PIANO USA PER LA SOLUZIONE DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

PIANO USA PER LA SOLUZIONE DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

Ryad Al Malki

Ryad Al-Malki

Di fronte a notizie secche e circostanziate con numeri si rimane decisamente perplessi sulla difficoltà della situazione nel conflitto palestino-israeliano e su una possibile ‘pace’ della quale però il mondo intero necessita. E’ un bel problema che abbiamo ricevuto in eredità dalla Prima Guerra Mondiale….cento anni fa…Sykes-Picot, Balfour…

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

  1. Il grande accordo del secolo

Secondo il ministro degli esteri palestinese, Ryad al-Malki, l’annunciata decisione del Dipartimento di Stato americano di chiudere la missione palestinese a Washington se i palestinesi non entreranno subito “in negoziazioni dirette e significative con Israele” rappresenta un ricatto a tutti gli effetti.

Trump – è fin troppo evidente – vuole imporre all’ “ANP”(Autorità Nazionale Palestinese) del presidente Abu Mazen di negoziare con il premier israeliano Benjamin Netanyahu sulla base di quel “piano di pace”, noto anche come “il grande accordo del secolo”.

Piano in cui c’è l’oscura norma USA secondo cui la missione del “PLO” (Palestinian Liberation Organization) deve essere chiusa se i palestinesi tenteranno di spingere la Corte Penale Internazionale a procedere contro Israele, come ha chiesto Abu Mazen lo scorso settembre all’Assemblea Generale dell’ONU dopo avere denunciato l’espansione incessante degli insediamenti coloniali israeliani e le aggressioni contro il suo popolo sotto occupazione militare.

Il PLO aprì tra cerimonie e fanfare una missione a Washington nel 1994, dopo la firma degli Accordi di Oslo (13 settembre 2013) con Israele.

Ora, dopo oltre trenta anni, il ricatto americano: o Abu Mazen accetta senza fiatare il piano USA o perderà la rappresentanza e in futuro molto di più. Piano americano che prevede che la questione palestinese sia risolta all’interno di una trattativa ampia, regionale, tra Israele e il Paesi arabi, in particolare l’Arabia Saudita e le altre monarchie sunnite.

All’inizio anno, ricevendo Netanyahu alla Casa Bianca, Trump prese le distanze dalla soluzione a due Stati (Israele e Palestina), dicendosi disposto a sostenere qualsiasi pace, lasciando intendere anche senza la creazione di uno Stato palestinese.

Secondo fonti israeliane il piano Trump sarà basato sul riconoscimento USA di uno Stato palestinese accanto a Israele ma non lungo i confini del 1967 e senza lo sgombero di alcun insediamento coloniale ebraico costruito dopo il 1967 nel Territori Occupati. In sostanza ai palestinesi verrebbe restituito solo qualche chilometro quadrato di terra in più rispetto a quanto già controllano ora (ma solo civilmente): la Zona A e la Zona B, rispettivamente il 14% e il 20% della Cisgiordania Occupata.

La parte restante della Cisgiordania, la Zona C, e tutta Gerusalemme andrebbe a Israele, poiché vi vivono centinaia di migliaia di coloni israeliani.

A conti fatti, all’ipotetico Stato di Palestina andrebbero meno del 40% di quel 22% della Palestina storica che rimase dopo la fondazione dello Stato di Israele e la guerra del 1948, oltre alla minuscola e isolata Striscia di Gaza, meno di 400 chilometri quadrati. Senza dimenticare che questo Stato non avrà il controllo della frontiera con la Giordania, un suo spazio aereo e piena sovranità poiché il piano Trump offre a Israele le massime garanzie di sicurezza. Si tratterebbe di un Bantustan legalizzato, riconosciuto dalla comunità internazionale.

Intanto la Lega araba-saudita, mentre chiede al governo degli Stati Uniti di non chiudere in modo punitivo l’ufficio del PLO a Washington, porta appoggio all’assalto all’Iran e al suo alleato Hezb’Allah lanciato dalla monarchia Saud. Lo scontro fra Riyadh e Tehran è ormai planetario pur se si concentra in Siria, Libano e Yemen. Nel corso della riunione straordinaria della Lega araba al Cairo il 20 novembre, il ministro saudita, Ader al-Jubeir, ha avvertito con fare minacciosa che “l’Arabia Saudita non resterà guardare le aggressioni iraniane e non esiterà a difendere la sua sicurezza nazionale per garantire l’incolumità dei suoi abitanti.

