GLI ACCORDI DI OSLO 24 ANNI DOPO

GLI ACCORDI DI OSLO 24 ANNI DOPO

I protagonisti di Oslo...

I protagonisti di Oslo…

Se ne parla raramente…ma quali sono state le conseguenze dei tanto osannati ‘accordi di Oslo’? Trump è appena stato in Israele …dopo l’Arabia Saudita…interessanti ambedue le tappe…se riparleremo. Lo stato attuale dell’implementazione degli ‘accordi di Oslo’: un poderoso articolo di un grande esperto.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Nella conferenza stampa del 9 maggio 2017, il presidente americano Donald Trump loda il suo omologo palestinese Mahmoud Abbas per aver firmato la “Dichiarazione dei Princìpi” (Dop) – nome ufficiale degli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993 – il primo accordo di pace Israelo-palestinese mirante a portare sicurezza, stabilità e prosperità ai due popoli e all’intera regione. Poi, Trump sottolinea la priorità di implementare la partnership tra le forze di sicurezza israeliane e palestinesi per sconfiggere il terrorismo atteso che già “lavorano insieme benissimo”. Abbas ribadisce che il coordinamento alla sicurezza è “un interesse nazionale palestinese e una dottrina sacra”.

Ma è proprio così?

In realtà, la maggioranza del popolo palestinese rigetta questa “sacralità” del coordinamento securitario fra “Autorità Nazionale Palestinese” (ANP) e Israele, tradotto in una partnership che criminalizza la resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana e contribuisce ad allargare la distanza fra la popolazione e l’èlite politica e della sicurezza.

E’ vero invece che le “nuove opportunità economiche”, come dettate dagli USA all’interno di un asserito piano di pace e di approccio all’ “accordo finale” non porteranno mai la pace, come dimostrano le trattative a guida americana iniziate ormai da 24 anni.

Infatti, il presidente Trump non definisce né il “processo” e i suoi parametri né menziona lo Stato palestinese o la soluzione a due Stati che Abbas porta avanti dall’inizio della sua carriera politica e continua ora, sotto la leadership di Trump, accettando senza mai interferire l’ ”avvio del processo”.

Ritenendosi rinforzato dall’incontro con Trump, appena rientrato a Ramallah, Abbas conferma la recente decisione di tagliare del 30% il sussidio mensile a circa 70 mila ex dipendenti dall’ANP residenti a Gaza ai quali dieci anni fa dopo il “golpe di Hamas” aveva intimato di non lavorare per gli islamisti.

Con il chiaro fine di impedire l’ennesimo accordo tra il movimento islamico e Fatah raggiunto il 18 gennaio a Mosca, Abbas aggiunge che non avrebbe più pagato neppure il gasolio necessario al funzionamento dell’unica centrale elettrica della striscia di Gaza né garantito il pagamento della quota di elettricità che arriva da Israele.

La misura presa da Abbas colpisce i civili che da oltre 10 anni fanno i conti con il blocco israeliano da cielo, terra e mare e le politiche egiziane al confine e danneggia poco Hamas, ben organizzato e disciplinato, che può contare su riserve finanziarie ed energetiche predisposte da tempo che gli consentono di affrontare lunghe crisi, dai conflitti armati con Israele ai contrasti con Abbas.

La decisione di Abbas colpisce anche la sanità, come risulta all’ospedale Rantisi di Gaza city, dove sono in cura decine di ammalati di cancro, e all’ O.N.G. Palestine “Children’s Relief Fund” (Pcrf).

Da Ramallah non arrivano più i medicinali salvavita e oncologici e nel giro di pochi giorni non sarà più possibile curare bambini e adulti.

Ma – come afferma il giornalista Aziz Kahlout – oltre agli aspetti umanitari si guarda allo sbocco politico di questa nuova crisi fra Ramallah e Gaza: “tutto rientra nel quadro regionale che si va delineando.. Gaza e la questione palestinese diventano sempre meno importanti per occidentali e arabi. Gaza sarà lasciata al suo destino e sarà governata da un movimento di fatto prigioniero e isolato”.

