Arrivano migranti da Nigeria, Gabon, Senegal…poco si sa dei massacri che stanno accadendo in una regione della Repubblica democratic del Congo…
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
Una terribile ondata di violenza attanaglia la regione congolese del Kasai. I media parlano di genocidio.
L’odio che cova
Tutto comincia mesi fa, quando il presidente Kabila, alla fine del suo mandato, rifiuta di lasciare il potere e nel paese si verificano numerosi scontri. Il Kasai, zona pacifica fino a quel momento ma ostile al potere centrale, zona mineraria e difficilmente accessibile se non su invito delle autorità locali, nonché regione di nascita dello storico capo dell’opposizione, Etienne Tshisekedi, manifesta anch’essa il proprio malcontento. Le tensioni, però, si inaspriscono quando Jean-Prince Mpandi, capo tradizionale della famiglia Kamwina Nsapu, è ucciso nella sua abitazione il 12 agosto. L’uomo, accusato dal governo centrale di creare delle milizie, aveva già subito incursioni e violenze su di sé e sulla propria famiglia e per questo aveva incitato i suoi seguaci a lottare contro Kinshasa. Il suo successore però non è riconosciuto come tale dal governatore della provincia e dal ministro degli Interni. Il motivo del rifiuto risiede nella non iscrizione a un partito presidenziale. Comincia allora una campagna per contrastare le autorità governative lo scorso dicembre.
Gli scontri si inaspriscono, nuove milizie si formano, violenze vengono commesse tanto dalle FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo) quanto dai gruppi ribelli. Nel mese di marzo si contano centinaia di morti e migliaia di sfollati. Si parla di fosse comuni ed emergenza umanitaria. E’ allora che le Nazioni Unite decidono di inviare due esperti per indagare sulle violenze in corso.
L’oltraggio alle Nazioni Unite
I due ispettori, l’americano Michael Sharp e la svedese Zaida Catalan, si recano nella zona per condurre indagini sul conflitto e sulle ragioni dello stesso, ma vengono però sequestrati il 12 marzo sulla strada Bukonde-Tshimbulu nei pressi del villaggio Ngombe, nel Kasai Centrale, e i corpi senza vita ritrovati tre settimane dopo in una fossa comune. La donna era stata decapitata. Nei giorni precedenti erano stati ritrovati anche i cadaveri decapitati di 40 poliziotti caduti in un’imboscata tesa dai Kamwina Nsapu. Sei poliziotti, invece, erano stati risparmiati perché parlavano la lingua locale. La MONUSCO (Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Congo) aveva rafforzato la propria presenza già nel mese di febbraio mentre l’ONU comunicava la necessità di aprire un’inchiesta e stabilire eventuali sanzioni ma stati come il Sudafrica si erano opposti. Gli scontri continuano sempre più spesso a danno della popolazione civile. L’emergenza umanitaria esplode, il numero di morti e sfollati aumenta. Secondo l’OCHA (l’Ufficio di Coordinamento per gli Affari Umanitari) e l’Unicef il numero di sfollati sale a un milione nel mese di maggio, mentre circa 4000 sono i bambini separati dai genitori, circa 2000 reclutati dalle milizie, più di 300 quelli feriti. Si contano migliaia di morti tanto che si parla ormai di genocidio e la situazione della regione resta tutt’ora gravissima sotto gli occhi della Comunità Internazionale.
Mandanti e beneficiari
Nel mese di aprile la famiglia Kamwuina Nsapu annuncia il nome di Jacques Ntuma Kabeya come successore. L’uomo risulta essere un ex-collaboratore di Clément Kanku, ex-ministro successivamente accusato di aver istigato le rivolte nella regione dal New York Times. Secondo il giornale esisterebbero delle registrazioni telefoniche a prova di ciò ritrovate nel computer della defunta esperta ONU. Di sicuro, i massacri nella regione diamantifera fanno comodo al governo di Kinshasa per giustificare ogni rinvio elettorale e conservare lo status quo.
Per quel che sarà possibile continueremo a monitorare la situazione in Congo.
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