemila anni di dominazione non solo romana – dove c’era un altro popolo che ha le sue aspirazioni e non ha mai fatto parte delle dominazioni subite dagli israeliani e, come loro, fanno parte dei tre “popoli del libro”: ebrei, cristiani e musulmani, ciascuno con il proprio DIO.

Con o senza l’appoggio di Trump, dovrebbero tenerne conto e cercare altri modi di curare la psiche dei cecchini che sparano ai civili lungo il confine.

6.La voce palestinese.

E’ Ahmad Abu Rtemahn, scrittore indipendente di Gaza, attivista di un social media e uno degli organizzatori della Grande Marcia del Ritorno. Una sintesi di quanto scrive è di straordinaria importanza.

Negli ultimi otto giorni, decine di migliaia di manifestanti a Gaza hanno ridato vita a un luogo che lentamente se ne stava impoverendo. “Noi ritorneremo. Nonostante la nostra marcia pacifica, ci siamo imbattuti in una pioggia di Gas lacrimogeni e di fuoco letale lanciati dai soldati israeliani.

Sin dall’inizio dell’assedio, undici anni fa, il semplice obiettivo di sopravvivere ogni giorno si è dimostrato essere una sfida. Adesso solamente svegliarsi e poter usare acqua pulita ed elettricità è un lusso. L’assedio è stato particolarmente crudo per i giovani, che soffrono a causa di un tasso di disoccupazione pari al 58%. Quello che è peggio che tutto ciò è il risultato della politica di Israele che può essere cambiata. Questa vita dura e difficile non può essere e non è la realtà di Gaza.

I pescatori non possono avventurarsi oltre le 6 miglia marine, il che trasforma in una sfida pescare abbastanza da mantenere i loro familiari. Dopo le guerre di Israele del 2008-09 e poi di nuovo del 2012 e 2014 e tutte le uccisioni che sono avvenute in quel periodo, alla gente qui non è nemmeno concessa l’opportunità di ricostruire, giacché Israele ha ridotto i permessi d’ingresso dei materiali di costruzione. Le condizioni degli ospedali sono allarmanti, e ai pazienti di rado viene data l’opportunità di andare a curarsi fuori da Gaza. Non vale neppure la pena di menzionare la perpetua condizione di oscurità in cui viviamo, praticamente senza luce o acqua pulita. Non è stato sufficiente averci buttati fuori dalle nostre case; è come se tutta la memoria dei rifugiati palestinesi debba essere confinata e cancellata”.

Abu Rtemahl è nato nei campi profughi di Rafah e Gaza e i suoi genitori sono della città di Ramle, in quella che ora è riconosciuta come Israele. Come la maggior parte dei rifugiati palestinesi, Rtemahl ha sentito le storie dai membri più anziani della sua famiglia riguardo alla brutalità con cui sono stati cacciati dalle loro case durante la Nakba(la catastrofe). E nonostante siano passati molti decenni, essi, come centinaia di migliaia di altre persone, non sono capaci di dimenticare gli orrori di cui sono stati testimoni durante il loro esproprio e tutte le violenze e sofferenze che si sono accompagnate a ciò.

Rtemahl non ha mai visto la casa a Ramle e i suoi figli non hanno mai visto niente oltre i confini di Gaza e dell’assedio: i figli, di 7 e 2 anni non conoscono “nessuna realtà all’infuori del rumore delle bombe, del buio della notte senza elettricità, dell’impossibilità di viaggiare liberamente. O il fatto che queste cose non sono normali. Niente nella vita di Gaza è normale. La Nakba non è solo una pratica di memoria, è una realtà tuttora in atto. E se possiamo rassegnarci che tutti alla fine dobbiamo morire, a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

E’ contro questa dura realtà che resistiamo. Gli ultimi due venerdì, abbiamo resistito contro tutte le potenze che ci dicevano di smettere e morire in silenzio e abbiamo deciso di marciare per la vita. Si tratta di una protesta di una popolazione che non vuole altro che vivere in dignità”.

7.La situazione dei palestinesi.

