La geopolitica del Medio Oriente sta cambiando: nuovi equilibri si profilano all’orizzonte. E l’Iran avrà di nuovo un intervento destabilizzante da parte di una potenza occidentale? Il saggio che segue di un conoscitore della regione spiega in modo chiaro queste vicende.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
La grande partita mediorientale in questa fase non si gioca solo in Siria ma essenzialmente anche nel Golfo Persico, nel “Consiglio di Cooperazione del Golfo” (CCG), in Israele, Iran, Russia e USA.
La guerra mondiale dei sunniti contro gli sciiti, scatenata dentro l’Islam dall’intervento occidentale dopo le rivolte arabe – dissimili fra loro e non certo “Primavere”, come etichettate da superficiali media – continua più aspra che mai.
Guerra di tutti contro tutti che spinge nell’ottobre scorso il sovrano saudita, Salman bin Abdulaziz, sulla carta alleato di ferro degli Stati Uniti, a recarsi al Cremlino per chiedere al presidente Vladimir Vladimirovic Putin di arginare le mire espansionistiche degli ayatollah.
Salman prende in contropiede il presidente Trump, prima che il presidente americano tenga il suo discorso sul nucleare iraniano. Contestualmente, gli informatissimi israeliani fanno sapere che, in quella occasione, la Casa Bianca concederà una moratoria di 60 – 90 giorni a Teheran, per verificare la corretta osservanza delle clausole dell’accordo “atomico”.
Ma intanto Trump brucia le tappe e anticipa che “L’Iran non ha rispettato lo spirito dell’accordo sul nucleare” e che “non bisogna consentirgli di dotarsi di armi atomiche”, e conclude: “Il regime iraniano appoggia il terrorismo ed esporta violenza, spargimento di sangue e caos nel Medio Oriente. Questo è il motivo per cui dobbiamo mettere fine alle continue aggressioni e alle sue ambizioni nucleari”.
Quello che si sa di sicuro è che nuove sanzioni arriveranno per le Guardie Rivoluzionarie degli Ayatollah, considerate come “organizzazione estremista”. Il segretario di Stato USA, Rex Tillerson dichiara che i messaggi spediti verso Teheran “non riguarderanno solo il nucleare” facendo presagire un’ulteriore caduta dei rapporti con la teocrazia del Golfo.
Ormai il presidente americano ha aperto sterminate diplomazie tra le quali si attiva il presidente russo Putin, che sino al precedente anno non vi svolgeva alcuna attività.
Ben lo comprende il Capo del Pentagono, il ministro James Mattis, che pur non stimando l’Iran, spezza una lancia in suo favore sostenendo “che ha rispettato sostanzialmente l’intesa” aggiungendo che essa “è nell’interesse degli USA” e che quindi il presidente “dovrebbe considerare di mantenerla”.
Nello stesso modo pensano non solo Russia e Cina ma anche gli altri alleati europei, a cominciare dalla Germania. Tutti Paesi in cui si ritiene che la crescente ostilità israeliana verso Teheran possa avere influenzato pesantemente Trump e i suoi consiglieri.
In merito all’Arabia Saudita, alcuni analisti ritengono che a Riad gli sceicchi non siano tanto preoccupati dall’Iran atomico, quanto piuttosto dall’incapacità americana di gestire le crisi siriana e curdo-irakena, tutte aree in cui le milizie sciite avanzano come un rullo compressore.
Da qui la decisione di chiedere udienza a Putin e sondare il terreno, per vedere se è possibile coinvolgere anche Mosca nel “rischio”. Un’esigenza divenuta pressante, dopo che anche la Turchia ha, di fatto, aderito alla cordialità fra Russia, Iran ed Hezb’Allah per quanto riguarda la gestione della crisi siriana.
I sauditi certamente non gradivano il presidente Obama; ora però si fidano – ma non troppo – dell’attuale presidente americano.
Fra le altre cose, a Riad sono in allarme per la piega presa dalla guerra civile yemenita, un conflitto pericolosissimo, nato e cresciuto lungo parte del confine saudita. Per cui adesso la famiglia reale saudita è vicino a Putin al quale chiedono aiuto.
Significativi Paesi sono Russia e Turchia, che – pur nelle loro divergenze – hanno legami economici e militari, tanto da concludere i preparativi per l’acquisto della Turchia di un sistema di difesa missilistico russo di tipo S-400 suscitando allarmismo nella NATO, di cui Ankara è membro. L’avvicinamento dei due Paesi è recente.
La Turchia è passata, sin dall’inizio delle prime rivolte in Siria, dai rapporti diplomatici con Damasco alla guerra, mentre la Russia ha consolidato anche militarmente il suo rapporto con la Siria, sin dall’inizio della guerra civile nel 2011 e lavora a stretto contatto con l’Iran ed Hezb’Allah libanese.
Vero è anche che Russia e Turchia hanno divergenze politiche per il coinvolgimento nel controllo del Mar Nero e sul confitto del Nagorno- Karabakh, cui si aggiunge il legame etnico rivendicato da Ankara con la popolazione dell’Asia centrale.
Comunque, i due leader non entreranno in conflitto.
La Turchia, allontanata dall’EU, vede nella Russia una porta per la Siria e il suo futuro nella regione ed entrambi coopereranno per contrastare gli interessi americani.
La Russia è criticata per le operazioni in Ucraina iniziata nel 2014. Nella regione dunque sono attive operazioni militari e no, interessi, espansioni, tutto sullo sfondo siriano, che rappresenta una sfera di convergenza e influenza.
