LA DIASPORA KURDA

LA DIASPORA KURDA

Massoud Barzani

Massoud Barzani

Un interessante e chiaro panorama sulla situazione dei Kurdi, divisi fra quattro stati…se ne parla poco…la loro situazione non interessa per ora la politica internazionale. Non ha mai interessato…eppure sono una nazione.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

  1. Premessa

Nel febbraio scorso, a Roma vengono messi al bando immobili concessi a 800 organizzazioni culturali e sociali, fra le quali il Centro Ararat. E’ il centro culturale Kurdo nato nel 1999 con i rifugiati kurdi arrivati in Italia e insediatisi nell’ex mattatoio di Testaccio, accanto alla Scuola Popolare di Musica. L’edificio, abbandonato e pericolante e per il quale pagano un affitto, viene completamente ristrutturato con 40 mila euro autofinanziati e lavoro volontario.

E’ il centro dal quale sono transitate 23 mila persone richiedenti asilo che hanno avuto accoglienza e assistenza legale, ritrovando la propria cultura negata dal Paese da dove fuggivano. Ora la somma richiesta per evitare lo sgombero è di 11 mila euro che il centro non può pagare.

Popolazione di origine linguistica ed etnia persiana, di religione musulmana sunnita, nel XVI, dopo le incursioni mongole, diviene possedimento ottomano e nel 1923, dopo la prima guerra mondiale, subisce una frammentazione che porta i kurdi a vivere in Paesi separati.

Negli anni successivi, i kurdi danno inizio a numerose sollevazioni indipendentiste per riacquistare l’unità, specie in Iraq, dove fra il 1961 e 1966 esplode una guerra civile.

La condizione dei kurdi è analoga anche in Iran e Turchia e li porta a emigrare o trovare rifugio in altri Paesi fra cui, più recentemente, in Italia e nelle repubbliche caucasiche.

  1. I kurdi in Iran

La condizione dei kurdi in Iran è grave:

  • da un lato, il mancato riconoscimento delle minoranze linguistiche impedisce l’accesso all’istruzione in maniera paritaria con alti tassi di abbandono scolastico anche fra i più giovani;
  • dall’altro, a fronte di un crescente tasso di povertà, la difficoltà di accesso ai sussidi statali esclude dalla formazione la fasce più deboli e ancor più quella femminile.

A questo panorama si aggiungono la mancanza di infrastrutture e investimenti, un elevato tasso di disoccupazione e una perdurante arretratezza del sistema economico locale, con un impoverimento difficilmente arrestabile.

Secondo numerose organizzazioni per la tutela dei diritti umani, il livello repressivo dello Stato iraniano rispetto alle opposizioni non è diminuito neppure dopo le elezioni del governo moderato di Rohani.

Nelle prigioni di Stato la percentuale di detenuti appartenenti alle opposizioni e alla minoranza kurda è molto alto, tanto da spingere molti ad accettare condizioni lavorative inadeguate, precarie e poco retribuite.

  1. I kurdi in Iraq

La storia in numeri del Kurdistan iracheno declina 5 milioni di abitanti, 1 milione di sfollati iracheni e 200 mila rifugiati siriani, 700 mila persone sotto la soglia di povertà con meno di 90 dollari/mese, un tasso di disoccupazione passato in 6 anni dal 4,8% al 14%, mezzo milione di barili di greggio al giorno, l80% del PIL derivante dal petrolio e 1 miliardo di dollari di ricavi petroliferi scomparsi nel nulla, 18 miliardi di deficit.

A fronte delle crescenti tensioni sociali, svettano palazzi della capitale del governo regionale del Kurdistan (Krg), cantieri aperti e grattacieli che disegnano un orizzonte da petro-monarchia del Golfo, che stridono con i mercati dove gli anziani vendono qualche mercanzia.

E’ un panorama consustanziale con la visione dei due clan, Barzani e Talabani, da decenni detentori del potere politico ed economico, famiglie che fondano il consenso su unità militari, una galassia di imprese, voti di scambio, nepotismo.

Il momento di passaggio è il 2003, l’invasione anglo-statunitense dell’Iraq, la nuova Baghdad senza Saddam Hussein e l’ingresso nella rete occidentale. Dal 2003, la società kurda conquista una significativa crescita economica perché il Krg riceve un flusso ingente di denaro da Baghdad, che, apparentemente, ne migliora le condizioni di vita.

La popolazione, liberata dalla miseria, chiede cambiamenti radicali del sistema politico, democrazia e partecipazione alla vita socio-economica.

Ma i due principali partiti, il Kdp di Barzani e il Puk di Talabani, controllano strettamente il denaro in arrivo dal governo centrale e sui primi ricavi petroliferi. Il decennio di prosperità apre le porte a un capitalismo selvaggio, un neoliberismo che favorisce l’incremento del “gap” fra ricchi e poveri. Esplode il conflitto tra popolo e partiti in una società di stampo tribale, dove esistono vari centri di potere informale.

