La presenza dello Stato Islamico nel Sinai: nuova forma di jihadismo in franchising?

La presenza dello Stato Islamico nel Sinai: nuova forma di jihadismo in franchising?

La penisola del Sinai e il canale di Suez

La penisola del Sinai e il canale di Suez

Un articolo che spiega con chiarezza il passaggio concettuale da jihadismo a fondamentalismo. Inoltre disegna la presenza jihadista nel Sinai e la posizione del presidente egiziano Al Sisi nell’attuale situazione politica del territorio

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

 Anche nel 2018 continuiamo a parlare di jihadismo e di fondamentalismo.

Il fondamentalismo è abile a sfruttare la religione come strumento di mobilitazione delle masse, e a utilizzare la sindrome dell’accerchiamento per combattere un supposto nemico a difesa del proprio credo.

Fondamentalismo e islamismo sono termini che possono però diventare ambigui se considerati dal punto di vista occidentale giacché sono sinonimi di una visione conservatrice del movimento, mentre gli islamisti ne danno un’interpretazione rivoluzionaria.

Da tali premesse, il passaggio dal fondamentalismo allo Jihadismo è stato relativamente veloce, così come la declinazione nelle varie forme di terrorismo.

Un’ideologia di lotta che non lascia possibilità di dialogo con le controparti e in cui l’aspetto religioso è totalizzante, enfatizzato ed estremizzato.

Comprendere il Jihadismo non è facile per la cultura occidentale. Esso deve essere inteso non come sinonimo di terrorismo, bensì come un metodo, già teorizzato e spiegato dall’ideologo Mustafa bin Abd al Qadir Setmariam Nassar, conosciuto con il nome di battaglia di Abu Moussab el Souri – il “Siriano”, l’architetto della Jihad globale.

Prima con Al Qaeda, e in seguito con Daesh, si è assistito alla nascita e allo sviluppo di un terrorismo globale con dei combattenti anch’essi globalizzati, non legati alle vicende del proprio singolo Paese, con l’unico obiettivo di combattere in nome di un islamismo militante.

Stiamo dunque assistendo alla trasformazione dello Stato Islamico in una sorta di franchising, pronto a colpire su più fronti e in più Stati, dall’Iraq, alla Siria, alla Libia e ora anche in Egitto?

Alla luce dell’attentato del 24 novembre 2017 contro una moschea nel Sinai (per ragioni storiche e culturali terreno fertile per il terrorismo, e ribattezzato da alcuni osservatori il nuovo Afghanistan), sembrerebbe proprio di sì, soprattutto per la ferocia, le dimensioni e l’organizzazione espressa, speculari a quelli manifestati in precedenza in Iraq e in Siria.

D’altronde, la caduta di Raqqa e la sconfitta dello Stato Islamico non potevano coincidere con la fine tout court del terrorismo jihadista.

In Egitto, oltre ai Fratelli Musulmani banditi con l’avvento al potere di el Sisi, il più importante gruppo jihadista attivo, a parte la comparsa di Daesh, è l’Ansar Beit al Maqdis, che agisce prevalentemente nel Sinai ma non disdegna le incursioni nel delta del Nilo e finanche a Il Cairo, alla ribalta delle cronache nei mesi scorsi per una serie di sanguinosi attentati.

Il gruppo terroristico aveva inizialmente indirizzato i suoi attacchi nei confronti di Israele, spostando poi il tiro contro le forze militari egiziane in concomitanza con la caduta di Morsi e l’avvento di el Sisi.

In conseguenza di questo cambio di strategia operativa, l’Ansar Beit al Maqdis è diventato un vero e proprio affiliato di Daesh, ben organizzato, equipaggiato e armato, rinominandosi in el Wilayat Sinai – provincia del Sinai.

Ad intermittenza si fanno però sentire anche altre piccole organizzazioni terroristiche, tra cui il Mujaheddin Shura Council, attiva dal 2012 e che raggruppa vari gruppi jihadisti presenti nella Striscia di Gaza.

