Afghanistan: il Paese dimenticato da Allah.

Afghanistan: il Paese dimenticato da Allah.

L'ambasciatore Roland Kobia

L’ambasciatore Roland Kobia

L’Afghanistan è dimenticato da Allah e dalla politica internazionale, per il momento almeno. Quale è la situazione attuale in quel lontano Stato, buffer state geopolitico da sempre?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

L’Afghanistan è in una condizione di guerra continua da oramai più di un trentennio, e le ragioni che la giustificano sono in ciclica mutazione. In tale caos, instabilità e insicurezza, si rafforza l’abitudine a risolvere i contenziosi con la violenza.

Un Paese che, passato dall’invasione dell’Armata Rossa nel 1979 e attraverso una sanguinosa guerra civile, lentamente si è trasformato in un rifugio per i vari gruppi terroristi.

Anche se la Nato ha terminato la missione International Security Assistance Force – ISAF alla fine del 2014, l’Afghanistan è ancora un Paese militarizzato.

La situazione generale dell’Afghanistan non ha registrato tangibili segni di miglioramento nei settori chiave, anzi sembra addirittura peggiorata, dalla sicurezza all’economia.

Metà dell’impervio territorio afghano è ancora controllato dai Talebani mentre, e questa è una buona notizia, l’Isis, ostile sia al Governo e sia ai Talebani, è sempre più in regressione anche nelle sue roccaforti nelle province orientali di Nangarhar e Kunar.

La situazione economica è complicata, con l’agricoltura e l’allevamento che occupano più della metà della popolazione e un’industria ancora embrionale ed obsoleta.

Il mancato sviluppo economico dell’Afghanistan è anche causa della difficile conformazione morfologica del terreno che non agevola l’estrazione di una discreta quantità di minerali presenti nel sottosuolo, cui si aggiunge la desertificazione, aggravata dai lunghi periodi di siccità.

Nonostante ciò, ci sono importanti allevamenti di ovini, bovini, suini e, soprattutto, di caprini per il commercio del cashmere; significativa anche la produzione dei cereali e della frutta.

L’Afghanistan dipende fortemente dagli aiuti internazionali: Stati donors ed agenzie internazionali si sono impegnati a versare miliardi di dollari che vanno ad aggiungersi ai 150 miliardi già donati nel corso degli ultimi tre lustri.

Sul terreno afghano permangono più di 12 mila soldati stranieri, provenienti da 39 Paesi e in maggioranza americani, inquadrati in una nuova missione Resolute Support, sempre a guida Nato.

Gli obiettivi di questa nuova missione, depotenziata in uomini e materiali rispetto alla precedente (ISAF contava più di 58 mila militari), sono sempre gli stessi: la lotta al terrorismo e l’addestramento delle forze di sicurezza afghane.

La lotta al terrorismo è la lotta al jihadismo, incarnato principalmente dai Talebani, da Al Qaeda e dall’Isis.

L’addestramento, la consulenza e l’assistenza alle forze di sicurezza locali hanno invece l’obiettivo d’elevare lo standard, certamente non ancora adeguato per assolvere un compito così impegnativo, dell’Afghan National Army, dell’Afghan National Air Force e dell’Afghan National Police.

E’ di tutta evidenza che alle forze armate afghane manca una cultura militare moderna e, senza l’ombrello protettivo degli occidentali, anche un’adeguata capacità strategica ed operativa. Si tratta di forze armate improntate al vecchio stampo sovietico: numericamente rilevanti (più di 300 mila soldati), ma scarsamente efficienti.

Il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg ha dichiarato che l’Afghanistan non rimarrà da solo, e l’impegno dell’Organizzazione Atlantica proseguirà nel lungo periodo affinché il Paese non ritorni più a essere il rifugio dei terroristi, Talebani in primis.

Terroristi che, per finanziarsi, possono contare sui ricchi introiti provenienti dalla coltivazione dell’oppio.

L’Afghanistan è il maggior produttore al mondo di oppio, con più di 200 mila ettari di terreno coltivato a papavero, concentrati nel sud del Paese, in particolare nelle regioni di Helmand, Kandahar, Daykundi, Zabul e Uruzgan.

Da queste regioni l’oppio, attraverso una fitta rete di narcotrafficanti, è esportato e venduto in Russia, passando dal Tagikistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan, in tutta Europa attraverso la rotta balcanica con tappe in Iran e Turchia, ma anche in Cina, nel sud-est asiatico e finanche in Australia.

Va da sé che, in una situazione di diffusa povertà, i contadini afghani in mancanza di valide alternative non hanno mai rinunciato a coltivare l’oppio, certamente molto più redditizio delle patate e delle carote.

D’altronde, in Afghanistan vale l’equazione che, tanto più oppio si coltiva, tanto più denaro si ricava per acquistare le armi, e tante più armi si possiedono, tanto più facile è il controllo del territorio.

Un recente studio delle Nazioni Unite ha calcolato che i Talebani, ogni anno, dal mercato della droga guadagnano in media una somma non inferiore ai 3 miliardi di dollari.

Che cosa fare allora per cercare di aiutare questo sfortunato Paese che solo nel primo semestre di quest’anno ha già avuto quasi 2 mila morti tra civili e militari, da sommare ai 110 mila che hanno perso la vita negli ultimi 15 anni, senza dimenticare i 3 milioni di profughi?

Il sostegno finanziario deve per forza continuare, magari più focalizzato su obiettivi economici e sociali, così come quello politico da parte dei Paesi più importanti, dell’Onu e dell’Unione Europea.

A proposito d’Unione Europea, è recente la nomina del nuovo inviato speciale in Afghanistan Roland Kobia per promuovere, come affermato dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, il contributo europeo al “…conseguimento di una pace duratura e della prosperità in Afghanistan e nella regione”.

L’attenzione degli occidentali per questo Paese deve pertanto proseguire, così come l’attenzione mediatica non deve scemare. Un interesse che deve andare al di là del tornaconto economico, senza dimenticare l’importanza geopolitica e strategica dell’Afghanistan, crocevia tra l’Asia Centrale, il Medio Oriente, l’India e finanche la Cina.

E’ altresì necessario affinare l’approccio alla contro-insorgenza, la cosiddetta counter-insurgency, da parte delle forze di sicurezza afghane e straniere, nella lotta alla guerra asimmetrica delle organizzazioni terroristiche per assicurarsi la piena fiducia di una popolazione logorata da anni di conflitto.

Una popolazione che, e ciò non può e non deve sorprendere, sopporta la presenza dei Talebani che, soprattutto nelle micro realtà dei villaggi, meglio garantiscono l’ordine e la sicurezza.

Fondamentale è cercare di sensibilizzare la parte sana della classe dirigente locale, non corrotta e non in lite, a investire e sviluppare dei programmi a lungo termine in settori sinora completamente trascurati tra cui la sanità, l’educazione, le infrastrutture e i trasporti.

Di certo le schermaglie tra gli uomini forti del Paese, il Presidente Ashraf Ghani e il suo antagonista Abdullah Abdullah, paralizzano l’azione del Governo e screditano l’attività istituzionale. E intanto gli attentati kamikaze, soprattutto a Kabul, continuano a mietere vittime innocenti.

E’ ora di concentrarsi sui 30 milioni di afghani, un pot pourri di razze (in maggioranza Pashtun ma anche Tagiki, Hazara, Uzbechi ecc…), che hanno un’aspettativa di vita ed un tasso di alfabetizzazione bassissima, con la componente femminile maggiormente discriminata e penalizzata rispetto a quella maschile.

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Il Segretario generale della Natp Jens Stoltenberg

Il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg

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