LA MIGRAZIONE E LA LIBIA.2

Fabrice Leggeri

Fabrice Leggeri

La Libia e l’Europa: fatti lucidamente analizzati…la situazione sembra essere senza ritorno…mutazione epocale irreversibile, come scriveva OA nel 2016.

Il Direttore Scientifico: Maria Gabriella Pasqualini                                                                                                                                                                       

  1. I VERTICI DI TALLIN E VARSAVIA.

Nel luglio corrente, i vertici di Tallinn e Varsavia rendono difficile la situazione dell’Italia.

A Tallin i ministri dell’interno dell’Unione europea alzano nei confronti di Roma un vero e proprio muro.

L’Europa dichiara di non voler condividere i migranti che sbarcano in Italia e invita il governo italiano a chiudere i suoi porti alle navi delle ONG e a quelle straniere se intende farlo.

La posizione del commissario EU all’Immigrazione, Dimitri Avramopoulos, esclude, nonostante le continue richieste italiane, di poter cambiare il mandato della missione europea Triton.

Successivamente, il commissario rinvia all’imminente vertice di Varsavia, nella sede del Consiglio di gestione di “Frontex” (Agenzia europea per le frontiere), le richieste italiane.

Nel frattempo, a Tallin la situazione peggiora: Belgio, Germania, Olanda e Spagna dichiarano la loro indisponibilità ad aprire i rispettivi porti.

Al ministro italiano non resta che ripetere il Piano d’azione varato dalla Commissione europea, che propone il rifinanziamento del Fondo per l’Africa al fine di sostenere i Paesi d’origine e di transito dei migranti e, in particolare, la Libia, dove è previsto a Tripoli un centro di coordinamento dei salvataggi in mare.

Sempre in Libia, insieme a Egitto e Tunisia, si dovrebbero costruire aree di ricerca e salvataggio (Sar) e contestualmente intensificare i rimpatri.

Per quanto riguarda il codice di condotta per le ONG, si è fatto rinvio al successivo vertice nella capitale polacca.

A Varsavia, la prima sorpresa è che il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, in risposta a una dichiarazione congiunta inviata lo scorso 5 aprile dalla Spagna, ribadisce che “Frontex non ha mai accusato alcuna ONG”.

Il riferimento è all’intervista rilasciata da Leggeri al quotidiano tedesco Die Welt. Questa ha dato il via alla campagna mediatica contro le organizzazioni umanitarie (che prestano soccorso al largo della Libia), con la collaborazione del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro imbeccato da Frontex, da esponenti di un partito italiano che hanno attaccato le associazioni e attualmente il governo italiano che si accinge a redigere un nuovo codice di condotta per le navi in soccorso dei disperati.

Quindi, dopo 5 mesi di accuse infamanti contro ONG che salvano esseri umani nel Mediterraneo, sul tavolo della Commissione per le libertà civili – che l’11 si riunisce a Bruxelles – c’è non solo la lettera di Leggeri alla Spagna ma anche la sua lettera di risposta arrivata il 21 giugno scorso ai parlamentari della sinistra europea: “Salvare vite umane è il primo dovere e obbligo di tutte le navi in mare, ed è sempre stata la priorità di Frontex … Per soccorrere i migranti nel Mediterraneo centrale, Frontex lavora fianco a fianco con Operazione Sophia, Guardia costiera italiana, mercantili e ONG”.

Sta di fatto che ormai, dopo mesi di accuse insinuazioni e mezze smentite, si attendono gli approfondimenti preparati per imporre il nuovo codice di condotta per le ONG, proposto dal ministro italiano alla Commissione europea.

In realtà, il codice complica l’attività delle ONG con: divieto d’ingresso nelle acque libiche; obbligo di spegnere i trasponder di bordo; divieto di effettuare trasbordi di migranti su altre navi italiane e/o che partecipano alle missioni europee; obbligo di avere a bordo un agente di polizia giudiziaria.

Sempre a Varsavia, a fronte della richiesta italiana di coinvolgere altri Stati che partecipano all’operazione Triton, al termine della serata Leggeri promette di “istituire un gruppo di lavoro per valutare ulteriormente la situazione e redigere un nuovo piano operativo che coinvolga anche le ONG”.

Di fatto, Belgio, Olanda, Francia (che conferma la sua sospensione da Schengen fino al prossimo novembre il rifiuto di accoglienza di clandestini e migranti economici), Germania, Grecia (impegnata nell’operazione Poseidone) e Spagna (operazione Indalo) confermano il loro disimpegno.

