MAROCCO: LE SFIDE PER IL NUOVO GOVERNO E PER IL RE.

MAROCCO: LE SFIDE PER IL NUOVO GOVERNO E PER IL RE.

Re Mohammad IV del Marocco

Re Mohammad IV del Marocco

Il Marocco sembra essere in grado di mantenere una certa stabilità e di non essere infettato da un integralismo islamico che corrode la società araba. Il Re, il Sultano, il Commendatore dei Credenti, l’attuale reale Califfo della comunità musulmano, Mohammed IV, riesce per il momento almeno a tenere il suo popolo in una situazione accettabile anche economicamente. Se tutto ciò non ci fosse più, ricomincerebbero le storiche ‘rivolte del pane’, con esiti perniciosi anche per la sponda nord del Mediterraneo.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Il Marocco, nonostante l’intricato scenario mediorientale, continua a mantenersi in una situazione di stabilità, seppur precaria, governato da Mohammed VI, monarca abile, potente, pragmatico ed astuto.

La stabilità politica, sociale ed economica del Paese nordafricano è legata alla consolidata alleanza con gli Stati Uniti d’America (da monitorare i rapporti con l’Amministrazione Trump), alla scarsa presa del jihadismo, agli sforzi di democratizzazione attuati nel Paese e al tasso di disoccupazione inferiore agli standard mediorientali.

L’occupazione è il volano per la stabilità, nella considerazione che la mancanza di lavoro acuisce il malcontento e le tensioni sociali in un Paese con un’economica basata sul settore agricolo e dipendente dalle rimesse dei cinque milioni di marocchini che lavorano all’estero.

Gli indicatori economici del Marocco per l’anno in corso e per quelli a venire non sono esaltanti, ma nemmeno catastrofici, con buone prospettive di ripresa legate allo sviluppo turistico e industriale.

Il Paese, uscito “quasi” indenne” dal vento delle rivoluzioni arabe, seppur con fatica ha intrapreso un tortuoso cammino verso una maggiore democratizzazione: la riforma costituzionale e gli sforzi di decentralizzazione del potere sono i segni più tangibili.

Foriera di novità venne accolta nel 2011 la nomina del Primo Ministro Abdelilah Benkirane, scelto all’interno del partito di maggioranza, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – PJD, d’ispirazione islamista.

Sembrava l’inizio di un periodo foriero di riforme e di sviluppo; dopo sei anni di governo, da settembre 2011 ad aprile 2017, Benkirane è stato costretto alle dimissioni senza essere riuscito a risolvere molte delle questioni aperte.

Il PJD, dissimile da quello tunisino ed egiziano, seppur con difficoltà e in calo di consenso popolare, è riuscito a mantenersi vivo, voce di un Islam politico e militante ma non estremista.

E proprio per cercare di essere più propositivo nel migliorare la condizione di vita dei cittadini, di ridurre la disoccupazione in crescita e di abbattere una dilagante corruzione, il partito di maggioranza, vincitore delle elezioni politiche dello scorso ottobre 2016, si è visto costretto ad adottare dei correttivi.

Il primo e più importante passo è stato proprio quello di porre termine a una lunga e dannosa impasse politica post-elettorale durata più di sei mesi, agevolando le dimissioni di Benkirane, rigido nel non accettare la formazione di un Governo non più polarizzato e con la presenza di altre forze politiche.

Ora il Paese è nelle mani di un nuovo Primo Ministro che invece ha accettato la formazione di un Governo di coalizione: l’ex Ministro degli Esteri Saad Eddine El Othmani.

A ben guardare, il nuovo governo si discosta marcatamente dal precedente per la presenza al suo interno di cinque partiti politici, oltre al Partito di maggioranza: il Movimento Popolare, il Partito del Progresso e del Socialismo, l’Unione Socialista, l’Unione Costituzionale e il Rassemblement National des Indépendants.

Ai citati partiti si devono poi aggiungere i ministri della Corona, figure istituzionali di spicco che sono l’emanazione del Makhzen, la Corte Reale.