Tre giorni dopo, il partito Fatah ottiene risultati modesti alle lezioni per il rinnovo di 145 consigli comunali in Cisgiordania.

Nella Striscia di Gaza non si è votato per una disputa – apparentemente “legale”, fra i giudici della Corte suprema di Ramallah e quelli delle Corti di Gaza – che ha posposto il voto dall’ 8 ottobre 2016 al 13 maggio.

In realtà, l’esclusione della Striscia dalla votazione fatta dopo ben 11 anni dall’ultima, è avvenuta per due motivi: la frattura politica tra Fatah e gli islamisti che dura da dieci anni e il timore di Ramallah di una vittoria di Hamas come avvenuto alla precedente votazione del gennaio 2006, di fatto boicottata non solo da Ramallah ma da tutta la Comunità internazionale.

In solidarietà con Hamas, non hanno votato il JIP (Palestinian Islamic Jihad) e l’ “FPLP” (Fronte Popolare di Liberazione della Palestina).

Nelle città più grandi della Cisgiordania, il flop di Fatah è evidente: a Hebron, il più popoloso centro abitato, Fatah ottiene 7 dei 15 seggi in palio; a Nablus, 11 su 15 grazie all’alleanza con una lista islamica moderata.

Solo a Jenin e Jerico, Fatah vince ma perde molti seggi nei consigli comunali a vantaggio di liste indipendenti e alle formazioni politiche minori.

L’affluenza alle urne è stata solo del 53% dei circa 800 mila aventi diritto, con la partecipazione più alta nei centri rurali e nei villaggi.

I risultati rispecchiano il malcontento dei palestinesi nei confronti di Fatah a causa dell’economia in crisi, la corruzione e il mancato raggiungimento dello Stato indipendente dopo ben 24 anni di trattative inconcludenti con Israele.

Il voto punisce Abu Mazen – sempre più debole proprio nei giorni successivi all’incontro con Trump – mentre cerca di presentarsi come un leader forte e deciso per il prossimo negoziato con Israele, la cui pianificazione dovrebbe essere presentata nel corso della visita del presidente americano in Israele e Cisgiordania dal 23 maggio corrente.

La vera storia sulla cooperazione securitaria tra palestinesi e israeliani è dettagliata da Alaa Tartir, dirigente di ”Al Shabaka”, di cui si espone una sintesi.

Fin dalle origini, il sistema di sicurezza dall’ANP fallisce nel proteggere i palestinesi dalla principale fonte d’insicurezza che è l’occupazione militare israeliana, e contribuisce al contrario a criminalizzare la lotta palestinese disarmata per la libertà.

L’ANP, insieme a Israele e comunità internazionale, definisce la resistenza come “insurrezione” o “instabilità”, retorica che favorisce la sicurezza israeliana a spese dei palestinesi, la cui richiesta a Israele è il rispetto delle Risoluzioni di Assemblea Generale ONU e Consiglio di Sicurezza dal 1948 a oggi, che Tel Aviv viola impunemente da allora.

La dinamica inizia dagli Accordi di Oslo e si rinforza nell’ultimo decennio a guida Abbas attraverso l’evoluzione dell’ANP in uno Stato gestito dai donatori del settore di sicurezza che diventa il fulcro del progetto di costruzione dello Stato post-2007.

La migliorata efficienza delle forze di sicurezza dell’ANP, come risultato del massiccio investimento straniero, crea ulteriori metodi di protezione dell’occupante israeliano, consentendo spazi sicuri all’interno dei quali l’occupante può muoversi liberamente per portare avanti il progetto coloniale.

Questo sviluppo porta a due risultati: migliore collaborazione con il potere occupante che supporta un distruttivo “status quo” e maggiori violazioni della sicurezza e dei diritti nazionali palestinesi da parte del loro stesso governo e delle forze di sicurezza nazionali.