Va precisato che di fatto, l’operazione Triton nasce fra il 2014 e il 2016 su richiesta italiana per sostituire la missione tutta italiana “Mare Nostrum”, ritenuta troppo costosa, chiedendo che gli sbarchi avvenissero tutti sulle nostre coste e rendendosi disponibile a rinviare i clandestini, dopo i controlli, nel Paese di appartenenza e trasferire i profughi nei Paesi richiesti.

In realtà il risultato è che, mentre i Paesi europei lasciano sola l’Italia, fanno l’accordo con la Turchia per chiudere le rotte dei Balcani destinando ad Ankara 6 miliardi di euro, mentre all’Italia solo 200 milioni con la promessa di fornire un contributo economico anche per il governo libico, che di fatto non esiste.

Tra i vertici di Tallinn e Varsavia, ancora di Africa s’è parlato alla Farnesina, nel corso del vertice con i Paesi di transito dei migranti alla presenza dei ministri degli esteri di alcuni Paesi europei e rappresentanti dei governi di Libia, Niger, Tunisia, Egitto, Ciad, Etiopia e Sudan.

L’obiettivo è spostare l’azione dei Paesi di transito a Sud della Libia in modo da diminuire il numero dei migranti che vi fanno accesso.

In merito, l’Italia, in attesa dei 200 milioni di euro promessi dall’EU, s’impegna a investire 31 milioni di euro: 10, per il rafforzamento delle frontiere meridionali della Libia; 18, da destinare alle “Organizzazioni internazionali per le migrazioni” (Oim) per i rimpatri volontari sempre nel Paese nordafricano; 3, all’ ”Agenzia ONU” che si occupa si combattere il traffico di esseri umani” (Unodc).

Il 14 c.m., a Bruxelles la diplomazia italiana solleva al “Comitato politico di sicurezza” (Cops) una riserva concernente la missione Sophia: in sostanza il governo vuole che i migranti salvati dai vascelli europei nel canale di Sicilia vengano sbarcati anche in altri porti, diversi da quelli italiani.

Le 6 imbarcazioni che compongono Sophia provengono da Italia, Francia, Spagna, Germania, Belgio e Regno Unito.

Originariamente pensata per entrare nelle acque libiche per bloccare i flussi, il progetto Sophia non è mai stato finalizzato per la situazione caotica della Libia.

In conseguenza gli europei hanno applicato a Sophia il piano operativo di Triton, la missione Frontex.

Il mandato di Sophia sarebbe dovuto essere rinnovato il 16 p.v. a Bruxelles dai ministri degli esteri ma l’obiezione italiana bloccherà tutto.

  1. L’ACCORDO DI DUBLINO

Per far saltare l’Accordo di Dublino, l’Italia punta sulla Corte europea di Giustizia e sulla sentenza attesa il 26 luglio c.m.

Stipulato il 15 giugno 1990, da 12 Stati membri dell’Unione Europea e modificato l’ultima volta nel 2013, il Trattato di Dublino stabilisce che i cittadini extracomunitari in fuga dai Paesi di origine perché in guerra, o perseguitati per motivi religiosi, possono fare richiesta di asilo nel primo Paese membro dell’UE in cui arrivano.

Non è dunque permesso fare più domande di asili contemporaneamente.

Obiettivo è rivedere l’interpretazione del concetto di “ingresso illegale” che consente ai riottosi partner europei di alzare muri e chiudere porti e frontiere lasciando sola l’Italia.

Se la Corte di Lussemburgo imprimerà la svolta sperata da Roma, Francia, Austria e altri Stati membri EU non potranno più rifiutarsi di raccogliere i migranti che puntano a varcare i confini dell’Italia.

Le due cause che andranno a sentenza non riguardano direttamente l’Italia ma controversie fra Croazia e Slovenia in un caso e Croazia e Austria nell’altro.

In ogni caso vi saranno ricadute di portata generale, nel senso che potrà essere riconosciuta all’immigrato la possibilità di chiedere asilo non già esclusivamente al Paese di primo approdo, ma al Paese nel quale il migrante desidera vivere.

E’ necessario che l’immigrato non abbia attraversato illegalmente o irregolarmente i confini di uno Stato membro, altrimenti sarà solo il Paese d’approdo a doverlo gestire.

Ci sono buone possibilità che la Corte accolga i ricorsi.

Pochi giorni addietro, l’Avvocata generale Eleonor Sharpston, britannica, ha presentato le sue conclusioni in cui fra l’altro sottolinea di “condividere la posizione italiana circa l’interpretazione dell’art.13 del Regolamento di Dublino alla luce della Convenzione di Ginevra”.