A sostenere la ribellione socialista (nel 2007, le prime proteste) è la presa di coscienza popolare anche grazie alla nascita di media indipendenti.

La repressione inizia subito: Puk e Kdp usano la forza per silenziare le voci critiche, far sparire attivisti e giornalisti, sopprimere i sit-in. E’ anche per forzare il sistema economico. E’ il modello-Dubai: un’economia basata sul greggio del Golfo che annulla le altre forme di produzione.

La crisi esplode nel 2014 con il taglio del budget deciso da Baghdad in reazione alla vendita di greggio in autonomia da parte di Erbil. Gli stipendi pubblici sono tagliati di 2 terzi e sospesi per mesi; le manifestazioni si moltiplicano; la disoccupazione triplica in 6 anni e la classe media, appena nata, inizia a morire.

Da una parte, aumentano le proteste contro un sistema clientelare che per decenni ha tenuto compatta la società, e, dall’altra, si moltiplicano rapine, prostituzione, omicidi, “un boom di disagio sociale mai vissuto prima del 2013, quando la società era legata a valori tradizionali tribali e religiosi che garantivano controllo sociale”. La risposta del governo è il modello Dubai che alza i prezzi e divora il potere d’acquisto delle classi basse.

Un’altra peculiarità è che il Krg non ha un esercito nazionale, ma unità di peshmerga affiliate ai partiti politici, 200 mila uomini, 36 brigate, dipendenti da Kdp o Puk: sono pagati dallo Stato ma controllati dai due partiti, quelle uniformi servono ad arginare la disoccupazione, mantenere centinaia di famiglie, generare affiliazioni tribali e politica, voti, silenzio.

  1. I kurdi in Siria

I kurdi, di fatto, già governano in piena autonomia larghe porzioni del territorio siriano settentrionale, dove vivono anche sunniti, assiri, armeni, turcomanni e yazidi.

Il governo centrale ha preferito fare un passo indietro pur di arrivare a un patto di non belligeranza non scritto con le formazioni combattenti kurde. Formazioni che, dopo un’iniziale adesione alla “ribellione”, adottano una posizione di equidistanza fra Damasco e l’opposizione sempre più controllata dagli islamisti supportati logisticamente e militarmente da Turchia, Qatar e Arabia Saudita e sempre meno disponibili ad assecondare il desiderio di libertà del popolo Kurdo.

Questo le ha rese più forti ma non necessariamente più unite, nell’affrontare la minaccia principale rappresentata dalla Turchia, il più potente e agguerrito dei nemici delle aspirazioni kurde.

Da un lato, l’autorità ha fatto uso in passato del pugno di ferro – specie in occasioni di proteste pubbliche – per frenare le ambizioni territoriali e politiche della minoranza kurda (circa 2 milioni di persone presenti non solo nel Nord del Paese ma anche a Damasco), evitando peraltro di dare una soluzione definitiva al problema di circa 300 mila kurdi che non hanno mai ottenuto la cittadinanza siriana.

Dall’altro, il governo ha permesso per anni un moderato attivismo politico al Partiya Yekitiya Demokrat (Pyd, una propaggine del Pkk, il movimento combattente kurdo in Turchia), fingendo di ignorare le attività di contrabbando che hanno garantito un reddito a molti kurdi.

La tolleranza è dovuta anche al peso che il Rojava ha sempre avuto, dal punto di vista energetico e agricolo, per l’economia nazionale. Ciò ha consentito ai kurdi di godere di un reddito superiore a quello del resto della popolazione.

Si è, quindi formata anche un’ élite benestante che ha oscillato tra la cooptazione nel sistema nazionale siriano e la realizzazione della aspirazioni nazionalistiche kurde.

Il Rojava si estende dall’estremo Est fino all’estremo Ovest della Siria. Si chiama così (“Ovest”) poiché è la parte occidentale del Kurdistan diviso fra quattro Stati: Turchia, Iraq, Iran e Siria. Occupa un’area di 19 mila Km2 distribuiti fra tre regioni: Jazira (Cirize), Kibane (Kobani) e Afrin.

Quella di Jazira possiede ampie riserve energetiche – petrolio e gas naturale – mentre Kobane ha un’importante produzione di cereali e cotone.

La regione di Afrin è nota per la produzione di olio d’oliva.

Il conseguimento, dopo il 2012, dell’autonomia di fatto ha elevato il livello del dibattito nel Rojava sulla realizzazione non solo di quella democrazia popolare progressista che suscita interesse in tutto il mondo, ma anche sul modello economico da realizzare.

