Somalia: davvero un Paese senza speranze?

Somalia: davvero un Paese senza speranze?

Una curiosità: un giovanissimo Mohammad Siad Barre quando studiava a Firenze...parlava un ottimo italiano.

Una curiosità: un giovanissimo Mohammad Siad Barre quando studiava a Firenze…parlava un ottimo italiano.

La Somalia è in condizioni disperate…ai tempi di Siad Barre forse stava meglio…ma il passato è passato..nonostante la bandiera sventolasse su tutti gli edifici pubblici un tempo lontano non è mai stata una nazione, solo un territorio riconosciuto stato nazionale a piena sovranità dalla comunità internazionale. Nonostante gli sforzi che anche l’Italia ha fatto per questa regione….la situazione è quella che è. Ma qualche speranza vi può essere…l’articolo che segue le illustra.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

La Somalia, corno orientale dell’Africa, incastonata in un complicato scacchiere in continua evoluzione e con il triste primato di paese tra più poveri al mondo, da anni versa in uno stato d’agonia politica e sociale.

Sei milioni di somali hanno bisogno di aiuto, tre milioni soffrono la fame, quattrocentomila bimbi sono gravemente malnutriti.

Un Paese che si trascina tra un susseguirsi di crisi politiche, guerriglie, carestie ed emergenze umanitarie (pesantissima l’attuale), con un territorio dai confini labili difficili da controllare ed alla mercé dei gruppi terroristici.

Una fragilità territoriale che ha radici storiche, giacché per i somali il senso d’appartenenza ad uno Stato unitario è sempre stato precario per la presenza di un eterogeneo gruppo di etnie differenti, suddivise in clan e comandati da capi periodicamente alleati o in guerra tra loro.

Un popolo che da decenni ha conosciuto il fenomeno dell’emigrazione, vero e proprio strumento strategico di sopravvivenza.

Ecco perché è possibile oggi trovare delle nutrite comunità somale anche in Kenia, a Gibuti e nella regione dell’Ogaden in Etiopia.

Non dobbiamo dimenticare che per questi popoli le frontiere tracciate sulla carta dagli occidentali, che non corrispondono ad una reale demarcazione geografica ed etnica, asettiche e prive di rispetto per la storia e le tradizioni, non hanno un gran valore.

Tra i numerosi clan presenti in Somalia i più importanti sono gli Hawiye stanziati nel centro e nel sud del Paese, ma anche in Kenia e in Etiopia, e i Darod che popolano il nord, la Capitale Mogadiscio e alcune zone dell’Etiopia.

Il Gruppo degli Issaq e altri clan minori si spartiscono i restanti territori, soprattutto nella parte occidentale lungo il confine con Gibuti.

Il primo periodo post-coloniale per la Somalia è stato turbolento, ma ancor peggiore quello a partire dal 21 ottobre del 1969, data in cui il Generale Mohammed Siad Barre con un colpo di stato dà vita alla Repubblica Democratica Somala con matrice socialista.

Siad Barre viene deposto nel 1991 da Mohammed Farah Hassan Aidid; da allora inizia il dissolvimento della Somalia ed una lunghissima guerra che si trascina ancor oggi.

La continua decomposizione del tessuto sociale e politico ha cancellato ogni traccia di una Somalia intesa come un’unica entità, nata dalle ceneri del vecchio protettorato britannico e dell’ex colonia italiana ed è sfumata, almeno sino ad oggi, la possibilità di diventare un vero e proprio Stato con una sola lingua, etnia e religione, la musulmana sunnita.

I presupposti giuridici per una Somalia unita c’erano tutti ma ben presto sono svaniti lasciando spazio al caos, alle lotte tra i clan, alle guerre, alle dittature, alle carestie.

Rimane una Somalia smembrata (Somaliland, Puntland, Jubbaland) in cui il governo centrale fa fatica a controllare il proprio territorio, impegnato in una lotta su un doppio fronte: contro il terrorismo e contro le spinte secessionistiche nel Centro-Nord del Paese.

Il gruppo terroristico degli Shabaab continua ad attaccare l’esercito e la popolazione, anche se con minore intensità, ora confinato nelle zone rurali del sud del Paese a ridosso del Kenia.