Nel frattempo, il ministro dell’interno italiano vola il 13 luglio a Tripoli per parlare dei flussi migratori con il presidente Sarraj e i 13 sindaci del Fezzan e della Tripolitania che sono maggiormente interessati dal passaggio dei migranti.

Ai rappresentanti degli enti locali il ministro Minniti promette aiuti per la ricostruzione del tessuto amministrativo distrutto da oltre sei anni di guerra civile in cambio di una collaborazione per fermare il flusso dei migranti diretti all’Europa.

In merito, il sindaco della città di Murzuk, nel Fezzan, spiega che all’Italia chiedono aiuto per la sicurezza dei confini meridionali tramite le tecnologie che hanno.

Di fatto, a fronte dell’instabilità della Libia, Roma ha già cominciato a spostare la sua azione più a Sud, cercando di stringere accordi con i Paesi del Sahel e in particolare con Ciad e Niger, due dei principali punti di transito dei migranti.

Ma finché questi accordi non si concretizzeranno, all’Italia non resta da fare altro che continuare a investire risorse nel Paese nordafricano.

Sarraj, consapevole della sua debolezza, alla vigilia del meeting, minaccia di bombardare navi degli scafisti facendo affidamento ai MIG in possesso delle milizie di Misurata, per poi fare un passo indietro per cui l’intera comunità internazionale non ha dato peso a quelle dichiarazioni.

Anche per questo, a Tripoli con il ministro Minniti ha parlato anche il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, che ha sottolineato come i sindaci locali siano determinati a dare maggiore stabilità al Paese e a rilanciare le economie locali.

I sindaci hanno presentato una lista di richieste: aiuto a riorganizzare le polizie locali; rifornitura di depuratori per l’acqua; ricostruzione degli uffici anagrafici e delle scuole.

In merito alla sicurezza del confine con il Niger, l’Italia punta alla creazione di una Guardia costiera libica formata dalle stesse popolazioni del Fezzan e pagata con fondi europei, come già avviene per la Guardia costiera libica.

A latere, emerge un’inaspettata buona novità.

Il presidente francese, parlando il 14 c.m. a Trieste, a margine del vertice sui Balcani occidentali annuncia di “volere associare l’Italia alla nostra azione in tutta la zona del Sahel”, dove la Francia dispone di proprie truppe e dove ha contribuito alla formazione di una forza comune tra i cinque Paesi dell’area, aggiungendo: “Porteremo avanti azioni comuni per cercare di stabilizzare la zona e fermare i flussi di migranti”

  1. AMNESTY

Sugli eventi di Tallin e della Farnesina l’organizzazione umanitaria Amnesty, nel suo rapporto, evidenzia che la strategia italiana ed europea di supportare con denaro, uomini e mezzi della Guardia costiera libica per salvare e intercettare le imbarcazioni dei migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale non può essere efficace, come dimostra il record di 2.070 morti in mare in questi mesi del 2017.

Secondo Amnesty, da un lato i profughi rischiano la vita in mare nel tentativo di raggiungere la sponda europea e dall’altro vengono ricondotti in Libia dove li attende un trattamento disumano fatto di torture e stupri fino ad essere ricattati e venduti come schiavi sessuali o per lavori abbrutenti.

Finanziare e addestrare la Guardia costiera libica – come è già stato chiarito dall’ONU e da Human Right Watch oltre alle ONG che si occupano di salvataggi in mare – è una decisione pericolosa perché la Guardia costiera libica:

  • è rinomata per i metodi violenti con cui tratta i migranti;
  • è collusa con i contrabbandieri di esseri umani.

Iverna McGowan, responsabile delle relazioni internazionali di Amnesty, dichiara che “Lo stato attuale della Guardia costiera libica è assolutamente vergognoso….. la responsabilità di ciò che succede alle persone che si rivolgono all’Europa per scampare alla tortura e alla morte è dell’esecutivo europeo e non certo delle ONG che meritoriamente svolgono un’attività di supplenza”.

Dal suo canto, Amnesty ribadisce che servirebbe “un’operazione umanitaria multinazionale sotto il controllo dell’Italia, una sorta di missione Mare nostrum allargata e finanziata direttamente dalla Commissione europea….o almeno condizionare i finanziamenti alla Libia al rispetto di standard umanitari e al trasferimento di tutti i migranti salvati in mare su navi attrezzate per i soccorsi”.

E’ in questo quadro che dalla Libia arriva una critica alla strategia del ministro dell’interno italiano di potenziare il ruolo della Guardia costiera libica.

La critica proviene dal colonnello Ahmad al-Mismari, portavoce della milizia LNA al comando del generale Khalifa Haftar, nell’ intervista di “Agenzia Nova”.

