CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE SU GERUSALEMME

CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE SU GERUSALEMME

Netanyahu

Netanyahu

Questa analisi ricorda con chiarezza i termini della Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, presa il 29 novembre 1947, una delle più famose Risoluzioni, ma mai implementata. I tempi sono cambiati e la situazione del conflitto israelo-palestinese è divenuta sempre più complessa e di difficile soluzione. Trump ha fatto una dichiarazione molto forte, anche se ha specificato che ci vorranno due anni per il trasferimento della’Ambasciata USA a Gerusalemme da Tel Aviv. Una domanda: perché l’ha fatto? La risposta non è così semplice come può sembrare.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

  1. L’inizio del caos. 

La decisione del presidente americano Donald Trump di riconoscere, all’inizio di dicembre, Gerusalemme come capitale di Israele dà luogo a immediati disordini nell’intero Medio Oriente.

Sin dall’inizio, i Territori Occupati sono teatro di manifestazioni e scontri, che causano fra i palestinesi 5 morti e oltre 1.600 feriti fra Gerusalemme, Gaza e Cisgiordania, secondo i dati forniti dalla Mezzaluna Rossa.

A Betlemme, due giovani palestinesi sono colpiti dal fuoco dell’esercito israeliano sparato dalle torrette militari che costellano il “Muro di Separazione” (quasi 800 km che attraversano le terre palestinesi), mentre a Gerusalemme un 24enne palestinese ferisce con il coltello una guardia privata israeliana alla stazione degli autobus della città.

La Casa Bianca accusa il presidente dell’”Autorità Nazionale Palestinese” (ANP), Abu Mazen, di abbandonare il negoziato di pace con Israele dopo l’annuncio di non volere incontrare il vice presidente USA Mike Pence, che sarà nella regione a fine mese.

Abu Mazen congela l’incontro fino a quando gli USA non abbiano ritirato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. L’ufficio del Vice Presidente invece conferma l’incontro con il premier israeliano Netanyahu e il presidente egiziano al – Sisi, da più parti indicato come il nuovo mediatore della pace. La conferma dell’Ufficio di Pence si scontra subito con il rifiuto del grande imam di Al-Azhar che ha già fatto sapere di non voler veder Pence.

Il presidente francese Macron, all’Eliseo non risparmia dure critiche a Netanyahu, in visita a Parigi: in due ore di colloquio chiede a Tel Aviv “il congelamento della colonizzazione” ma soprattutto esprime “disapprovazione” per la decisione di Trump definendola “contraria al diritto internazionale e pericolosa per la pace”.

Dal suo canto, Netanyahu ripete: “Se Parigi è la capitale della Francia, Gerusalemme è la capitale di Israele”, narrazione che, di fatto, viola alla radice quanto previsto da diritto internazionale e dalla Risoluzione181, la partizione storica da parte dell’ONU nel 1947, che Israele ha sempre usato per legittimarsi.

Ma cosa scrive quella Risoluzione?

In breve, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvano la Risoluzione 181:

  • con i voti a favore di URSS, USA e Francia, mentre votano contro gli Stati Arabi;
  • si astengono Gran Bretagna, Cina e altri Paesi.

La Risoluzione prevede la divisione della Palestina in tre parti:

  • uno Stato ebraico sul 56% del territorio;
  • uno Stato Palestinese;
  • una zona internazionale che comprenda Gerusalemme e Betlemme.

Il confine tracciato viene definito “Linea Verde”.

  1. I diritti dei palestinesi.

Una sintesi di Richard Falk, professore emerito a Princeton e già consulente ONU per la Palestina è fondamentale per chiarire la realtà.

Israele a tutt’oggi si è rifiuta di definire il limite dei propri confini per finalità di diritto internazionale, presumibilmente per permettere ulteriori espansioni fini a quando la totalità della biblica Terra Promessa sarà sotto il suo controllo totale. A rischio di estinzione c’è la fetta di territorio della West Bank che da Israele viene indicata con i nomi biblici di Samaria e Giudea, sostenendo in questo modo l’idea che tradizione etnica e religiosa abbiano precedenza sul diritto internazionale contemporaneo.

In realtà si tratterebbe di tornare indietro di 70 anni, alla controversa “Risoluzione 181” dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Israele, negli anni seguenti, ha spesso esaltato la Risoluzione, in contrasto con l’opposizione palestinese.
Questi ultimi hanno dovuto subire massicce espulsioni e perdite dei territori durante la guerra del 1947, conosciuta come Nabka (il disastro) per i palestinesi. Israele per anni argomenta che l’accettazione della “Risoluzione 181” annulla le rimostranze attribuite alla Nakba, includendo il diniego ai palestinesi di qualsiasi diritto al ritorno alla loro case o ai luoghi di residenza, malgrado il proprio collegamento con la propria terra e il diritto di identità dei palestinesi.

Quello che Israele vuole dal resto del mondo, è che sia dimenticata quella che è la presente situazione stabilita dalle Nazioni Unite per quanto riguarda lo status di Gerusalemme come parte integrante della “Risoluzione 181”.