In risposta, su ordine di Beirut, il ministro degli esteri libanese, Gebran Bassil, non ha partecipato alla riunione della Lega araba.

Contestualmente, il presidente libanese Aoun ha difeso Hezb’Allah negando l’accusa di “terrorismo” che gli rivolgono le monarchie sunnite. Più di tutto ha difeso le armi del braccio militare del movimento sciita che, ha spiegato, servono “per difendere il Paese da Israele”.

Il clima è sempre più infuocato a Beirut, dove dopo altre due settimane di assenza, è rientrato Saad Hariri che aveva presentato le dimissioni da premier in Libano mentre era in visita a Riyadh, lanciando accuse pesanti a Hezb’Allah e Tehran.

  1. Il ricatto USA

Si approfondisce lo scontro fra l’ANP di Abu Mazen e l’amministrazione Trump: il 21 novembre i palestinesi hanno congelato i contatti con il consolato USA a Gerusalemme e con gli esponenti americani in visita in Cisgiordania. Una mossa solo “temporanea” però finché gli americani non chiariranno le loro intenzioni volte a costringere Abu Mazen a tornare senza condizioni al negoziato con Israele sulla base del “piano” Trump.

Intanto, il giorno precedente, al Cairo il movimento islamico Hamas, il partito di Fatah e altre undici formazioni hanno ripreso le trattative per la riconciliazione nazionale palestinese.

In merito, va detto che a conclusione di due giorni di negoziati a porte chiuse, accanto alla richiesta rivolta alla Commissione elettorale palestinese perché si possano tenere votazioni politiche e presidenziali entro il 2018 non sono arrivati segnali rassicuranti sul passaggio definitivo, il 1° dicembre, dell’amministrazione civile di Gaza dal movimento islamico al governo ufficiale a governo ufficiale dell’ANP, guidato dal premier Rami Hamdallah e sostenuto da Fatah. Il 1° novembre, Hamas ha ceduto il controllo dei valichi di Gaza con Egitto e Israele all’ANP, facendo avanzare di un altro passo la riconciliazione. Dopo però le cose sono andate avanti lentamente anche perché il Cairo, facilitatore della trattativa non ha ancora riaperto in modo permanente, come aveva promesso, il valico di Rafah con Gaza.

Restano, infatti, i nodi non sciolti, in particolare sulla gestione della sicurezza nella Striscia di Gaza di cui non s fa riferimento nel comunicato al termine dei colloqui. Il presidente dell’ANP Abu Mazen, ripete che non possono coesistere due diverse forze di sicurezza.

Da parte sua Hamas esclude il disarmo della sua milizia, le Brigate Ezzedin al Qassam e segnala che continuerà a occuparsi della sicurezza di Gaza, ad eccezione dei valichi con Israele ed Egitto.

In merito poi alle elezioni entro il 2018, va ricordato che più volte nel passato se ne è parlato, ma in realtà le ultime consultazioni si sono tenute nel 2005 e vinse nettamente Hamas e poi basta.

Dall’altro canto, tra gli esiti positivi c’è la decisione di convocare il Consiglio Nazionale palestinese (è il Parlamento di tutti i palestinesi, anche quelli che vivono in asilo) il prossimo febbraio e la proclamazione del PLO quale unico rappresentante del popolo palestinese.

Hamas non ne fa ancora parte e il riconoscimento conferma l’intenzione del movimento islamico di entrare nella più importante delle istituzioni palestinesi.

Molti auspicano che l’accordo possa migliorare la vita dei due milioni di abitanti di Gaza, da oltre dieci anni costretti a subite le conseguenze del blocco israeliano della Striscia e che affrontano mancanza di energia elettrica e di acqua potabile, disoccupazione e povertà.

  1. Il Giro d’Italia a Gerusalemme

Il 25 e 26 novembre in tutta Italia si sono svolte manifestazioni per protestare contro la partenza del Giro d’Italia 2018 da Gerusalemme, con tre tappe in Israele. La data scelta non è casuale: il 29 novembre sarà ufficialmente annunciato il ‘via’ dalla Città Santa, data che – fanno notare gli organizzatori della protesta, la ECCP (European Coordination of Committees and Association for Palestine) – coincide con la giornata ONU di solidarietà con il popolo palestinese.

