L’accordo fra Hamas e al Fatah. La loro storia e la situazione in Palestina agli inizi del 2018.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
Nel corso del meeting tenutosi a Il Cairo nel mese di settembre 2017, i due partiti politici palestinesi, Al Fatah e Hamas, si sono accordati per far rivivere un Governo di Unità Nazionale in Palestina.
Finalmente una buona notizia da questa martoriata terra, già però oscurata dalla crescente tensione tra israeliani e palestinesi a seguito della decisione del Presidente americano Donald Trump di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, segno di un riconoscimento pro Israele.
Un Governo di Unità Nazionale troverà nuova linfa vitale e dai recenti accadimenti legati alla Capitale al Quds per gli arabi, e Jourcelim per gli ebrei?
Allo stato dell’arte è (ancora) un tentativo, l’ennesimo, attuato per porre termine a una decennale divisione in Palestina tra Hamas che controlla Gaza a sud – ovest d’Israele, e Al Fatah che governa la Cisgiordania, più conosciuta come West Bank. Una divisione che non è solo politica ma, soprattutto, ideologica e che nel corso degli anni ha causato centinaia di vittime.
Hamas e Al Fatah, due costole dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – OLP, che amministrano i “territori” considerati dagli arabi “occupati” militarmente da Israele a seguito della Crisi di Suez, della guerra dei Sei Giorni e dello Yom Kippur.
L’OLP, fondata nel 1964 e diretta per trent’anni da Yasser Arafat, è riconosciuta in tutto il mondo arabo quale strumento di riscatto del popolo palestinese oppresso dal giogo sionista e, dal 2012, è stata elevata al rango di Stato non membro delle Nazioni Unite con lo status di Osservatore Permanente.
La firma dei due accordi di Oslo, (Oslo I nel 1993 con il ritiro d’Israele dai territori palestinesi e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese – ANP per amministrare Gaza e la Cisgiordania, Oslo II nel 1995 con la suddivisione della Cisgiordania in 3 settori), seppur importanti, non sono stati risolutivi per la questione palestinese versus Israele, tanto meno per la leadership in Palestina.
La maggior parte dei membri dell’OLP appartiene al movimento di Liberazione Nazionale Al Fatah – Harakat Tahrir al Watani al Filistini. Il movimento nel 1965 orientò sempre più la guerriglia e gli atti terroristici contro Israele e, nel 1967, dopo il conflitto, assunse il pieno controllo dell’OLP che, dal 2005, è diretto da Abu Mazen.
Hamas è invece un movimento d’ispirazione religiosa, con un suo braccio armato, le brigate al Qassam (circa 3 mila soldati o poco più), determinanti nella seconda Intifada del 2000 e che continuano ad intermittenza a lanciare razzi e combattere l’esercito israeliano. Il movimento oggi diretto da Ismail Haniyeh è stato fondato nel 1987 dallo sceicco Ahmed Yassin, morto nel 2004 dopo un raid aereo israeliano, in concomitanza con la prima Intifada palestinese.
Molto popolare tra i palestinesi, Hamas è considerato più integralista rispetto al moderato Al Fatah e nella striscia di Gaza ha imposto molti principi della sharia, tra cui il divieto di bere alcolici e restrizioni all’abbigliamento femminile.
Un recente sondaggio ha rilevato che più della metà della popolazione palestinese è favorevole a Hamas, percepito quale movimento forte, non incline al compromesso e determinato ad annullare Israele.
Il conflitto intestino tra Al Fatah e Hamas in quest’ultimo decennio ha avuto una forte impennata a partire dalle elezioni del 2006 per l’elezione del Consiglio Legislativo Palestinese, che ha registrato la netta vittoria di Hamas nella Striscia di Gaza.
Da allora si è rinsaldata la ripartizione in aree d’influenza ed è accresciuta la contrapposizione e gli scontri che, nel 2007, degenerarono in una vera propria guerra civile.
La Palestina è un Paese de facto diviso; vani si sono rivelati fin qui tutti gli sforzi di mediazione dell’Egitto per arrivare a un accordo stabile e risolutivo, almeno sino a quest’ultimo round.