Viceversa, Israele propaganda al mondo la falsa storia che la “Risoluzione 181” trattava esclusivamente le divisioni del territorio; di conseguenza le rivendicazioni inerenti a Gerusalemme vanno ignorate e dimenticate.

In realtà, quanto fu proposto nella decisione delle Nazioni Unite e quanto Israele accettò nel 1947 fu che la città di Gerusalemme, riconoscendo il collegamento d’identità nazionale per i palestinesi e per gli ebrei, non doveva essere sotto il controllo sovrano di nessuna delle due popolazioni ma doveva essere soggetta all’amministrazione delle Nazioni Unite, riconoscendo il particolare significato simbolico e religioso di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste.

Gli assertori della decisione del presidente americano potrebbero dire che palestinesi e mondo arabo in virtù dell’iniziativa di “Pace araba” nel 2002 avrebbero silenziosamente sostituito l’internalizzazione di Gerusalemme con la “soluzione dei due Stati”, in base alla quale si realizza il presupposto condiviso da entrambe le parti, affinché Gerusalemme sia condivisa in modo da concedere a Israele e Palestina di stabilire la loro capitale entro i limiti della città.

La maggior parte dei progetti avanzati per i due Stati, indicano Gerusalemme Est – che Israele ha occupato da 50 anni, sin dalla guerra del 1967 – per i palestinesi. Anche in questo caso esiste una strana diversificazione fra quanto Israele si vuole arrogare come diritto e quanto il diritto internazionale prevede. Israele, al termine della guerra del 1967, immediatamente ha asserito che tutta Gerusalemme costituisce la “città eterna” per il popolo ebraico. Il governo di Tel Aviv va ben oltre. Con un decreto ha esteso l’intera area che comprende la città di Gerusalemme quasi raddoppiando il territorio e accorpandosi una serie di comunità palestinesi.

Venendo alla domanda del perché debba essere negato a Israele il diritto di situare la propria capitale dovunque voglia, secondo Richard Falk è opportuno rimodulare quanto richiesto da Israele nei seguenti termini: “Esiste il diritto di ogni Stato decidere di stabilire arbitrariamente la propria capitale in una città che è occupata ovvero in virtù dell’autorità esclusiva di sovranità designate dal proprio governo territoriale?”.

In merito al danno provocato dell’iniziativa del presidente americano ne riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e l’intenzione di spostare l’ambasciata americana, è impossibile da quantificare adesso, benché un eventuale ritorno alla violenza, all’estremismo islamico, al terrorismo anti-americano (come avvenuto il giorno10 dicembre, nota di scrivente) e a una situazione di guerra estesa nella regione mediorientale, verrà attribuito a un errore diplomatico del presidente USA (come avvenuto a Beirut pochi giorni fa, nota di scrivente).

Altrettanto dicasi per l’autorità delle Nazioni Unite incapaci di dirimere controversie a livello geopolitico, mettendo da parte il diritto internazionale e l’opinione pubblica mondiale.

  1. Il premier israeliano in Europa e le posizioni ostili della Lega Araba.

L’Alto rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, a Bruxelles, durante la visita di Netanyahu – che chiede agli europei di seguire l’esempio statunitense – ripete la necessità di riaprire il dialogo coinvolgendo i Paesi della regione mediorientale e si dice preoccupata per la sicurezza di Israele e per l’aumento dell’estremismo come frutto delle attuali tensioni intorno a Gerusalemme.

Dura la Lega Araba che, al Cairo, fa appello a Washington perché ritiri la dichiarazione del presidente USA, sottolineandone il nullo ”effetto legale” della decisione che è volta solo ad ”aumentare la tensione e alimentare la rabbia”.

Peraltro, alle parole non seguono i fatti: nessun Paese arabo assume misure più drastiche al di là delle condanne a parole, ritirato gli ambasciatori o congelato i rapporti diplomatici.

Solo il Libano, per bocca del suo ministro degli Esteri, richiede alle Lega Araba di imporre sanzioni a Washington.

Dopo la grande manifestazione di Beirut, dispersa dalle forze di sicurezza libanesi con gas lacrimogeni e cannoni d’acqua, la marcia per Gerusalemme è organizzata da Hezb’Allah’ con migliaia di persone protette dai combattenti del movimento sciita, mentre il leader Sayyed Hassan Nasrallah parla in un video trasmesso da maxischermi, chiamando i palestinesi a una nuova Intifada e dando il sostegno di Hezb’Allah contro Israele e Stati Uniti

I palestinesi protestano urlando “Al Quds è araba, Gerusalemme è araba” a Ramallah, Hebron, Tulkarem, Gaza, all’Università Khadouri, Al-Bireh, Cisgiordania, Betlemme, Nablus, all’American House di Gerusalemme, istituzione americana. Accanto hanno solo le proteste dei cittadini di Paesi di tutto il mondo, scesi in decine di migliaia in piazza per protestare contro gli attacchi alla Gerusalemme araba. Ma le leadership restano distanti: molte parole e zero fatti.

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