Si segnalano anche: Ansar al Jihad nella penisola del Sinai, oggi rinominato Al Qaeda nella penisola del Sinai, Al Tawhid wa-l-Jihad, Jaysh al Islam e gli ultimi nati Anjad Misr (soldati dell’Egitto), Harakat Hasm (Movimento decisivo) e Liwa el Thawra (La Brigata della rivoluzione).

Tali organizzazioni sono una vera e propria spina nel fianco di el Sisi, poiché ogni volta che agiscono scalfiscono l’immagine non più monolitica del Presidente egiziano, pronto a ricandidarsi per un nuovo (sicuro) mandato.

Il Sinai ad oggi è una sorta di terra nullius, a fatica controllato dal Governo egiziano, punto di connessione tra l’Africa e l’Asia, delimitato a est dal deserto del Nagev e dal golfo di Aqaba, a ovest dal Canale di Suez, a nord dal Mar Mediterraneo e a sud dal Mar Rosso, abitato da numerose tribù di beduini (le più rilevanti sono la Sawarka, la Tarabin e la Masaid) legate alle antiche tradizioni.

Storicamente il confine tra il continente africano e quello asiatico è stato fissato sul Canale di Suez, pertanto la penisola del Sinai, pur essendo territorio egiziano, dal punto di vista geografico si trova in Asia.

Il Sinai, dopo i conflitti arabo-israeliani, è una zona demilitarizzata anche se, in realtà e con il consenso di Israele, l’Egitto ha schierato in questi ultimi anni dei reparti corazzati e d’artiglieria pesante.

L’attentato di novembre contro la moschea sufi di Bir el Abed, non lontana da El Arish, la città più grande ed importante del Sinai, ha lasciato sul terreno i corpi di 235 persone e centinaia di feriti.

Perché lo Stato Islamico ha attaccato proprio questa moschea?

Perché i sufisti, al pari dei cristiani, sono da sempre un bersaglio dello Stato Islamico, composto in prevalenza da salafiti che, nella loro personale evoluzione, hanno deciso di passare all’azione diventando dei combattenti.

Semplificando il concetto: salafiti sono oggi gli estremisti di Daesh e i seguaci del Califfo Abu Bakr, così come in passato salafita era Osama bin Laden e tutti i suoi affiliati di al Qaeda.

Il Salafismo mira al recupero della tradizione e dei valori antichi, al ritorno di un Islam puro e a un’interpretazione rigida del Corano, non tradizionalista come quella portata avanti dai sufisti, considerati i mistici sunniti e, in alcuni casi, dei veri e propri eretici.

Eretici e, in questo caso, anche collaborazionisti con il governo del tiranno el Sisi, da combattere con ogni mezzo. Presidente egiziano che ha subito l’onta di questo attentato anche come rappresaglia per la dura campagna militare del suo esercito nel tentativo di sradicare i terroristi.

Un’azione di forza che non ha portato i risultati sperati, anzi ha accresciuto il risentimento tra i beduini, in passato considerati e trattati dal governo centrale come cittadini di second’ordine, rimpolpando le fila dei terroristi.

E’ evidente che la strategia egiziana nel Sinai deve’essere rivista e corretta, poiché è risultata inadeguata e controproducente. Il tutto a danno della popolazione locale sempre più povera e impaurita, schiacciata tra l’esercito egiziano e Daesh.

Non c’è scelta: chi collabora con le forze di sicurezza è punito dai militanti del Daesh o delle altre organizzazioni terroristiche; chi rimane in silenzio e cerca di non immischiarsi rischia di essere accusato di collaborare con i Jihadisti, finendo spesso in carcere.

E’ tempo che il Presidente egiziano dia corso a dei seri programmi d’investimento e di sviluppo (la costruzione di una zona industriale e di un aeroporto nel sud del Sinai non sono sufficienti), così forse riuscirà a guadagnarsi la fiducia dei beduini ed eliminare il forte senso di esclusione frutto di sessant’anni di politiche sbagliate.

Controllare il Sinai per el Sisi significa controllare un’area strategica importante che guarda al Mediterraneo, al Mar Rosso e al Canale di Suez, significa anche controllare i confini con Israele e significa, soprattutto, controllare l’intero Egitto.

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