I due contendenti hanno deciso, dopo la rinuncia di Hamas al controllo di Gaza, di far rivivere un Governo di Unità Nazionale sotto la guida di Rami Hamadallah, già Primo Ministro dell’ANP.
Un Governo di Unità Nazionale di per sé non è una novità, bensì è una riproposizione – si spera con maggior successo – dei tentativi falliti nel 2011 e nel 2014.
Quali sono i motivi che hanno spinto Hamas ad ammorbidire la propria intransigenza?
Certamente il suo crescente isolamento internazionale ha contributo a smussare la rigidità di un movimento che, rispetto al passato, non è più monolitico al suo interno.
Un altro motivo è da ricondurre alla crescente difficoltà di Hamas, soprattutto a causa dell’embargo imposto da Israele e, seppur in minor misura, dall’Egitto, di rifornire e supportare i circa 2 milioni di abitanti nella striscia di Gaza.
A ciò si deve sommare l’atteggiamento di chiusura, quasi punitivo, dell’ANP nei confronti dei palestinesi amministrati da Hamas, con il risultato di un aumento della tensione.
Si ricorda il problema legato alla fornitura di energia elettrica, con il rifiuto da parte della Cisgiordania di negoziare con Israele la vendita di 120 MW di energia a favore di Gaza, che rimase per lungo tempo praticamente al buio.
Il deterioramento delle condizioni di vita nella Striscia è legato anche al generale impoverimento dei lavoratori nel settore pubblico, dovuto al drastico ridimensionamento dei salari, nonché al forzato prepensionamento di moltissimi dipendenti del settore sanitario e dell’educazione.
Le restrizioni alle operazioni bancarie, l’annullamento dell’efficacia delle assicurazioni sanitarie, in particolare per quelli colpiti da patologie terminali e il taglio dei sussidi per le famiglie degli affiliati a Hamas imprigionati per motivi politici, aggravano ulteriormente la situazione.
A completamento del quadro, si deve aggiungere l’endemica crisi umanitaria che ha raggiunto il 65% della popolazione, distribuita su un territorio di poco superiore ai 365 Kmq. Popolazione che, per il 41% è disoccupata mentre, a parità di condizioni, la percentuale di chi è senza lavoro in Cisgiordania è inferiore al 20%.
Lo scenario per la Striscia di Gaza, stante l’attuale situazione, è preoccupante e, se non migliorerà entro pochi anni, diventerà drammatica.
Possiamo quindi affermare che è proprio la disperazione che ha spinto la leadership di Hamas, attraverso la sotterranea mediazione degli egiziani, ad accettare l’accordo con Al Fatah che, a ben vedere, si può considerare a tutti gli effetti uno scambio: cessione del controllo di Gaza in cambio di assistenza economica, anche da parte egiziana.
Dall’accordo sembra ci possano guadagnare un po’ tutti: Hamas che ha la possibilità di uscire dall’isolamento, l’ANP ma anche l’Egitto intenzionato a sfruttare i buoni uffici per promuovere i propri obiettivi di sicurezza nel Sinai.
Proprio nel Sinai, dove il pericolo dell’estremismo è sempre in agguato, si è giunti all’accordo per il controllo del tristemente noto valico di frontiera di Rafah che, dallo scorso mese di novembre 2017, è posto sotto il controllo della Guardia Presidenziale palestinese e dell’European Union Border Assistance Mission – EUBAN, che hanno sostituito gli uomini di Hamas.
Il tempo dirà se il tentativo di riconciliazione nazionale darà buoni frutti e se, come auspicato dal leader di Hamas Ismail Haniyeh, si potrà aprire una nuova pagina di storia palestinese “….chiudendo per sempre il libro delle divisioni“.
Una unità quanto mai necessaria per cercare di creare un fronte comune e rivendicare, con maggiore autorevolezza e credibilità internazionale, la validità delle proprie ragioni contrapposte a quelle israeliane.
Vedremo cosa succederà in questo 2018.
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