EFFETTO DOMINO DELLA GUERRA IN SIRIA 2.

EFFETTO DOMINO DELLA GUERRA IN SIRIA 2.

POTUS, Mr. Donald Trump.

POTUS, Mr. Donald Trump.

Continua l’analisi lucida sui recenti avvenimenti che hanno coinvolto USA, Corea del Nord e Afghanistan. Una serie di avvenimenti che fanno vedere il nuovo ‘Grande Gioco’.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

4.Il comportamento imprevedibile del presidente Trump trova un punto fermo nell’Iran, in merito al quale ribadisce il 19 aprile quanto già dichiarato sin dall’inizio dello scorso gennaio.

“L’accordo sul programma nucleare iraniano sarà rivisto” annuncia il presidente che chiede una verifica per valutare se l’Iran si sia attenuto ai requisiti dell’accordo del luglio 2015 con i Paesi del “5 + 1” (i cinque Paesi permanenti nel Consiglio di Sicurezza ONU + la Germania).

Il presidente aggiunge che “Parte della verifica è per stabilire se l’Iran lo rispetta e per formulare raccomandazioni sulla strada da seguire”, facendo riferimento ai test missilistici e radar iraniani nel febbraio scorso.

In realtà, l’accordo non può essere annullato dagli USA essendo stato realizzato insieme ad altri 5 Paesi, tra i quali gli altri 4 sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle N.U.

Inoltre, appena due giorni prima, il segretario di Stato, Tillerson dichiara alla Camera che l’Iran sta tenendo fede all’intesa e lo stesso portavoce della Casa Bianca riconosce che “I test missilistici non rappresentano una diretta violazione del patto del 2015”.

Ma fedele ai richiami del presidente, Tillerson fa marcia indietro e annuncia la necessità di nuovi accertamenti poiché “senza verifiche l’Iran potrebbe seguire la stessa strada della Corea del Nord . . e gli Stati Uniti devono valutare ogni minaccia posta dall’Iran”.

Il veloce dietro-front di Tillerson avviene nel giorno in cui in Israele James Mattis incontra il ministro della Difesa Lieberman e il premier Netanyahu con il mandato di rassicurare Tel Aviv che gli USA intendono tenere sotto pressione l’Iran, anche rivedendo gli accordi sul nucleare del 2015.

Mattis aggiunge che saranno sotto stretta sorveglianza le attività iraniane politiche e militari nella regione – in Siria, Yemen e Iraq – e che gli accertamenti potrebbero scattare entro 90 giorni e saranno condotti da varie Agenzie federali USA sotto la guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale.

La risposta del ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, è immediata “Le logore accuse degli Stati Uniti non possono mascherare l’ammissione di conformità dell’Iran con l’accordo sul nucleare….che obbliga gli USA a cambiare corso e adempiere ai propri impegni”.

Il presidente Rohani invita alla calma perché, in caso contrario, gli USA pagherebbero costi altissimi per l’eventuale uscita di scena: a cominciare dalla Boeing che, grazie alla fine della sanzioni, a inizio mese ha firmato un accordo con la compagnia iraniana “Iran Aseman Airlines” per l’acquisto di 60 aerei passeggeri 737 Max per un importo di 3 miliardi di dollari.

Ma le dichiarazioni del presidente americano indeboliscono il presidente moderato Rohani a poche settimane dal voto.

L’Iran è il Paese più osteggiato dal neo-presidente che già il 31 gennaio invia le sue navi da guerra davanti alle coste del Bahrein – quindi non lontane da quelle iraniane – nel quadro dell’Unified Trident”, manovre navali che vedranno la Marina britannica guidare per tre giorni navi da guerra americane, francesi e australiane.

Il Bahrein, che ospita la V Flotta USA e il NavCent (United States Naval Forces Central Command), rivestirà un ruolo strategico ancora più importante.

L’obiettivo è la simulazione di un attacco all’Iran, peraltro compreso nel “muslim-ban”, che vieta l’ingresso negli USA per (presunta) appartenenza al terrorismo.

Inoltre, il presidente americano dispone l’invio del cacciatorpediniere USS Cole sulle coste dello Yemen, Paese nel quale è in corso un conflitto tra i ribelli sciiti Houth, appoggiati dall’Iran, e le truppe del governo sunnita sostenute dai sauditi.