Nel 201, i palestinesi marciano verso i confini dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania, da Gaza e dalla Cisgiordania. Alcuni sono uccisi, altri che sono riusciti a oltrepassare il confine sono stati tratti in arresto dai soldati israeliani. Ma molto tempo prima, nel 1976, i palestinesi hanno protestato contro l’esproprio da parte di Israele  delle loro terre in quello che più tardi è stato conosciuto come il Grande Giorno della Terra. Allora, sei palestinesi furono uccisi e 42 anni dopo Israele sta facendo ricorso a una violenza omicida per impedire ai rifugiati di ritornare, ammazzando 35 palestinesi a Gaza.

Rtemahl era preoccupato per la loro incolumità quando erano arrivati in quella che Israele ritiene “zona da non percorrere”. Quando si è trovato con la famiglia nei pressi della piazza della Marcia di Ritorno nella zona orientale di Khan Younis, hanno respirato i gas lacrimogeni, compresi i suoi figli. Ha sofferto nel vedere l’infanzia innocente colpita da un’esperienza così traumatica. “Ma quello che molte persone non riescono a riconoscere è che loro stanno tornando a casa, anche se protestiamo all’aperto, non sono mai veramente sicuri a Gaza, né sono realmente vivi. E’ come se tutta la loro esistenza ei sogni di tornare a casa è nascosta nell’oscurità”.

Tuttavia, in questo 2018, dopo il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e la possibilità di realizzare quello che ha definito “l’accordo del secolo”, i palestinesi hanno sentito un’imminente minaccia al diritto di ritorno dei rifugiati, nonostante venga riconosciuto dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite. E’ una preoccupazione di tutti i palestinesi che i loro diritti in quanto rifugiati siano in serio pericolo e loro devono resistere in modo nuovo, unitario, rivoluzionario, un modo che è al di fuori della modalità dei negoziati e di quelle delle fazioni, per fare pressione su Israele e reclamare i loro diritti.

Nei 70 anni trascorsi, Israele ha continuamente  cacciato e umiliato i palestinesi. E’ stato visto nel 1948 e ora ne sono testimoni con l’espansione delle colonie. Mentre Israele butta fuori i palestinesi, porta nuovi immigrati da ogni parte del globo e li insedia su terre prese ai palestinesi in violazione del diritto internazionale. Tuttora Israele continua a essere incoraggiata dalla mancanza di pressioni da parte della comunità internazionale e dal sostegno dell’amministrazione Trump, cosicché le colonie continuano inesorabilmente a espandersi. Israele vorrebbe che il mondo credesse che i palestinesi abbiano lasciato volontariamente le loro case e abbiano scelto questa vita di umiliazioni, senza i diritti umani fondamentali, e che abbiano imposto tutto ciò a loro stessi.

Oggi i palestinesi di Gaza stanno provando a rompere le catene in cui Israele ha tentato così duramenti di imprigionarli. Sono dei manifestanti interni che affrontano, protestando pacificamente, soldati pesantemente armati. Come risultato è difficile per Israele calunniarli e giustificare la sua brutale violenza e il mondo ha davanti a sé la realtà che innocenti civili siano uccisi solo per avere esercitato il loro diritto a protestare pacificamente. Le scuse che Israele usa per giustificare le sue politiche nei confronti dei palestinesi stanno lentamente perdendo la loro efficacia, poiché a livello mondiale le persone realizzano sempre più che il vero volto di Israele è di un brutale regime di apartheid.

Nonostante la violenza voluta e mirata verso manifestanti inermi da parte di Israele, con la loro Grande Marcia del Ritorno i palestinesi a Gaza stanno affermando ad alta voce e chiaramente che loro sono ancora lì. Per Israele, è la loro identità, il loro crimine, mentre al contrario stanno celebrando quell’identità che Israele cerca di criminalizzare. Persone di tutti i ceti stanno partecipando alla Marcia. Artisti contribuiscono con la tradizionale danza “dabka”, intellettuali organizzano circoli di lettura, volontari si vestono da clown e giocano con i bambini. Quello che è più sorprendente sono i giovani che vivono e giocano, la loro risata, la più grande protesta fra tutte.

