Una sintesi degli avvenimenti in Siria nell’ottica della fine dell’era di Bashar Assad. Avverrà mai?
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
Dopo i 59 missili Tomahawk che il 6 aprile colpiscono la base siriana di Sha’yrat – giustificati con un presunto e mai accertato attacco chimico governativo a Khan Sheikun – il 15 maggio gli USA accusano Damasco di aver costruito un forno crematorio per coprire le uccisioni di massa dei detenuti rinchiusi nella prigione di Saydnaya.
L’alto diplomatico USA per il Medio Oriente, Stuart Jones, mostra alcune foto satellitari realizzate in vari anni a partire del 2013 che dimostrerebbero come la struttura sia stata utilizzata dal regime per far scomparire i cadaveri, molti dei quali sarebbero stati gettati in fosse comuni. Il presunto forno crematorio sarebbe stato ricavato modificando un edificio di Saydnaya ma in una foto del gennaio 2015 si vede solo un’area del tetto dell’edificio con la neve in via di scioglimento. Gli fa eco il Dipartimento di Stato affermando che nella prigione verrebbero impiccati circa 50 detenuti al giorno.
La prigione di Saydnaya, a 45 minuti di auto da Damasco, era già finita al centro della cronaca per un rapporto pubblicato lo scorso febbraio dall’ONG Amnesty International. In quello studio, A.I. denuncia l’uccisione da parte del governo siriano di oltre 13 mila persone nei 6 anni di guerra con una media di 20 – 50 detenuti a settimana.
L’accusa è sempre respinta da Bashar al-Assad, che la definisce “falsa notizia”.
Colpisce ancora una volta la tempistica delle “rivelazioni statunitensi” proprio il giorno prima che il governo siriano e i rappresentanti dell’opposizione si avviano a Ginevra per iniziare nuovi incontri diretti. Tempistica che si riproduce il 18 maggio mentre a Ginevra si svolge un nuovo round negoziale sponsorizzato dall’ONU alla presenza dell’inviato De Mistura.
Inoltre, un raid aereo statunitense centra un convoglio di veicoli militari appartenente a milizie sciite alleate di Damasco, a 27 chilometri dal confine con la Giordania, con combattenti di Hezb’Allah, iraniani o iracheni.
Gli USA, sempre pronti a denunziare le presunte stragi di Assad, tacciono invece le loro acclarate uccisioni di civili, sempre presentati come “danni collaterali”.
Dall’insediamento di Donald Trump alla presidenza nel gennaio scorso il numero dei civili uccisi dai raid statunitensi tra Siria e Iraq è il seguente: 450 a febbraio; 1.803 a marzo; 1.193 ad aprile; 977 a maggio. Nelle stesse ore, Daesh – anche grazie all’attenzione americana rivolta più alla Siria che ai suoi jihadisti – uccide e decapita in due villaggi di Hama 52 civili tra cui 15 bambini.
Alla fine di maggio, profughi siriani accampati nel Nord del Libano, al confine con la Siria, preparano una proposta di pace che, grazie al supporto dell’ONG “Operazione Colomba”- i cui gruppi civili di pace si dedicano alle popolazioni colpite da conflitti – arriva a Bruxelles.
Il documento espone come da marzo 2011 tredici milioni di persone siano scappate dal Paese divenuto terreno di combattimento i cui numerosi e interessati attori bombardano ospedali, scuole e abitazioni civili facendo anche uso di armi chimiche ed eseguendo esecuzioni di massa.
E’ richiesta la creazione di zone umanitarie in Siria che siano sotto protezione internazionale che ne vieti l’accesso ad attori armati.
Il vice presidente UE, Frans Timmermans, prepara la proposta ufficiale riferendosi a quanto citato dai profughi, che reclamano anche il diritto di partecipare ai colloqui di pace “affinché si raggiunga una soluzione politica ai negoziati di Ginevra …per la formazione di un governo di consenso nazionale, che rappresenti tutti i siriani, sia fatta giustizia sui responsabili di questi massacri, distruzioni e della fuga di milioni di profughi e venga lasciato spazio a chi vuole ricostruire”.
La proposta ufficiale è già stata presentata a Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ed entro il mese di giugno sarà trasmessa alla Camera dei Deputati.
Tra gli attori interessati alla Siria sono presenti anche gli americani, il cui attuale presidente, Ronald Trump, ha riattivato il 30 maggio un programma delle forze in Medio Oriente.
Si tratta del programma di addestramento della CIA, sospeso dal precedente presidente Barak Obama, perché fallimentare per stessa ammissione statunitense quando, a fine 2015, il generale Austin, capo del comando centrale USA, dichiarò al Senato che erano stati formati solo 4 o 5 soldati nonostante mezzo miliardo di dollari di investimenti.