In breve, l’evoluzione delle forze di sicurezza all’ANP si può dividere in tre fasi: Accordi di Oslo (1993 – 1999); seconda Intifada (2000 – 2007); progetto di costruzione dello Stato post 2007.

Prima fase. Gli Accordi di Oslo: prevedono la costruzione dello Stato e la liberazione nazionale:

  • il primo implicante la costruzione di istituzioni su un modello statale e di una burocrazia (subito pomposa) sotto occupazione;
  • il secondo intende portare avanti il programma per l’autodeterminazione adottato dalla “Palestinian Liberation Organization” (PLO).

Ma la conflittualità fra i due progetti si manifesta già sotto la presidenza di Arafat. La personalizzazione della governance da parte di Arafat e la conseguente rete di corruzione e clientelismo fanno sì che l’evoluzione delle forze di sicurezza dell’ANP non diviene né inclusiva né trasparente. Al contrario, è carica di nepotismo e usata come mezzo per minacciare gli oppositori di Oslo e stabilizzare la popolazione.

Inoltre, solidifica i nascenti “discorsi di pace”, mentre le 9 mila reclute nella “forte polizia” immaginata negli Accordi del Cairo del 1994 diventano 50 mila nel 1999. Questa proliferazione di forze di sicurezza ha conseguenze gravi per i palestinesi. La creazione da parte di Arafat di strutture politiche dettate dalla sicurezza alimenta l’autoritarismo e blocca i meccanismi di controllo nel sistema politico palestinese.

Il risultato è che mentre la struttura della sicurezza cresce in numeri e istituzioni, i palestinesi restano scarsamente protetti e, al contrario, corruzione e nepotismo diventano endemici. L’approccio del “divide et impera” pavimenta la strada della futura frammentazione palestinese.

Seconda fase.

Durante la seconda Intifada, Israele distrugge l’infrastruttura della sicurezza dell’ANP perché le sue forze prendono parte alla sollevazione. Questo crea un “vacuum” nel quale gli attori esterni all’ANP si inseriscono con risultati diversi per i palestinesi. Aumenta la competizione tra palestinesi e i donatori esterni, l’ANP e Israele diventano ancora più interessati a costruire un settore della sicurezza forte e dominante.

Nel giugno 2002, l’ANP annuncia il suo Piano di Riforma in 100 giorni. Nel 2003, la road map chiede che “un apparato di sicurezza dell’ANP ricostruito e rifocalizzato” confronti “tutti coloro impegnati nel terrore” e smantelli “le infrastrutture del terrore”: le forze vengono costrette a combattere il terrorismo e individuarne i sospetti; incitamento fuori legge; raccolta di armi illegali; fornitura a Israele della lista delle reclute della polizia palestinese; report dei progressi agli USA.

Di conseguenza, la riforma della sicurezza palestinese “rimane un processo controllato dall’esterno, guidato dagli interessi nazionali di Israele e USA e caratterizzato da una partecipazione della società palestinese molto limitata”.

La comunità internazionale dei donatori gestisce la riforma del 2005 attraverso la creazione dell’ ”European Union Coordinating Office for Palestinian police support” (Eupol Coopps) e dell’ “United States Security Coordinator” (Ussc). Situazione che dura tuttora.

Terza fase.

Il progetto di costruzione dello Stato post-2007 sotto l’ANP punta, soprattutto tramite Eupol Copps e Usac, a reinventare le forze di sicurezza palestinese attraverso strumenti tecnici come addestramento e rifornimento di armi e anche a ridefinire le forze politicamente, limitando Hamas e il suo braccio militare, mettendo un freno ai militanti alleati a Fatah attraverso la cooptazione e l’amnistia, conducendo campagne di sicurezza in particolare e Nablus e Jenin.

