Islam e risorse energetiche in Asia Centrale.

Mappa dell'Asia Centrale

Mappa dell’Asia Centrale

Un’analisi molto dettagliata e interessante sull’Islam nelle Repubbliche dell’Asia Centrale. Riflessioni di notevole interesse.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Il risveglio islamico in Asia Centrale costituisce uno dei fenomeni storici più importanti degli ultimi decenni. Dopo un lungo periodo di oppressione sovietica, la rinascita dell’identità islamica in Asia Centrale ha rappresentato una importante riappropriazione del proprio patrimonio spirituale e identitario da parte delle popolazioni dell’Asia Centrale, fino al 1991 sostanzialmente isolate dal resto del mondo a causa dell’esistenza della Guerra Fredda. Il fatto stesso di fare parte dell’Unione Sovietica, infatti, impediva loro di coltivare relazioni, se non a livello regionale e sotto lo sguardo attento di Mosca, con gli altri Stati mussulmani dell’area.

La religione islamica, dagli anni Sessanta, fu meno perseguitata rispetto al passato dalle autorità russo-sovietiche, soprattutto per motivi legati alla politica estera di Mosca: infatti l’Asia Centrale sovietica doveva servire a dimostrare agli Stati mussulmani la sostanziale compatibilità tra comunismo e Islam; a fungere quindi da vetrina al modello sociale e politico sovietico nei confronti degli Stati mussulmani del Terzo Mondo. Pur propagandando l’ateismo di Stato e quindi concependo la religione come un residuo del passato, Mosca aveva permesso la sopravvivenza dell’Islam in Asia Centrale soprattutto a fini di politica estera, poiché aveva compreso che il mondo musulmano, soprattutto quello dell’area del Golfo, e asiatico in generale, avrebbe acquisito una sempre maggiore importanza strategica nel corso dei futuri decenni. A ciò e alla necessità allo stesso tempo di contenere la possibile espansione del fondamentalismo islamico nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale è, almeno in parte, da ricondurre il tentativo sovietico di invadere l’Afghanistan nel corso degli anni ’80.

Dagli anni Ottanta, in particolare durante l’epoca gorbacioviana, si è quindi assistito a un risveglio dell’Islam in Asia Centrale, in particolare dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando ha contribuito a colmare il vuoto ideologico venutosi a creare in seguito alla fine del comunismo; l’Islam, quindi, quale simbolo di una ritrovata identità, volta a cancellare l’eredità della dominazione sovietica e della forzata russificazione che però aveva mostrato anche alcuni aspetti positivi come la diffusione di una cultura scientifica ed una progressiva industrializzazione, contribuendo così ad un miglioramento delle condizioni economiche della popolazione locale.

La storia della dominazione russo/sovietica in Asia Centrale ha quindi lasciato anche un’eredità che continua a influenzare positivamente o, almeno non negativamente, gli attuali rapporti tra Russia e le repubbliche dell’Asia Centrale indipendenti che aspirano a divenire attori politici a pieno titolo della comunità internazionale, dopo molti anni di dominio straniero, sebbene si rendano chiaramente conto di essere collocate in un’area geostrategica al centro degli interessi delle grandi potenze e quindi soggette a diverse pressioni interne ed esterne che rendono la loro posizione nel contesto internazionale particolarmente delicata e esposta al rischio di repentini, quanto bruschi, sovvertimenti dello status quo: le cosiddette “rivoluzioni arancioni” che hanno caratterizzato nel corso degli ultimi due decenni diversi Paesi dell’area post-sovietica.

Un accorto mix di nazionalismo e in parte esasperato, secondo lo Stato, culto della personalità del leader che rappresenta ed incarna la rinnovata indipendenza della nazione e di rinascita religiosa islamica, sono stati quindi gli ingredienti con cui i governi dell’area hanno cercato di puntellare ideologicamente gli Stati dell’Asia Centrale che stavano attraversando un delicato periodo di transizione dall’ideologia marxista-leninista all’economia di mercato. Ciò ovviamente ha portato, nonostante le reiterate promesse da parte dei governi locali di adottare istituzioni di tipo liberale, a escludere, di fatto, la transizione verso una democrazia liberale di matrice occidentale perché sostanzialmente estranea alle tradizioni culturali locali.