Il portavoce dichiara: “Per noi l’Italia non è un nemico, ma crediamo che le considerazioni di alcuni italiani siano irrealiste e di parte. Riteniamo che l’Italia continui a trattarci come un’ex colonia, e non vogliamo un simile trattamento”.

Il colonnello sottolinea, inoltre, che : “Non una singola operazione di emigrazione illegale è avvenuta nelle aree sotto il controllo dell’LNA, dal valico di Musaid con il conflitto con l’Egitto fino a Sirte. I migranti illegali partono dai porti di Misurata, Tripoli, Sabrata e Zuwara la cui autorità sono sostenute dall’Italia, cioè dal governo Serraj di Tripoli.

Mismari mette in discussione anche l’operato dell’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, già dichiarato “persona non grata” dal parlamento di Tobruk e propone all’Italia di cambiare il rappresentante e rifornire di aerei, droni e satelliti le truppe di Haftar per controllare le frontiere e “combattere la rete dei trafficanti”.

  1. L’AREA SUBSAHARIANA

Nel Niger, Agadez è il miraggio di salvezza per migliaia di migranti che fuggono da guerre, carestie, fame, disperazione, violenza e abusi.

Recentemente, il consiglio regionale di Agadez ha lanciato l’allarme alla comunità internazionale e al governo del Niger del dramma dei migranti che a dozzine vengono trovati morti nel deserto del Sahara, abbandonati dai passeur lungo il viaggio sulla rotta del Mediterraneo centrale che da Agadez porta verso la Libia e le coste europee, soprattutto italiane.

Il deserto di Ténéré nel Sahara centromeridionale sta diventando “un cimitero a cielo aperto” soprattutto da quando nel 2015 e 2016 il governo di Niamey ha introdotto una legge e adottato misure repressive contro chi trasporta migranti da Agadez verso i confini del Niger.

Questi provvedimenti hanno indotto i passeur ad abbandonare le vie tradizionali di attraversamento del deserto e tentarne di nuove, più pericolose.

Ad Agadez, spiega Mohamed Anako, presidente del consiglio regionale, “la migrazione è sempre stata la principale attività economica da quando il turismo si è fermato, ed è stata sempre considerata un’”attività lecita”.

Amnesty International nel suo rapporto evidenzia “il fallimento delle politiche europee nel Mediterraneo centrale” e denuncia che “tre migranti su cento muoiono durante la traversata del Mediterraneo e che se dal 2015 a oggi si è registrato l’incremento di morti più alto, il 2017, si stima, sarà l’anno record di vittime del mare.

Lo specchio della realtà elenca i fattori che fanno del Niger sia un Paese di origine sia di transito e destinazione: l’instabilità interna e nei Paesi limitrofi del Niger (Nigeria, Libia e Mali), dove sono attivi gruppi terroristici come Boko Haram, Al-Sharia, Aqim e Mujao; siccità periodiche e alluvioni, l’istituzione di una zona di libere circolazioni di merci e persone degli Stati dell’ ”Ecowas” (Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale).

La caduta del regime di Gheddafi nel 2011 ha aperto le porte ai flussi dei migranti, il cui dramma ha radici antiche, essendo l’altra faccia delle politiche dei Paesi europei che reiterano secolari piani di sfruttamento delle risorse africane e corruzione dei governi locali, a svantaggio della comunità.

Il Niger è il quarto produttore mondiale di uranio e, per contrasto, uno dei Paesi più povero del mondo: al 187esimo posto nell’indice di Sviluppo Umano 2016; circa il 40% vive al di sotto della soglia di povertà, due milioni di persone necessitano di assistenza alimentare.

L’uranio non ha arricchito la popolazione del Niger ma ha fatto di AREVA – per l’87% di proprietà dello Stato francese – uno dei maggiori colossi di energia atomica e della Francia (che dipende dal nucleare per tre quarti della sua elettricità) il migliore alleato militare nella lotta a Boko Haram.

Ci sono voluti due anni di negoziati difficilissimi affinché nel 2014 AREVA rinegoziasse un accordo con il governo di Niamey che impone al colosso francese di pagare il 12% di royalties contro il 5,5% precedente e che dovrebbe portare nelle casse del Niger circa 40 milioni di dollari annui, cioè briciole.

In cambio, il prezzo pagato dalle comunità locali e dell’ambiente è incommensurabile.

Il livello di radioattività nell’acqua (distribuita alla popolazione) intorno alle cittadine di Arlit e Akokan, a pochi chilometri dalle miniere di AREVA, supera i limiti ammessi dall’Organizzazione Mondiale della sanità.

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Dimitri Avramopoulos

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