Le forze sono diventate note come “forze di Dayton in riferimento a Kheit Dayton, il generale statunitense che ha guidato il processo di “professionalizzazione e modernizzazione” della struttura militare dell’ANP. Organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali accusano queste forze riformate di violazioni dei diritti umani e repressione delle libertà.

L’attuale fase ha inoltre rinforzato il predominio degli interessi securitari di Israele a spese dei palestinesi. Disarmo e criminalizzazione compromettono la resistenza popolare disarmata contro l’occupazione, comprese marce e manifestazioni pacifiche, la difesa contro le violazioni dei diritti umani da parte di Israele e l’attivismo studentesco.

Attualmente, le forze di sicurezza dell’ANP proteggono per lo più la sicurezza dell’occupante e non quella dell’occupato. In breve, la sicurezza dei palestinesi è messa a repentaglio perché la loro stessa leadership è stata trasformata in subappaltatrice della loro repressione.

L’agenda di riforma post-2007 impedisce la lotta nazionale palestinese, il movimento di resistenza e la sicurezza quotidiana minando il funzionamento della politica palestinese.

Il settore della sicurezza palestinese dà lavoro alla metà di tutti i dipendenti pubblici assorbendo circa 1 miliardo di dollari del budget dell’ANP e ricevendo il 30% degli aiuti internazionali, con un rapporto di personale della sicurezza rispetto alla popolazione rispetto di 1 a 48, uno dei più alti del mondo. Praticamente consuma più budget di educazione, sanità e agricoltura messi insieme.

Conta 83.276 impiegati tra Cisgiordania e Gaza, compresi 312 generali dei quali 232 legati all’ANP e 80 ad Hamas. In confronto, l’intero esercito americano ha 410 generali.

Il processo di “pace securizzata” si manifesta in diversi modi: arresto da parte dall’ANP di palestinesi ricercati da Israele; repressione delle proteste palestinesi contro soldati e/o coloni israeliani; condivisione d’intelligence tra esercito israeliano e forze palestinesi; porta girevole tra prigioni israeliane e palestinesi dove gli attivisti si trovano di fronte alle stesse accuse; regolari meeting, workshop, addestramenti congiunti.

Sebbene Abbas abbia minacciato talvolta di sospendere il coordinamento, allo stesso tempo dichiara che si tratta di “un interesse nazionale palestinese e di una dottrina sacra”, aumentando la distanza fra popolo palestinese e ANP.

Infatti, molti sondaggi, nel corso degli anni, mostrano come la maggioranza dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza (tra il 60% e l’80”) si opponga al coordinamento della sicurezza con Israele.

A marzo 2017, in un sondaggio del “Palestinian Center for Policy and Survey”, 2/3 degli intervistati hanno chiesto le dimissioni dell’ultra ottantenne Abbas e il 73% ritengono Abbas non serio nelle minacce di sospensione del coordinamento con Israele.

In un sondaggio di “Maan News Agency “del 2010, il 78% degli intervistati sostiene che le forze di sicurezza dall’ANP sono impegnate nella sorveglianza, il monitoraggio e l’intervento nella privacy dei singoli. E, secondo “Visualizing Palestine”, il 67% dei palestinesi della Cisgiordania sente di vivere in un sistema non democratico che opprime le libertà in larga parte come risultato del dominio della sicurezza.

4.

Il generale statunitense Dayton sottolinea nel 2009 che, in merito alle forze di sicurezza palestinese che stava addestrando, i comandanti dell’esercito israeliano gli avevano chiesto: “Quanti altri di questi nuovi palestinesi puoi creare? E quanto velocemente?”.

Dayton parla poi anche di un ufficiale palestinese che affronta uno di questi “nuovi palestinesi laureandi in Giordania” dicendogli: “Non sei stato mandato qui per imparare a combattere Israele. Ma per imparare a mantenere legge e ordine, a rispettare il diritto di tutti i nostri cittadini e a implementare lo Stato di diritto così che possiamo vivere in pace e sicurezza con Israele”.