L’attacco all’Iran prosegue il 6 febbraio scorso, quando il presidente USA tramite il dipartimento del tesoro decide misure repressive contro 13 persone e 12 gruppi di società iraniane in risposta al test missilistico, e definisce a Fox News “L’Iran il numero uno degli Stati terroristi”.

Solo il 10 febbraio, quando nelle città iraniane migliaia di persone scendono in piazza per celebrare la rivoluzione khomeinista del 1979 che cacciò lo scià sostenuto dagli USA e aprì la strada alla nascita della Repubblica Islamica, prende la parola l’Ayatollah Alì Khamenei per reagire al divieto di ingresso negli USA di cittadini iraniani ma soprattutto alle continue dichiarazioni anti-Teheran della nuova amministrazione.

L’Ayatollah dice: “Siamo grati a questo gentiluomo. Ha mostrato il vero volto dell’America. Quello che abbiamo detto per più di 30 anni e cioè che esiste una corruzione politica, economica, morale e sociale nel sistema di governo USA, è stato portato alla luce durante e dopo le elezioni da questo gentiluomo”.

Da Teheran, parla il presidente Rouhani, che attacca il linguaggio “minaccioso” e provocatorio della Casa Bianca: “Questa manifestazione è la risposta alle false accuse dei nuovi governanti USA. Il popolo dice al mondo con la sua presenza che si deve parlare all’Iran con rispetto. Gli iraniani faranno pentire quelli che usano un linguaggio minaccioso contro la nazione”.

Alla conferenza annuale sulla sicurezza svolta il 20 febbraio scorso a Monaco il ministro israeliano della Difesa, Avigdor Lieberman, e il ministro degli esteri saudita, Adel Jubeir, confermano le strette relazioni fra Tel Aviv e Riyadh.

Lieberman focalizza il suo intervento per ripetere le accuse all’Iran: ”Credo che per la prima volta dal 1948 il mondo arabo moderato, sunnita, comprenda che la più grande minaccia non è Israele, non gli ebrei e il sionismo, ma l’Iran e i proxy iraniani”, riferendosi al movimento libanese Hezb’Allah e ai guerriglieri Houthi in Yemen.

Gli fa eco il capo della diplomazia saudita Juber che ricambia parlando della pace da realizzare per israeliani e palestinesi.

L’ipotetica “NATO Araba”, aperta a Israele e forte dell’appoggio di Trump tornato ad agitare il pugno di ferro contro l’Iran, è il centro di un dibattito fra quei Paesi – Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Giordania – che dovrebbero mettersi alla testa della coalizione militare.

“Questa NATO in stile arabo è una risposta naturale alla politica di Tehran – spiega Abderrahman ar Rashed su Al Sharq al Awsat, megafono delle monarchia saudita – Emirati, Egitto, Giordania e Arabia Saudita cercheranno di mettere in piedi una forza militare che dovrà contenere l’Iran, presente in Iraq e Siria, e la sua influenza in Libano e Yemen favorita dal vuoto generato dalla linea della passata amministrazione USA”.

Ar Rashed sminuisce il peso del rapporto con Israele asserendo che si tratterebbe di una cooperazione segreta e limitata (come del resto lo fu per la Giordania ancor prima della pace del 1994, dopo gli accordi di Oslo dell’anno precedente, n.s.).

Voci opposte provengono da:

  • Imaduddin Hussein, sul quotidiano egiziano al Shurouq, che critica il progetto in itinere a guida Israele- Arabia Saudita;
  • Sadi as Sabi, del quotidiano iracheno as-Sabah secondo il quale si tratterebbe solo di una reazione di alcuni Paesi all’elezione del nuovo presidente USA, particolarmente vicino a Israele e Arabia Saudita, come conclamato sin dalla campagna elettorale, e in ogni caso tramonterebbe presto – come il Patto di Baghdad del 1955 con il pretesto di affrontare l’espansione comunista in Medio Oriente e che comprendeva Regno Unito, Iraq, Turchia, Iran e Pakistan.

Né va sottovalutato il fatto che in seno al “Consiglio di Cooperazione del Golfo” (CCG), Kuwait e Oman contestano la logica dello scontro che portano avanti Arabia Saudita ed Emirati, tant’è vero che il presidente iraniano Hassan Rohani si reca il 20 febbraio in Oman e Kuwait, ricambiando la visita fatta dal sultano dell’Oman e del ministro degli affari esteri kuwaitiano in Iran.