Ed ecco russi, iraniani, turchi, europei e americani e anche ceceni, uzbeki e kizighistani. Fra questi, dov’è il popolo arabo?
Tutti i presidenti USA hanno privilegiatolo Stato ebraico, ma lo “sbilanciamento” dell’attuale inquilino della Casa Bianca pone numerosi interrogativi. Esemplare è la questione di Gerusalemme “capitale totale” d’Israele.
Il colpo di mano era stato preparato da tempo, ma è forse stato anticipato in occasione del vicino Congresso in cui la lobby ebraica ha un forte potere politico.
La decisione del presidente americano è stata colta con favore da DAESH, che in rotta da Iraq e Siria, guarda proprio alla Palestina per radicalizzare lo scontro con i “crociati”, trasferendolo dal terreno politico a quello religioso. Ma c’è di più.
La Casa Bianca starebbe preparandolo scompiglio in casa del nemico numero uno di Gerusalemme: l’Iran.
Gli Stati Uniti pensano a un cambio di regime a Teheran, che metta nell’angolo l’attuale teocrazia e lasci il campo a un governo che abbia minori mire espansionistiche nel Golfo Persico. Con grande gioia dell’Arabia Saudita e di tutto il blocco sunnita.
Israele, da parte sua, ha il chiodo fisso del Golan, di Hezb’Allah e dei grandi sponsor sciiti: gli Ayatollah.
Dentro l’amministrazione si starebbero confrontando due linee:
Forse, fu proprio in base a questo “undicesimo comandamento” (“ogni rivoluzione fallita provoca una restaurazione ancora più forte”) che Obama, nel 2013, alle Nazioni Unite, proclamò il principio della non interferenza USA negli affari interni di Teheran. Adesso, invece, diversi leader repubblicani chiedono le teste degli Ayatollah iraniani che governano l’Iran. Il senatore dell’Arizona, Tom Cotton, ha detto che nessun Paese può sopportare un regime dispotico come quello teocratico iraniano. Non solo ma ha parlato anche della necessità di sostenere l’opposizione interna e di studiare la possibilità di realizzare azioni “sotto copertura”.
In altri termini si tratta di far intervenire la CIA che hanno un nero curriculum sull’Iran. Tra Mossadeq, lo Scià Pahlavi e la sottovalutazione del regime khomeinista, gli 007 di Langley hanno fatto molti errori in Iran. Il più clamoroso è stato l’insuccesso del blitz per la liberazione degli ostaggi dell’ambasciata americana.
Ora, però, il discorso ha preso anche una deriva molto più scomoda, se non azzardata. Qualcuna parla già di gettare benzina sul fuoco delle rivolte etniche: arabi, turkmeni e baluci sarebbero pronti a saltare il fosso e aspettano solo il segnale da Washington e il salvadanaio per le “lotte di indipendenza”.
Insomma la posizione americana rischia di far esplodere conflitti e attriti sepolti sotto la polvere della storia. Comunque, anche il segretario di Stato, Rex Tillerson, notoriamente abbastanza prudente, avrebbe sposato il piano per il “ribaltone” iraniano, pronunciandosi per il “cambiamento del regime”. Deciso dagli USA, è ovvio, alla faccia della (molto relativa) democrazia iraniana e del principio della non ingerenza e autodeterminazione.
Certo, il fallimento di un piano del genere comporterebbe problemi a cascata multipla con ripercussioni geo-strategiche non indifferenti: dal possibile blocco dello Stretto di Hormuz (“la porta del greggio nel Golfo persico”) ai ritorni di fiamma della guerra in Siria, fino alla destabilizzazione del Libano.
Che cosa potrebbe comportare l’entrata in guerra di Israele? Senza dimenticare lo Yemen, campo neutro dello scontro tra sauditi e iraniani nella Penisola Arabica ‘?
Forse una nuova guerra avrebbe un esito catastrofico.
L’11 dicembre corrente comincia lo scontro a distanza tra Israele e Iran.
Jet con la stella di Davide bombardano ad al Kiswa, vicino a Damasco, una caserma iraniana in costruzione. La Siria conferma l’attacco precisando che i sistemi di difesa anti-aerea sono riusciti a intercettare e distruggere due razzi. Fonti arabi invece parlano di un attacco contro un deposito di armi del movimento sciita libanese di Hezb’Allah, più volte preso di mira in Siria dai raid aerei di Israele.
Contestualmente, il premier israeliano Netanyahu fa diffondere un video- messaggio in cui lancia pesanti avvertimenti a Teheran e ripete che Israele non consentirà all’Iran di avere una presenza militare in Siria.
Israele è schierato contro l’intesa Russia-USA e quelle fra Russia, Iran e Turchia per l’istituzione di aree di de-escalation in Siria, volte a realizzare un progressivo cessate-il-fuoco tra forze governative e miliziani jihadisti. Secondo Tel Aviv queste intese favorirebbero presunti piani di Teheran per la costruzioni di basi e avamposti in Siria, anche nei pressi del Golan (che Israele occupa militarmente da 50 anni).
Intanto, nel conflitto yemenita, terreno di scontro indiretto fra Iran e Arabia Saudita – alleata di Israele – i ribelli sciiti Houthi perdono, dopo la defezione dell’ex presidente Alì Abdallah Saleh aeroporto e ministero della difesa di Sanaa.
©www.osservatorioanalitico.com – Riproduzione riservata
Commenti recenti