LA CRISI TRA IL QATAR E L’ARABIA SAUDITA: QUESTIONE REGIONALE O MONDIALE?

LA CRISI TRA IL QATAR E L’ARABIA SAUDITA: QUESTIONE REGIONALE O MONDIALE?

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E’ difficile comprendere la reale ragione della crisi fra Qatar e Arabia Saudita né quali sviluppi avrà. Il mondo arabo musulmano ha sue dinamiche interne che non sempre si svelano al primo impatto.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

 La rottura delle relazioni diplomatiche e l’imposizione di sanzioni al Qatar da parte dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, dell’Egitto e del Bahrein ha stupito tutti per la veemenza con cui si è palesata all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, tant’è che lo stesso Presidente americano Donald Trump è stato costretto a rivedere le sue recenti dichiarazioni contro il Qatar (immediatamente strumentalizzate dai sauditi) promettendo il proprio impegno per stemperare la tensione creatasi tra i paesi del Golfo.

Le parole pronunciate dal Ministro degli Esteri saudita Adel Jaber all’indomani del ritiro dei rispettivi ambasciatori, appaiono come una traduzione di quanto dichiarato da Trump nei riguardi di un Qatar finanziatore del terrorismo internazionale.

In particolare, l’accusa è di appoggiare il gruppo palestinese Hamas attivo dal 1987 con la prima Intifada contro Israele, in un crescendo d’aggressività e violenza coincidente con la seconda Intifada tra il 2000 e il 2005.

L’obiettivo principale di Hamas è il ritorno della Palestina alla sua condizione precoloniale con la costituzione di uno Stato palestinese riconosciuto dalla Comunità internazionale; obiettivo ovviamente avversato da Israele, e non solo.

Israele che, da subito, si è schierato apertamente con la posizione saudita, unitamente alla Mauritania, alle Maldive e al Senegal e, con diverse gradazioni, anche lo Yemen, la Libia (quella del governo non riconosciuto di al Baida), la Giordania e Gibuti.

Va da sé che, nel gioco delle parti, l’Iran e la Turchia non potevano rimanere silenti, se non altro per controbilanciare la posizione di forza del vero comune nemico: Israele.

Una comunanza d’intenti che potrebbe prefigurare la nascita di una sorta di alleanza strategica tra una Turchia sunnita e un Iran sciita, sino a oggi nemmeno lontanamente ipotizzabile.

Tra i due paesi quello che è apparso più deciso è stato la Turchia con il perentorio annuncio dell’invio di propri soldati nella nuova base militare in Qatar, inaugurata nel 2014 e che può ospitare fino a 5 mila militari.

Il 5 giugno scorso l’Arabia Saudita annuncia la rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar, otto giorni dopo, il 13 giugno, viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale turca, la Resmi Gazete, l’entrata in vigore della legge che ratifica l’accordo tra la Turchia e il Qatar per il potenziamento della base militare.

Tale accordo era stato concluso ad Ankara nel mese di novembre dello scorso anno con l’obiettivo, più volte ribadito dal Ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, di garantire la sicurezza di tutta la regione del Golfo Persico.

Resta da capire se la decisione turca d’inviare soldati in Qatar dev’esser letta in chiave anti-saudita, oppure (più probabile) come una manovra per rassicurare Doha che da qualche tempo è vicina alle posizioni di Ankara: entrambe non considerano Hamas e i Fratelli Musulmani delle organizzazioni terroristiche, entrambe hanno supportato la rivoluzione egiziana e condannato la presa del potere da parte del generale Abdel Fattah el Sisi, entrambe sostengono le milizie che combattono in Siria contro il Presidente Bashar el Assad.

Ciò che emerge, da parte della Turchia, è una sorta di “sindrome d’accerchiamento”, la paura di divenire in breve tempo il secondo obiettivo, dopo il Qatar, dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati.

E’ utile ricordare che nella periferia della capitale qatarina Doha è presente anche una base militare americana, l’el Udeid, in cui sono stanziati più di 10 mila soldati statunitensi e più di 120 aerei da caccia, con la presenza di una pista lunga circa 4 chilometri (la più lunga tra tutti i paesi del Golfo).

Nel frattempo, se l’obiettivo di Trump era lo smarcamento dalla politica di Obama, è stato pienamente raggiunto, probabilmente pure troppo.

La precedente amministrazione aveva intrapreso delle significative mosse al fine di creare un climate favorevole con alsharq al’awsat, con il Medio Oriente, se non con tutto, almeno con una parte.