Nel 2013, in un discorso davanti al parlamento europeo, il presidente israeliano Shimon Peres dice: ”E’ stata formata una forza di sicurezza palestinese. Voi e gli americani l’avete addestrata. E ora lavoreremo insieme per prevenire terrore e crimine”.

Ma mentre il coordinamento della sicurezza si cementa da Oslo in poi, lo status quo non è una conclusione scontata. Tuttavia il sistema ha creato un segmento di società palestinese che intende mantenere. E’ composto non solo dal personale della sicurezza in Cisgiordania e Gaza ma anche da quei palestinesi che beneficiano degli accordi istituzionali e della rete di collaborazione e dominio.

Lo status quo è per loro un beneficio e la “stabilità” un mantra. Sono impegnati per un approccio che privilegia l’èlite politica, economica e della sicurezza e non hanno incentivi a modificare le regole di questo contesto.

Ogni tentativo di interrompere il coordinamento alla sicurezza avrebbe conseguenze negative reali per l’ANP e la sua leadership. Eppure, la perpetuazione dello status quo è distruttiva per la maggior parte dei palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana e per i palestinesi in generale. Con la distruzione della capacità di correggere gli errori politici e di responsabilizzare le èlite, il business continuerà come al solito. Il coordinamento alla sicurezza resterà una caratteristica fondamentale di una realtà alterata che favorisce l’occupante, a meno che non vengano prese al più presto idonee misure.

Il rafforzamento della struttura della sicurezza dell’ANP richiede interventi politici a livelli multipli, dalla correzione della retorica di parte alla creazione di meccanismi di responsabilità. Le seguenti raccomandazioni, diretti a diversi stakeholder, propongono una revisione delle operazioni e le strutture delle forze di sicurezza dall’ANP.

L’ANP deve ascoltare il popolo palestinese e rispettare i suoi desideri e le sue aspirazioni, comprese quelle sul dominio della sicurezza, altrimenti il gap di legittimità e fiducia crescerà sempre di più. Non c’è mai stato un sistema politico palestinese inclusivo, ma una leadership più reattiva, rappresentativa e responsabile assicurerebbe che la sicurezza dei palestinesi, invece che quella dei loro occupanti e colonizzatori, diventi una questione centrale.

Un autentico settore della sicurezza, come affermato da Tariq Dana, significherebbe la fine del “focus sul controllo interno conosciuto come Dottrina Dayton” e “un programma che preveda responsabilizzazione e giustizia”.

Come elaborato da Hanii al-Masri, questo richiederebbe misure graduali per congelare o sospendere il coordinamento della sicurezza; eliminare parte dell’apparato alla sicurezza e ristrutturare il restante con professionalizzazione, patriottismo e libertà dal nepotismo politico; addestramento dell’apparato per resistere ai raid israeliani almeno nell’area A (l’unica sotto il controllo civile e militare dell’ANP, ma costantemente violata, come le aree B e C, da Israele).

Sebbene l’ANP continui ad affermare che gli attuali accordi e la divisione del lavoro serve alla soluzione a due Stati, senza vedere che la colonizzazione israeliana senza sosta delle terre palestinesi fa sì che l’ANP e la sua leadership debbano rivedere la loro funzione.

L’imminente minaccia di annessione dovrebbe spingere l’ANP a prendere misure prima che il suo ruolo di subappaltatore dell’occupazione si solidifichi completamente.

Le organizzazioni della società civile palestinese, in particolare quella dei diritti umani, devono formare coalizioni maggiormente efficaci e intensificare gli sforzi per punire le violazioni dell’ANP e della sua leadership politica e militare. In assenza di istituzioni che facciano da peso e contrappeso, la pressione che va oltre lo scrivere e il pubblicare rapporti è urgente. In altri termini, la società civile palestinese deve sviluppare azioni pratiche per affrontare le continue violazioni dei diritti commesse dall’ANP.