Le Nazioni Unite hanno ammonito che Gaza può essere invivibile entro soli due anni. Resistendo al destino che Israele ha programmato per loro, essi stanno lottando pacificamente con i loro corpi e il loro amore per la vita, appellandosi alla giustizia che rimane nel mondo.

8.Una finestra sulla realtà degli israeliani e dei palestinesi

Eppure c’è ancora chi non ha ben presente il fatto che entrambi questi due popoli sono di derivazione Semitica: incredibile ma vero… tanto i primi che i secondi hanno moltissimo in comune e non solo antichi legami di linguaggio e scrittura.

Nella fattispecie, il popolo israeliano ha subìto gravi torti e disgrazie  sin da tempi antichissimi. Prima ancora della feroce occupazione dei Romani, gli israeliani hanno dovuto patire malattie, deportazioni, schiavitù e altro che sono noti a tutti.

Israele però si è sempre sollevata da qualsiasi disgrazia, compresa l’ultima, quella dovuta al Nazismo, con milioni di vittime innocenti. Orbene, questo popolo orgogliosamente sopravvissuto a tante infamie, ha sempre guardato al proprio glorioso passato e, puntualmente c’è sempre riuscito. Ora però occorre che a nessuno sia data l’occasione di pensare o addirittura di affermare che, se non fosse stato per il Nazismo, Israele non avrebbe il territorio attuale…

Sappiamo bene da chi era governato il territorio di cui stiamo parlando, prima della 2° guerra mondiale e sappiamo benissimo che cosa è successo nell’immediato dopo-guerra. Basta dare una piccola occhiata alle mappe di questo territorio facendo data dal 1946 a oggi…….Orbene, anche il meno perspicace noterà un’”inversione di tendenza” tra insediamento israeliano e quello palestinese.

Credo che nessuno meglio degli israeliani, che hanno tanto sofferto, riconoscano come non siano da imputare ai palestinesi le loro trascorse disavventure. Essi non sono i Babilonesi, né gli egiziani, né i romani, né i nazisti, né sono responsabili del caos in cui vennero a trovarsi nel 1946.

Adesso, è giunta l’ora di cambiare il modo di pensare e soprattutto di agire. Per imboccare la via giusta non è mai troppo tardi, anche se entrambi hanno commesso terribili azioni.

Entrambi ricordano la strage della Grotta dei Patriarchi a Hebron. Nei sotterranei della Moschea di Abramo sorge la grotta di “Macpela” (dall’ebraico Me’arat Machpela) o Grotta dei Patriarchi in quanto è considerata il sepolcro di Abramo, Isacco, Giacobbe e Sara).

Il 25 febbraio del 1994 il colone ebreo fondamentalista Baruch Goldstein, membro del partito estremista Kach, entrò nella sala di preghiera riservata ai fedeli musulmani, indossando la sua divisa da soldato e aprì il fuoco con il fucile d’assalto Galil, sui fedeli inginocchiati in  preghiera uccidendo 30 persone e ferendone 125. I superstiti lo disarmarono e lo uccisero.

Goldstein non scelse un giorno a caso per il massacro. Il 25 febbraio era, infatti, il giorno in cui nel 1994 cadeva la festa del Purim, che commemora la liberazione del popolo ebraico nell’antico Impero Persiano, come riportato nel libro di Ester.

Durante il funerale del terrorista sionista, il rabbino Yaacov Perrin dichiarò:”Neanche un milione di arabi vale quanto una sola unghia ebrea”. Samuel Hacohen, un docente di un college a Gerusalemme, definì Goldstein come ” il più grande Ebreo vivente, l’unico che poteva fare quello che ha fatto, l’unico perfetto al 100%”. I principali leader religiosi però sono concordi nel ritenere che “uccidere palestinesi con un fucile automatico” non fosse autorizzato dalla Torà.

La tomba di Baruch, su cui è scritto l’epitaffio “Diede la sua vita per il popolo d’Israele, per la Torah e la terra”, è tuttora meta di pellegrinaggio di estremisti israeliani.

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