In ogni caso, la situazione dell’Iran – che svolge un ruolo egemonico nella regione con il supporto della Russia e l’invio dei suoi corpi speciali insieme a Hezb’Allah libanese, le formazioni sciite irachene e i curdi in Siria e Iraq – resta al momento saldo.

L’inattesa presentazione per le elezioni presidenziali del 19 maggio p.v. della candidatura dell’ex presidente radicale Mahmoud Ahmadinejad, contro la posizione espressa pubblicamente dalla Guida Suprema Alì Khamenei ha poco tempo.

Aggiungendo il suo nome fra i 197 candidati, tra i quali 8 donne, la sua candidatura, come quella degli altri, deve ottenere il via libera dal Consiglio dei Guardiani, che il 27 aprile annuncerà la lista dei nomi “approvati” sulla cui decisione potrebbe pesare il parere di Khamenei.

Sorprendentemente, il 20 aprile, il Consiglio dei Guardiani lo esclude accettando invece la candidatura dell’attuale presidente, il moderato Hassan Ruohani.

5.In realtà, il dichiarato “non interventismo” del neo presidente USA è una narrativa come si rileva dall’organizzazione no-profit Airwars, che ha raccolto dati provenienti dalle informazioni ufficiali della coalizione a guida USA e il monitoraggio locale dal 2014 ai primi mesi del 2017 in Sira e Iraq.

Nel solo ultimo anno i dati sono i seguenti:

  • da gennaio a dicembre 2016, gli USA effettuano in Siria una media di 2016 raid al mese, con il minimo a marzo (132 azioni) e il massimo a luglio (352);
  • nei primi mesi del 2017, i raid sono raddoppiati: 535 a gennaio, 547 a febbraio, 434 a marzo e 129 dall’1 al 10 aprile;
  • in Iraq la precedente amministrazione intensifica gli interventi fino a maggio 2016 con 500 raid al mese per poi farli calare all’inizio dell’estate e chiudere l’ultimo mese di presidenza con 185 raid in Iraq;
  • con l’arrivo del nuovo presidente 234 raid a gennaio, 272 a febbraio, 268 a marzo e 87 dall’uno al dieci aprile.

Inoltre – sempre dai dati di Airwars – il numero dei civili uccisi – indicati con l’ossimoro “danni collaterali” – si moltiplica:

  • nei primi 3 mesi e mezzo del 2017, i raid americani uccidono più di quanto fatto dalla precedente amministrazione nell’intero 2016;
  • vengono uccisi 2.683 civili in Siria e Iraq nel 2016 e sono 3.122 da gennaio al 10 aprile 2017;
  • il mese peggiore è marzo con: 1.754 morti, di cui non si sa nulla, tranne dei 300 iracheni massacrati a Mosul in un raid contro alcune abitazioni; 42 siriani sepolti sotto le macerie di una moschea nel villaggio di Al-Jinah, ad Aleppo; 33 morti a Raqqa, scovati dai droni in una scuola dove si erano rifugiati da sfollati.

Identica è la situazione nello Yemen:

  • l’esercito statunitense compie nel mese di marzo il doppio dei raid aerei del 2016;
  • settanta volte i jet USA bombardano postazioni di “AQAP” (Al Qaeda in the Arab Peninsula);
  • 30 sono i civili, per lo più donne e bambini, tra cui una bimba di 8 anni

6.Il quadro generale appare sempre più complesso per i rapidi e mutanti spostamenti politici non solo degli USA ma anche della Turchia.

Putin chiude i contatti con gli americani dopo che il presidente Trump ordina il bombardamento in Siria e lo sgancio della GBU-43B in Afghanistan, pochi giorni prima della conferenza preparata dai russi con i talebani, e per il minacciato attacco alla Corea del Nord.

Da Ankara, lo allontana la rinnovata ostilità al presidente siriano, la permanenza della campagna in Iraq non accettata dagli iracheni e la guerra senza tregua contro le milizie curde che stanno fornendo un eccellente contributo nella lotta contro Daesh in Siria e Iraq.

E la Russia stringe il rapporto con la Cina per contrastare gli USA nell’ipotesi di un attacco alla Corea del Nord.

L’unica certezza è che – come dimostrano i numerosi ma inefficaci incontri di Ginevra e Astana– la pace in Siria non si farà mai per le vie diplomatiche, ma solo dopo la parcellizzazione del Paese, come accaduto il Libia e come accadrà in Iraq.

L’ipotesi di Russia e Cina come mediatori nei conflitti della regione araba e del sud asiatico appare fallita.

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