Shabaab che, unitamente a moltissimi altri gruppi jihadisti tra cui al Qaeda, al Nusra, Boko Haram, Jamat Islamiya, Ansar Bait al Macdis ecc.., non devono essere intesi come semplici terroristi, bensì come dei combattenti che agiscono in funzione di una chiamata alle armi verso la terra del Califfato, aspiranti martiri nel rendere testimonianza a Dio e nella ricerca del miscredente, l’infedele.

Combattenti che, come possiamo ben vedere, sono disseminati non solo nei paesi roccaforte di un Islam radicale come l’Arabia Saudita, l’Afghanistan e il Pakistan, bensì in tutto il Medio Oriente ed oltre.

Gli Shabaab con scaltrezza in quest’anni hanno usato il sistema del bastone e della carota: un’alternanza dell’uso della violenza con azioni di sostegno economico (distribuzione di beni di prima necessità e di conforto), a favore della popolazione sempre più stremata e sfiduciata.

Un gruppo terroristico che, per certi versi, s’è trasformato in un garante dell’ordine sociale sostituendosi, di fatto, all’autorità centrale costituita, melliflua e il più delle volte inesistente.

Il ridimensionamento della pericolosità degli Shabaab è merito anche dell’azione di contrasto della missione militare Amison, anche se non sono mancate delle critiche sul modus operandi dei militari con casi di abuso di potere, di corruzione e di violenza fisica nei riguardi della popolazione.

Cosa fare per non considerare la Somalia uno Stato failed, irrecuperabile sulla scena internazionale?

Premesso che non sono sufficienti gli aiuti della Comunità Internazionale e il supporto militare, seppur rilevanti e, allo stato attuale, addirittura imprescindibili, è assolutamente necessario far ripartire il Paese attraverso il rilancio dell’economia e il superamento della stagnazione.

E’ altresì indispensabile una trasformazione positiva del grado di fiducia della popolazione civile nei riguardi delle autorità, oggi ai minimi termini.

Se non si sviluppa un maggiore senso di appartenenza a uno Stato e non si potenzia il rispetto verso le istituzioni, la situazione in Somalia è destinata a rimanere critica e a peggiorare.

Il futuro della Somalia, pertanto, è nelle mani del Governo e, soprattutto, del nuovo Presidente eletto lo scorso mese di febbraio, Mohamed Abdullahi Mohamed, che dovranno dar corso a sensibili riforme sociali ed economiche.

La prima riforma da adottare è proprio quella elettorale poiché il nuovo Presidente non è stato scelto direttamente dai cittadini, mancando un censimento della popolazione, bensì da delegati.

Il Paese ha l’impellente esigenza d’aprirsi agli investitori stranieri e di creare un terreno fertile per attrarre le opportunità, di migliorare il quadro giuridico/amministrativo, di ridurre la piaga della corruzione, di sviluppare il tessuto economico, d’incrementare il settore della sicurezza e della giustizia, di rafforzare la capacity building delle istituzioni.

Una Somalia che deve (ancora) imparare a far fruttare le risorse presenti sul proprio territorio.

Il settore zootecnico e agricolo della Somalia, in un territorio vasto quanto due volte l’Italia, che già oggi è uno dei più importanti a livello mondiale per l’allevamento di ovini, caprini e cammelli, ha margini di crescita e di sviluppo.

Così l’agricoltura con le piantagioni di banane e di canna da zucchero (quando non è funestata, come adesso, dalla siccità), oppure il settore ittico che può contare su tremila chilometri di coste ricche di pesce e crostacei di prima qualità.

Senza tralasciare le consistenti riserve petrolifere e di gas naturale, sia offshore sia onshore, e altri settori economici come l’edilizio, l’infrastrutturale, il terziario, le telecomunicazioni, l’energia rinnovabile e la green economy.

Per dare una speranza di rinascita alla Somalia, fatto salvo quanto su esposto, rimane imprescindibile una definitiva sconfitta degli Shabaab per liberare la popolazione dalla morsa del terrore e per poter implementare la stabilità sociale e politica.

©www.osservatorioanalitico.com – Riproduzione riservata

 mapsomalia

Comments are closed.