Gli attori della società civile (istituzioni accademiche, intellettuali e think tank) devono inoltre affrontare il fallimentare discorso dell’ANP per il quale la resistenza palestinese è bollata come insurrezione o instabilità. E anche gli attori israeliani e internazionali che usano questi discorsi dovrebbero essere affrontati.

La società civile deve abbracciare e rendere operativa la resistenza invece di assistere alla sua criminalizzazione e considerarla come un modo di vivere comprensivo sotto occupazione ed esilio. La resistenza come modo di vivere può aiutare a ribaltare il ritratto che ne fanno attualmente le élite politiche e di sicurezza. La resistenza può dunque garantire il ripristino dei valori e degli ideali fondamentali che permettano ai palestinesi di agire collettivamente per i propri diritti.

Attori esteri, in particolare Eupol Copps e Ussc hanno bisogno di uno scrutinio serio da parte della società civile, sia in Palestina nel che Paesi di origine. Non possono continuare a dominare il regno della sicurezza senza assumersene la responsabilità né essere trasparenti. Promuovendo lo Stato di diritto in un contesto autoritario, questi corpi contribuiscono alla “professionalizzazione” delle pratiche autoritarie attraverso l’abuso della buona governance.

La rivendicazione per cui il mandato è “tecnico” permette loro di sottrarsi ai risultati politici delle loro operazioni. Dopo un decennio, è tempo di condurre una valutazione palestinese indipendente di questi enti e usare meccanismi di responsabilizzazione per riformare questi “riformatori” e decidere la via da qui in avanti.

In un contesto altamente dipendente dagli aiuti, la supremazia di “securizzazione” e militarizzazione si estende al regno dello sviluppo. I politici degli Stati donatori e i palestinesi che facilitano i programmi di finanziamento dovrebbero affrontare il modo in cui “aiuti securizzati” hanno trasformato un movimento di liberazione in un subappaltatore del colonizzatore e portato a tendenze autoritarie che favoriscono la struttura della sicurezza a spese di altri settori: salute, educazione, agricoltura e della democrazia.

Inoltre, in Palestina gli aiuti securizzati e lo sviluppo non solo hanno fallito nel rivolgersi a povertà e disoccupazione ma hanno anche creato nuova insicurezza e illegittimità. I pianificatori di sviluppo devono capire che questi modelli non saranno mai modificati a meno che il popolo, e non la struttura della sicurezza, conduca le danze.

Queste azioni sono un dovere del popolo palestinese, specialmente quando i politici non lo rappresentano. La società palestinese ha bisogno di affrontare i mezzi usati per reprimere la sua mobilitazione e di garantire la realizzazione dei propri diritti fondamentali.

L’iniziativa apartitica di giovani “End Security Coordination”, emersa dopo l’assassinio di Basil Al-Araj a marzo 2017, rappresenta un esempio di questa mobilitazione. Nell’appello i giovani scrivono:” Il nostro popolo ha combattuto troppo a lungo per noi, per restare immobili, mentre leader repressivi barattano la nostra oppressione con i loro interessi personali. Siamo quasi a 30 anni dagli Accordi di Oslo che hanno trasformato quanto restava della nostra terra in prigioni a cielo aperto, amministrate da ufficiali dell’ANP non rappresentativi che si sono auto-assunti per essere la prima linea di difesa dei nostri colonizzatori. Il regime di Oslo non ci rappresenta. Ora è tempo per noi di metterci insieme e ricostruire la nostra lotta collettiva per la liberazione di tutta la Palestina”.

Se tale resistenza organizzata continuerà e crescerà, la pressione della gente potrebbe essere in grado di modificare la traiettoria del coordinamento alla sicurezza ANP-Israele, rendendo i palestinesi meglio equipaggiati per incamminarsi verso l’autodeterminazione e l’ottenimento dei diritti umani.

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La speranza....

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