Si pone nel contesto post-sovietico la difficoltà di risvegliare un interesse attivo della popolazione nei confronti della politica, dopo anni della lunga inerzia politica e dell’apatia che ha caratterizzato questi Stati durante il periodo sovietico, i cui effetti perdurano ancora oggi in larghi strati della popolazione i quali mostrano generalmente poco interesse per le vicende politiche dei loro Paesi, in particolare per l’instaurazione della democrazia di tipo occidentale, preferendogli invece un autoritarismo da parte dei loro leader spesso con forte paternalismo e culto della personalità. Tutto ciò in un ambiente culturale in cui a prevalere sono spesso le tradizioni collettivistiche, almeno in un ambiente rurale legato al clan o all’etnia e non all’individuo. E’ necessario tenere presente che in molti Stati dell’Asia Centrale a prevalere tra gli individui è ancora spesso il legame clanico ed etnico, fatto che impedisce, o perlomeno ostacola, l’instaurazione di una democrazia di matrice occidentale che tenda a valutare i leader nazionali esclusivamente in base ai loro programmi politico-economici e non alla loro affiliazione clanica od etnica.

Secondo l’Unione Europea, l’instaurazione della democrazia in Asia Centrale permetterebbe quindi di rendere più trasparente la gestione delle finanze dello Stato e la selezione degli incarichi statali di prestigio, finora effettuata, invece, spesso su base clanico-clientelare e non sulla competenza o sul programma politico. Ciò, sul lungo periodo, consentirebbe ai diversi Paesi dell’area, in particolare a quelli dotati d’ingenti risorse energetiche, di crescere in modo uniforme, senza che le élite governative s’impossessino illecitamente dei cospicui proventi derivanti dalle risorse energetiche, lasciando una buona parte della popolazione in condizioni di mera sussistenza.

La stessa rinascita islamica, volta in alcuni casi a fungere da sostituto di una debole crescita economica, è stata portata avanti dai governi locali anche con un attento bilanciamento tra la necessità della costruzione dell’identità nazionale e il timore della possibile nascita del fondamentalismo islamico, che ora raccoglie numerosi adepti, in particolare nella valle del Fergana.

Alcuni Stati, come il Kazakhstan e il Kirghizistan, nonostante la riscoperta delle proprie radici religiose, hanno, infatti, mantenuto il carattere sostanzialmente laico dello Stato, mentre altri, per esempio l’Uzbekistan, hanno inaugurato una politica di riscoperta delle radici islamiche che le pone a fondamento della nazione e conferisce loro legittimità, pur senza rinunciare del tutto alla laicità dello Stato. La riscoperta della religiosità islamica in Asia Centrale si è quindi manifestata in maniera non uniforme, assumendo forme e modalità diverse da Paese a Paese, a seconda della sua tradizione culturale preesistente. Il difficile equilibrio tra la politica statuale di incoraggiamento della popolazione alla riscoperta delle proprie tradizioni religiose quale prioritario fattore di rafforzamento della coscienza nazionale, il cosiddetto nation building, e allo stesso tempo il timore che ciò possa favorire la nascita dell’estremismo islamico, è quindi un esercizio assai delicato cui i governi dell’area dedicano particolare attenzione.

Stati come Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran hanno contribuito alla rinascita del fenomeno religioso, ma anche alla nascita del radicalismo islamico in quest’area prevalentemente sunnita, pur con una presenza minoritaria di sciiti in alcuni Paesi dell’area come il Tagikistan. Questo è perciò divenuto, nel corso degli anni ’90, un terreno di feroce competizione tra Paesi di fede musulmana per la “reconquista” islamica di uno spazio soggetto per molti decenni all’impero sovietico e quindi sostanzialmente chiuso alle influenze del resto del mondo. Ciò è avvenuto con la costruzione di moschee, di madrasse (scuole coraniche) e con la concessione di borse di studio ai giovani per periodi di soggiorno in Paesi islamici, dove apprendere o perfezionare i precetti religiosi dell’Islam.

La nascita di un Islam radicale d’importazione e non moderato come quello locale non ha però, ovviamente, mancato di suscitare forte preoccupazione presso le autorità statali locali, la cui ragion d’essere, specialmente nei confronti degli interlocutori occidentali, è appunto individuata nella lotta all’integralismo islamico che diviene la giustificazione per l’immobilismo politico. Quest’ultima diviene anche la sostanziale giustificazione per l’autoritarismo e la generale corruzione che caratterizza i governi locali. Queste rischiano di divenire le principali cause della crescita del movimento fondamentalista, in particolare se la corruzione dell’apparato governativo aumenterà e polarizzerà le già accentuate differenze sociali esistenti, soprattutto quelle tra città e aree rurali, ancora caratterizzate da grande povertà e anche da una maggiore diffusione del sentimento religioso, che appare un fattore di coesione sociale in una difficile situazione economica e sociale.