La ECCP ha anche annunciato un appello agli organizzatori della nota corsa ciclistica, firmato da oltre 120 soggetti (organizzazioni per i diritti umani, sindacati, tra cui Fiom-Cgil e Usa, gruppi sportivi, gruppo religiosi e personalità come il linguista Noam Chomsky, i giuristi John Dugartd e Richard Falk, il drammaturgo Moni Ovadia, gli europarlamentari Forenza, Maltese e Cofferati). La società civile palestinese, da parte sua, ha scritto al Papa Francesco: “non accettare l’invito del premier israeliano Netanyahu a dare il ‘via’ alla prima tappa”.

  1. La Valle del Giordano.

Tutto ciò accade mentre da mesi l’espansione coloniale nella Valle del Giordano prosegue. Da anni il premier israeliano pone come precondizione intoccabile all’eventuale negoziato il mantenimento del controllo militare e di sicurezza sulla Valle del Giordano.

Ora le autorità israeliane stanno lavorando al trasferimento forzato di 200 palestinesi (di cui 45 donne e 60 bambini) dai propri villaggi e dalle proprie terre nelle comunità di Ein al –Hilweh e Ummmal Jamal, nella parte settentrionale della Valle del Giordano. Mahadi Daraghmeh, membro del consiglio municipale della Valle del Giordano, ha denunciato, lo scorso10 novembre, la consegna di ordini di demolizione e di evacuazione a 30 famiglie palestinesi da 60 abitazioni e strutture agricole.

Datati 1° novembre e consegnati solo il successivo giorno 10, gli ordini danno solo 8 giorni di tempo. Dunque sono “scaduti” nello stesso giorno della notifica. Le famiglie aspettano l’arrivo dei bulldozer israeliano in qualsiasi momento e Daraghmeh dice che la reale motivazione è l’espansione delle colonie agricole.

Timore da parte palestinese perché lo sgombero è consustanziale a quanto annunciato da tempo il ministro israeliano dell’Abitazione, Yoav Galant, che giorni prima ha reso noto un piano “per rafforzare le comunità ebraiche nella Valle del Giordano”, un progetto che – attraverso fondi statali a cooperative e insediamenti agricoli a chi deciderà di trasferirsi e l’eliminazione dei limiti alla costruzione – raddoppierà il numero dei coloni israeliani nell’area. Da 6 mila a 12 mila: le colonie presenti nella valle del Giordano, 37, sono esclusivamente colonie agricole e i residenti non sono numerosi come del resto degli insediamenti della Cisgiordania.

Numeri ridotti ma effetti devastanti per la popolazione palestinese: dal 1967 la Valle del Giordano è per oltre il 90% sotto il controllo israeliano, tra Area C, Zone militari e aree chiuse di addestramento; Area A sotto il controllo palestinese comprende solo la città di Gerico e piccolissime porzioni di alcuni villaggi. E’ a Gerico che buona arte della popolazione è stata costretta in questi 50 anni, spinti da demolizioni di case, espansione coloniale e perdita dei mezzi di sussistenza: dei 320 mila abitanti pre-1967 ne restano 56 mila, meno del 20% delle riserve d’acqua utilizzabili da palestinesi e il tasso di povertà è pari al 33,5%, il più alto della Cisgiordania.

Senza acqua e sempre meno terra a disposizione, le comunità palestinesi hanno difficoltà estreme nel coltivare la terra e sono per lo più costretti a lavorare per pochi shekel al giorno nelle colonie israeliani, che da parte loro producono a basso costo e si rendono molto più competitivi sul mercato interno, prigioniero, palestinese.

L’obiettivo di un simile piano è chiarissimo. Israele va avanti nell’espansione territoriale in una zona strategica per rendere più difficile in futuro un’eventuale evacuazione dei coloni. Tel Aviv sa che il tempo è prezioso e che ogni metro guadagnato sarà un punto in più al tavolo del negoziato. E la valle del Giordano è centrale nei piani del governo.

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Lord Balfour e la sua ‘Dichiarazione’.

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