In realtà, gli obiettivi del neoeletto presidente sono l’Iran e le milizie sciite impegnate sul terreno siriano in difesa di Bashar al Assad.
Nello stesso giorno, la coalizione internazionale a guida americana chiede a Damasco di ritirare i combattenti spostatisi nelle ultime settimane ai confini con Iraq e Giordania, e già bombardati da jet statunitensi il 18 maggio perché nella zona di Badia, dov’è avvenuto il raid aereo, ci sarebbero stati 3 mila combattenti di Hezb’Allah e altre unità legate all’Iran. In realtà è la coalizione a guida USA a violare il diritto internazionale perché la Siria muove le milizie sue e dei suoi alleati nel suo spazio sovrano.
Gli USA hanno come obiettivo anche le Unità di Mobilitazione Popolare, le milizie sciite irachene che stanno combattendo in coordinamento con Baghdad contro Daesh a Mosul. Le milizie si trovano a Ovest di Mosul e si stanno avvicinando al confine con la Siria dove si ricongiungerebbero con i militanti sciiti al di là delle frontiera.
Ma contestualmente, un leader dell’Esercito Libero Siriano, Tlass Salameh, riferisce che è in corso un incremento del sostegno militare da parte degli USA. Già all’inizio di maggio le prime armi sarebbero arrivate e, aggiunge, “arrivano ogni giorno, ma nelle ultime settimane hanno consegnato veicoli militari, missili e veicoli blindati”. Un altro leader, Maghawir al- Thawra, comunica alla Reuters l’arrivo di armi in una base vicino al confine con l’Iraq.
Alle opposizioni, che non sono mai impegnate contro Daesh, viene ordinato di chiudere la frontiera e impedire il passaggio di miliziani sciiti iracheni che possano – dopo Mosul – andare a sostenere il governo di Assad, rafforzando di conseguenza l’asse guidato dall’Iran.
Singolare esempio della strategia bifronte USA.
Invece a maggio, il Pentagono annuncia la consegna di armi pesanti alla federazione di kurdi, assiri, cristiani, arabi e circassi che ormai ha circondato la “capitale” dello Stato Islamico Raqqa e vi stanno entrando. L’ira della Turchia non blocca l’invio. In questo caso il fine politico è la sconfitta di Daesh nella sua roccaforte più simbolica, così da rilegittimarsi nel dialogo politico al momento in mano ad Astana e dunque a Iran, Turchia e Russia.
Nello stesso tempo, il presidente americano suggerisce la caduta di Bashar e dei suoi 20 alleati. Proposta che comporterebbe maggior coinvolgimento statunitense a livello internazionale e regionale nella questione siriana, dove il tema della ricostruzione sarà il primo problema da affrontare.
Dall’altra parte, la Russia ha due ipotesi:
In ogni caso, il problema è complesso. Oltre 6 anni di guerra hanno prodotto una nuova forma di potere conteso fra capi di guerra, guide religiose, leader sociali e tribali, oltre ai mercanti di guerra e nuovi ricchi.
Costoro hanno diffuso la propria autorità in diverse aree siriane e sono divenuti necessari per la soluzione pacifica e gli unici in grado di assicurare stabilità e fornire servizi durante il crollo delle istituzioni statali.
In cima alla piramide del nuovo regime siriano si troverebbero anche personalità politiche e militari del regime Assad ed esponenti dell’ opposizione straniera e interna. I nuovi leader sarebbero un insieme di fazioni tribali e militari, quadri dei vecchi partiti e nuove tribù. In altri termini, una struttura di potere artificiale.
Al contrario di quanto accade in Iraq e Libano, la situazione siriana vede un coinvolgimento regionale e interazionale molto più ampio, che si estende tra Iran, Turchia, Russia, Stati del Golfo, Giordania, USA e Francia che sin dall’inizio si è schierata contro Assad, ha costituto il “Gruppo degli Amici della Siria” e isolato Bashar sostenendo l’espulsione di Damasco dalla Lega Araba il 12 novembre 2011, resa effettiva dopo quattro giorni.
I recenti accordi russo-americani, seguiti dalla visita del ministero degli esteri russo, Sergey Lavorov, a Washington, indicano l’inizio dello smantellamento dell’era Assad, così come il probabile inizio della stesura di nuove alternative. Lo stesso Assad in una recente intervista aveva fatto intendere di conoscere l’esistenza di una simile proposta e dichiarato che avrebbe lasciato il Paese solo da martire.
In realtà la strategia del neoeletto presidente americano non si discosta da quella dei suoi predecessori, come risulta nella sintetica narrazione inerente ai Paesi su citati.
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