Nel caso di un insufficiente tasso di sviluppo economico, in un ambiente rurale si verifica, infatti, una bassa diversificazione sociale e professionale e un concomitante fenomeno di impoverimento della popolazione, condizioni che l’ideologia islamica può sfruttare per esercitare una maggiore attrattiva. Ciò, ovviamente, assume ancora maggiore importanza nel caso degli Stati centroasiatici e caspici (ad esempio l’Azerbaijan) che possono avere importanti introiti derivanti da ingenti risorse energetiche che finiscono però, almeno in parte, per arricchire una ristretta elite governativa e tecnica e non anche il resto della popolazione, mancando di dotarla perciò di beni e servizi statali a essa quanto mai necessari per il suo armonioso sviluppo sociale e civile. Si tratta quindi di vedere se gli ingenti proventi derivanti dall’export di petrolio e gas non si rivelino, paradossalmente, controproducenti per lo sviluppo di un Paese, cioè non costituiscano ciò che gli analisti chiamano “the oil curse” cioè la “maledizione” derivante dal possesso d’ingenti risorse energetiche che impedisce lo sviluppo di una società, sufficientemente libera politicamente e in campo economico, perché lo sviluppo è guidato essenzialmente dallo Stato.

S’instaura quindi in alcuni casi una cultura economica non sana che spesso finisce per contare unicamente sulla grande disponibilità di risorse energetiche per finanziare un’economia parassitaria, dedita al consumo di beni di lusso, all’esportazione di capitali e poco interessata alla diversificazione delle attività economiche. Le risorse energetiche, se non gestite correttamente, come spesso è accaduto, possono quindi dare luogo a due scenari: una stasi politica caratterizzata da forte autoritarismo e in alcuni casi una polarizzazione delle ricchezze che ha per conseguenza una crescita esponenziale del radicalismo islamico.

Questo conservatorismo è generalmente appoggiato dalla Russia che vede con sospetto qualsiasi svolta liberale, o come si suole dire più specificamente, qualsiasi “rivoluzione arancione” all’interno dello spazio post-sovietico che miri a destabilizzare lo status quo, mentre gli Stati Uniti spingono generalmente verso un’evoluzione in senso liberale dei governi locali, purché ciò non danneggi in una qualche misura gli interessi strategici od economici degli Stati Uniti stessi. Proprio l’ambiguità del messaggio finisce spesso per inficiare la validità delle policies che hanno per oggetto la salvaguardia dei diritti umani nella regione centroasiatica. E’ evidente anche che la mancanza di una reale pressione verso un cambiamento in senso democratico da parte della Russia finirà, sul medio e lungo periodo, per fare avanzare le forze fondamentaliste islamiche, poiché è proprio la palese mancanza di democrazia e di moralità nella gestione del denaro pubblico a indignare l’opinione pubblica e quindi a provocare la crescita dei movimenti islamici che provengono soprattutto dal Pakistan e in parte dall’Uzbekistan e dal Tagikistan. A sua volta la repressione dei movimenti islamici finisce a sua volta per legittimarli poiché il governo non è in grado di accogliere le richieste di giustizia sociale, in alcuni casi assai legittime, che provengono dalla popolazione.

La progressiva islamizzazione della vita sociale e culturale ha quindi influito profondamente sul piano culturale e al tempo stesso ha causato danni sul piano economico perché ha eliminato anche i residui dell’educazione scientifica sovietica per sostituirli con un’educazione religiosa che comprende pressoché esclusivamente i precetti religiosi coranici. Per una sostenuta crescita economica ci sarebbe invece bisogno di una cultura economico-giuridica e scientifica moderna, cioè una netta divisione tra Stato e religione. La graduale introduzione dell’Islam, specialmente nella sua versione più tradizionalista, intacca quindi anche il capitale umano essenziale per la crescita economica e in particolare le donne, che si trovano preclusa una carriera professionale e sono invece relegate al più tradizionale ruolo di madre e di moglie.

L’Islam diviene quindi per alcuni governi centroasiatici, a livello propagandistico, un sostituto della crescita economica e al tempo stesso una giustificazione della mancanza della stessa. Il nesso tra mancata crescita del benessere della popolazione e diffusione del radicalismo islamico è perciò assai evidente. L’assistenza economico-politica dell’Occidente, sia diretta sia attraverso le Organizzazioni internazionali, come ad esempio l’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa che, grazie alla sua struttura agile, inclusiva, cioè non percepita dagli Stati centroasiatici come “occidentale”, si rivela spesso determinante, soprattutto per quanto riguarda il graduale apprendimento delle regole democratiche da parte delle giovani repubbliche centroasiatiche e nella mediazione e risoluzione dei conflitti etnici e a livello regionale ed internazionale. Ciò può quindi in questo caso dimostrarsi risolutiva per ostacolare la crescita del fondamentalismo islamico nella regione, molto di più di generiche raccomandazioni dell’Unione Europea sul rispetto dei diritti umani, che producono irritazione presso i governi locali e restano spesso per questo motivo inascoltate.

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