Il PJD, a fronte di 125 seggi in Parlamento, è l’espressione di 12 dicasteri nella nuova compagine governativa, il Movimento Popolare ha 27 seggi parlamentari e 5 ministri, l’Unione Socialista 20 seggi e 3 ministri, l’Unione costituzionale 19 seggi e 2 ministri, il Partito del Progresso e del Socialismo 12 seggi e 3 dicasteri, mentre i ministri della Corona sono 7.

Dalla ripartizione dei ministeri si evidenzia come il PJD abbia perso consenso e forza, non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi, poiché non ha più il controllo di alcuni importanti dicasteri, tra cui quello della Giustizia.

Si rimarca la contraddizione per il PJD che, pur avendo ottenuto un buon risultato alle ultime elezioni nel settembre 2016, ha palesato evidenti difficoltà politiche nella formazione del nuovo Governo.

Il Partito islamista sembra aver perso lo slancio iniziale e la sua vocazione di Partito vicino alla gente e, allo stato attuale, è difficile prevedere quale potranno essere le conseguenze del cambio di governo sull’equilibrio istituzionale e sull’assetto interno al partito stesso.

Intanto, questo è certo, il Re Mohammed IV, tramite i 7 ministri della Corona, ha potenziato la sua influenza su alcuni dicasteri chiave tra cui quello della Difesa, degli Affari Islamici e, come da consolidata tradizione, quello degli Esteri.

Inoltre, il Makhzen ha mantenuto il controllo anche del Ministero degli Interni, in prosecuzione di quanto già avvenuto nell’ultima fase del mandato del precedente Primo Ministro Benkirane.

Altrettanto certo il richiamo del Monarca sulla necessità di risolvere i problemi interni del Paese e di mettere ….”il cittadino al centro dell’azione dell’Esecutivo“, ben consapevole del malumore dei suoi sudditi.

Molti i dossier che il nuovo Governo deve affrontare con decisione: la stagnante situazione economica, la disoccupazione in crescita, una farraginosa amministrazione pubblica, la bilancia commerciale in sofferenza, il settore agricolo in difficoltà e quello turistico da incentivare, il progetto per la costruzione del gasdotto Gazoduc, il rischio dell’insorgenza terroristica (si calcola che più di 1300 foreign fighters in questo periodo combattono in Siria), l’instabilità regionale e, non ultima, la spinosa questione del Sahara occidentale.

La regione di 270 mila kmq è contesa dal Marocco, subentrato alla Spagna che nel 1975 rinunciò al controllo amministrativo coloniale, e dal movimento indipendentista Polisario (Frente Popular de Liberacion de Saguìa el Hamra y Rìo de Or); sullo sfondo la Missione delle Nazioni Unite-MINURSO, chiamata a controllare il rispetto del cessate il fuoco lungo le linee di confine.

La regione è stata dichiarata “non autonoma” dalle Nazioni Unite, è riconosciuta da una cinquantina di stati (quasi tutti africani) ed è membro dell’Unione Africana ma non delle Nazioni Unite.

Le parti in lotta, in base all’accordo di pace siglato al termine della guerra civile durata dal 1975 al 1991, sono separate da uno sbarramento lungo 2.700 km che divide la regione in due parti: quella più grande (due terzi del territorio) lungo la costa, ricca di petrolio e fosfati ma anche di prodotti della pesca, è controllata dal Marocco, mentre il restante territorio verso il confine con la Mauritania e più povero di risorse, è amministrato dal Fronte Polisario.

Dopo un periodo di “calma apparente”, la tensione nella regione si sta sempre più riacutizzando e non può più essere sottovalutata.

Le sfide per il nuovo Esecutivo non mancano e, dai risultati che riuscirà ad ottenere, dipenderà la sua sopravvivenza.

Di sicuro il Re Mohammed IV resta vigile e pronto a intervenire, consapevole che il suo Regno, che si è salvato dalla stagione delle rivolte popolari e delle spinte rivoluzionarie, potrebbe impantanarsi in una crisi pericolosa nel caso in cui per i 35 milioni di marocchini venisse meno la speranza per un futuro migliore e più equo.

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IL Sahara ex spagnolo oggi (ex Rio de Oro).

IL Sahara ex spagnolo oggi (ex Saguìa el Hamra e el Rio de Or).

 

 

 

 

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