L’”Economia Sociale”, come la chiamano molti che si affacciano nel Rojava, non è una semplice reazione alle difficoltà create dal capitalismo. L’economia sociale si può definire la realizzazione diretta e concreta delle teorizzazioni socialiste di Abdallah Ocalan.

La proprietà privata non è messa in discussione, almeno non dalla maggioranza delle forze in campo. Allo stesso modo, è una sfida al liberismo che domina nella regione mediorientale.

Con questo modello ancora in divenire nel Rojava, le autorità centrali siriane saranno chiamate a negoziare e a raggiungere un’intesa se e quando si aprirà una vera trattativa sul futuro della Siria, oltre i disegni delle potenze regionali e internazionali.

  1. I Kurdi in Turchia

Il Sud Est della Turchia a maggioranza kurda consiste in un’area che ha il 19% del territorio nazionale e ospita 13 milioni di abitanti.

Sebbene economicamente più depressa rispetto alle altre regioni, ospita risorse importanti e ha una posizione strategica a cui la Turchia e i suoi alleati non intendono rinunciare. Il bacino dei fiumi Tigri ed Eufrate da solo conta un terzo del potenziale dell’intero Paese.

L’importanza strategica è sintetizzabile nel Progetto per l’Anatolia sudorientale (in turco Gap) un piano di investimenti che riguarda agricoltura e irrigazione, infrastrutture rurali e urbane, gestione del patrimonio forestale.

Consiste di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici che potrebbero fornire al Paese il 23% del fabbisogno energetico. Il costo stimato del progetto si aggira intorno ai 32 miliardi di dollari.

E’ innegabile l’impatto sul territorio e sulla comunità kurda. La costruzione del sistema di dighe implica uno stravolgimento irreversibile dell’ambiente con conseguenze sulla biodiversità acquatica e i bacini fluviali. L’allagamento di intere vallate ha causato l’esodo forzato di migliaia di famiglie, in genere verso i maggiori centri urbani e la perdita di siti archeologici.

Il progetto prosegue con investimenti statali, mentre un’indagine del Progetto kurdo per i diritti umani ha stimato che verranno completamente allagati tra i 50 e i 68 villaggi rurali, mentre altri 57 verranno parzialmente allagati terreni, cambiando la vita di circa 25 mila abitanti della regione.

Le conseguenze del conflitto turco-kurdo hanno determinato profondi cambiamenti nella composizione sociale del Paese. La ricostruzione delle aree devastate, gestita direttamente dalla Stato attraverso espropri e procedure di emergenza avviene in un clima di violenza e assenza di concertazione che spinge a credere che questa asseconderà solo gli interessi del governo centrale a scapito della popolazione locale, con conseguenze decennali che difficilmente rappresenteranno un gesto di pacificazione.

***

Sulle guerre che la Turchia ha scatenato contro i kurdi, dopo la breve fase del “processo di negoziazione” iniziato nel 2012 e unilateralmente soppresso da Ankara dopo poco meno di 3 anni, l’ Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani presenta a Ginevra il 10 marzo un rapporto sulle “operazioni di sicurezza”  turche che tra il mese di luglio 2015 il dicembre 2016 nel solo Sud Est della sola Siria, hanno:

  • ucciso almeno 2 mila persone;
  • colpito più di 30 città e quartieri e sfollato tra 335.000 e mezzo milione di persone per lo più di origine kurda.

Altri dati, ma neppure questi esaustivi sebbene prosegua lo stato di emergenza dichiarato pochi giorni dopo il fallito Golpe del 15 luglio 2016 addebitato al movimento Hizmet dell’imam Gulan – già sostenitore del presidente turco e da anni riparato negli USA- si rilevano alla fine dello scorso febbraio con l’apertura dei numerosi processi in corso.

Nel processo più grande, a finire davanti alla Corte di Sincan sono 330 con richiesta di ergastolo con l’accusa di far parte dell’Hizmet, omicidio, tentato omicidio, tentativi di rovesciare le istituzioni statali e fra loro sono in arresto 245 persone molte delle quali erano membri della scuola per cadetti di Ankara.

Vi sono poi processi a: Mugla per 47 imputati; a Smirne 270, fra cui Fethullah Gulen (in contumacia).

Al momento, dalla campagna epurativa messa in atto dopo il 15 luglio emerge che: oltre 43 mila persone sono in stato di arresto, oltre 100 mila sono stati sospese o licenziate dal lavoro, dai ministeri, dalla polizia e dall’esercito accusati di contatti con Hizmet; e, come “effetti collaterali” che colpisce stampa, mondo accademico e l’intera comunità kurda, con l’accusa di legami con il PKK.

In breve, la quasi totalità delle città kurde in Turchia, Siria e Iraq subisce lunghi bombardamenti, mesi di assedio e devastazione delle infrastrutture.

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Il Kurdistan

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