Il discorso dal titolo rievocativo A new beginning, pronunciato da Obama a il Cairo nel 2009, doveva segnare l’inizio di una nuova fase meno conflittuale nei rapporti tra due mondi ideologicamente antitetici: gli Stati Uniti d’America ed il variegato universo musulmano.  I risultati sono stati altalenanti e controversi.

Fedele alla sua vision, l’ex Presidente americano nel corso del suo doppio mandato ha sempre mantenuto un atteggiamento distaccato, senza intervenire militarmente nel marasma siriano e senza mostrare la forza contro lo Stato Islamico, se non a supporto dell’esercito regolare iracheno.

Per Obama era importante non creare il terreno fertile per una nuova edizione, più violenta e meno gestibile, di quanto avvenuto anni prima in Afghanistan contro i Talebani e in Iraq verso il regime di Saddam Hussein: due interventi laceranti finanziariamente e, soprattutto, in termini di vite umane.

Non pago, passo dopo passo il Presidente americano ha ripreso il filo del dialogo con la Persia degli Ayatollah, interrotto sul finire degli anni settanta ai tempi dell’occupazione dell’ambasciata statunitense a Teheran con il sequestro per 444 giorni del personale diplomatico da parte di un gruppo di studenti iraniani.

Il diffuso antiamericanismo, presente ancor oggi, fu alla base della “crisi degli ostaggi” e determinò la fine della carriera dell’allora Presidente democratico Jimmy Carter, criticato in patria per la gestione della crisi e avverso nel mondo arabo per aver dato rifugio allo scià Mohammed Reza Pahlavi, gravemente ammalato e in fuga dal nascente regime di Ruhollah Khomeyni.

Carter e Obama, due presidenti dissimili per origine, estrazione e formazione in cui però, pur avendo agito in epoche contrassegnate da scenari geostrategici diversissimi, si possono cogliere alcune similitudini.

In virtù della regola dell’alternanza al potere, segno distintivo delle nostre democrazie occidentali, nel volgere di qualche giorno si è passati dal A new beginning di Obama al Muslim ban (divieto d’entrata negli Stati Uniti per i cittadini di alcuni paesi islamici), del nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump.

Lo step successivo è stato la sua recente visita in Arabia Saudita e in Israele, con il successivo annuncio di una brusca frenata delle relazioni con l’Iran, a fatica coinvolto da Obama nella moratoria sul disarmo degli armamenti nucleari.

La visita di Trump è stata foriera di nuovi accordi, soprattutto di carattere militare, con uno stanziamento finanziario a favore dei sauditi di 450 miliardi di dollari spalmato su dieci anni.

A cosa servono questi soldi? Probabilmente per accrescere la capacità militare saudita nel tentativo di avvicinarsi a uno standard israeliano piuttosto che egiziano, più qualità che quantità.

Potrebbe esserci anche la volontà di creare una sorta di “Nato” araba sunnita a guida saudita, magari con il supporto d’Israele, a difesa di un’avanzata sciita da parte iraniana e degli Hezbollah.

Quanto potrà essere importante in prospettiva il ruolo americano? Da valutare nel breve e medio periodo; per ora è simile a quello di uno spettatore interessato che non ha molti margini di manovra, a meno di non sconfessare totalmente le dichiarazioni del Presidente Trump in campagna elettorale (sopportabile per l’opinione pubblica a stelle e strisce) e dei primi mesi di presidenza (molto più grave e difficile da accettare).

Altro spettatore interessato, ma in una posizione molto più confortevole, è la Russia di Vladimir Putin che, ad oggi, è riuscita a mantenere dei buoni rapporti con il Qatar ma anche con l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Iran.

Di certo, lo scenario geostrategico è in evoluzione, e continuerà a esserlo nei prossimi mesi; da capire quanto è vicina una fase di consolidamento delle nuovi posizioni geopolitiche e quanto invece il quadro attuale sia da considerare solo una tappa transitoria destinata a mutare ancora.

Questo scombussolamento di un equilibrio già precario nella regione mediorientale alla fine potrebbe rivelarsi un boomerang per l’Arabia Saudita piuttosto che per il Qatar, con il risultato paradossale agli occhi dei sauditi d’accrescere la credibilità internazionale dell’Emiro Tamim bin Hamad al Thani.

Un’ipotesi del tutto plausibile nel quadro di un appianamento (congelamento) della controversia in essere nell’arco di qualche mese.

Nel caso contrario in cui gli inviti a stemperare la tensione e i tentativi di mediazione alla lunga non sortissero effetto, la possibilità che il problema Qatar si tramuti in un’incognita su scala globale non può essere escluso a priori, se non altro per la particolare e melliflua natura geostrategica della regione.

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Trump in Arabia Saudita

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