PAESI DEL GOLFO. LA SITUAZIONE. Il ruolo dell’Arabia Saudita.

PAESI DEL GOLFO. LA SITUAZIONE. Il ruolo dell’Arabia Saudita.

Ahmad Mansour

Ahmad Mansour

Continuando a occuparci della situazione in Medio Oriente, dobbiamo notare che molto ribolle negli Emirati ma sulla stampa cartacea se ne parla poco. Siamo troppo occupati in vicende politiche interne per vedere quel che accade altrove. Anche i notiziari della televisione sono latitanti in questo senso. Occorre andare a vedere BBC, Al Jazeera, Cnn per saperne qualcosa di più. Dunque: quali avvenimenti accadono negli Emirati che pure hanno una notevole influenza su quel che succede nel mondo arabo musulmano? Un aggiornamento del nostro esperto per avere un panorama più chiaro della situazione. Perché Trump ha escluso i cittadini sauditi dal suo bando anti musulmani?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

1.L’Agenzia emiratina Wam, il 20 marzo rivela che ad Abu Dhabi è posto in stato di fermo Ahmad Mansour, accusato di diffamare l’ “EAU” (Emirati Arabi Uniti) su Twitter e Facebook pubblicando “false informazioni sul Paese danneggiandone così la reputazione all’estero e incoraggiando il settarismo all’interno”.

Arrestato nella sua casa nell’emirato di Ajman, Mansour è noto per aver ricevuto nel 2016 il premio Martin Ennals dopo aver denunciato arresti arbitrari, casi di tortura e mancanza di indipendenza dell’apparato giudiziario nel suo Paese.

2.Lo stesso giorno, nel vicino Bahrein, l’Istituto per i diritti e la democrazia comunica l’arresto dell’attivista Ebrahim Sharif, accusato di “istigazione all’odio” contro il governo.

Sharif è l’ex leader del partito Waad, un partito politico laico e di sinistra impegnato nella critica del governo che, dal suo canto, non ha mai nascosto l’intenzione di voler sciogliere quel partito.

Nel Paese, a maggioranza sciita, è continua la repressione del dissenso nei confronti della monarchia sunnita. All’inizio del mese, il parlamento approva un cambiamento costituzionale che permetterà alle corti militari di processare i civili.

In realtà, la recente impennata repressiva si registra dal giugno 2016: in due settimane è revocata la nazionalità alla più importante guida religiosa sciita, Shakh Isa Qassim; è bandito il principale partito di opposizione, Al-Wefaak; è arrestato il noto attivista dei diritti umani, Nabeel Rajab; è costretta all’esilio la dissidente Zeinab al-Khawajah con la minaccia di un altro arresto per un periodo di tempo indefinito. Inoltre, anche Alì Salman, leader di al-Wefaaq, è in prigione per scontare una pena di nove anni.

Contestualmente alla crescente repressione, aumentano gli attacchi contro le locali forze di sicurezza rivendicati per lo più da sciiti. In merito, il governo accusa la Guardia rivoluzionaria iraniana di aver addestrato e armato gli oppositori.

Sono in difficoltà anche i lavoratori stranieri impiegati in Arabia Saudita la quale, sempre il giorno 20, inizia a chiedere alle compagnie locali di assumere cittadini sauditi.

La nuova politica della dinastia Saud si inserisce nel programma di riforme lanciate nel 2016 per abbassare il tasso di disoccupazione tra i sudditi e portarlo dall’attuale 12,1% al 9% entro il 2020.

Con il nuovo provvedimento, preparato sin dal 2011 e noto come “Nitaqat”, il ministro del lavoro valuterà le aziende in base alla percentuale di sauditi impiegati come forza lavoro, senza considerare che oltre 12 milioni di stranieri si troveranno dall’oggi al domani senza lavoro.

3.Il rapporto dell’organizzazione umanitaria Reprieve rivela che la monarchia saudita ha giustiziato nel 2016 almeno 150 persone, dati che eguagliano quelli del 2015 quando le persone giustiziate sono state 158 e confermano il trend in crescita nell’uso della pena capitale atteso che nel 2014 i condannati a morte furono 87.

Il rapporto non si ferma all’Arabia Saudita e denuncia l’ampio uso che si fa della pena di morte in molti Stati del Golfo.

Il Kuwait sta abbassando l’età “legale” per eseguire la sentenza a morte pur se – secondo Reprieve – molti condannati sono considerati dalle autorità locali casi di “sicurezza nazionale” e molte vittime della pena di morte sono dissidenti politici e anche detenuti che hanno confessato i reati sotto tortura. A costoro si affiancano anche tanti “trafficanti di droga” giustiziati.

Rimane, inoltre, preoccupante la situazione di giovani e minorenni sui quali pende la sentenza capitale come nei casi – indicati da Reprieve – di Alì an-Nimr, Davud al- Marhon e Abdillah as-Zaher, arrestati per avere partecipato alle proteste contro la monarchia.

Vicende che hanno ampia eco in Inghilterra con l’intervenuto in merito dell’allora premier Cameron, di cui i sauditi non hanno tenuto alcun conto.

Peraltro, nelle stesse ore in cui viene pubblicato il rapporto di Reprieve, il segretario di Stato USA, John Kerry, incontra nella capitale del regno il re Salman e il principe ereditario Mohammed bin Nayef con l’obiettivo di riprendere il processo di pacificazione nello Yemen e discutere della situazione umanitaria in cui versa quel Paese.

Al vertice partecipano anche EAU – in prima fila nella guerra yemenita – e Oman che, a differenza degli altri Stati del Golfo, è un partner moderato e pronto al compromesso fra le parti.

Al termine del vertice, il ministro degli esteri saudita, Adelal-Jubeir, senza mai entrare nel merito della discussione, smentisce le notizie secondo le quali gli USA avrebbero smesso di rifornire di armi la monarchia in segno di protesta per i suoi bombardamenti in Yemen.

In realtà, oltre ai sauditi, sono tanti i Paesi europei che consegnano ai sauditi nuove e avanzate tecnologie di guerra.

Emerge dal quotidiano Guardian che un’indagine interna compiuta dal governo britannico svela come il segretario britannico alla difesa, Micheal Fallon, fosse a conoscenza dell’uso da parte della coalizione saudita di “cluster bomb” in Yemen, come confermerà più tardi Amnesty International.

In questo caos traggono vantaggio i gruppi jihadisti che hanno già preso possesso di ampie zone del territorio nell’Est del Paese.

A dicembre 2016, per esempio, un attentatore suicida si fa esplodere vicino a un campo militare nella città meridionale di Aden (la “capitale temporale” del governo Hadi, pupillo dei sauditi), uccidendo 53 soldati e ferendo 63 persone.

L’azione è rivendicata da Daesh sulla loro Agenzia Aamaq. Nello stesso mese e nella stessa base, un’esplosione simile aveva causato l’uccisione di altri 57 militari.

Un sintetico passo indietro per comprendere il presente.

Fondato nel 1744, il primo Stato saudita si lega allo studioso islamico Muhammad ibn Abd al- Wahhabi e ai suoi discendenti, che mantengono una lettura rigida del Corano riferentesi a Muhammad Muhammad (Maometto) nato a Mecca nel 570 d.c. e ai suoi primi e diretti fedeli.

E l’Arabia Saudita è tuttora con i wahhabiti per il patto stabilito sin dall’inizio dei rapporti: il governo ha il potere senza intromissioni con la religione; i wahhabiti rispetteranno il Governo purché non violi le norme religiose il cui rispetto è di loro esclusiva competenza secondo l’interpretazione scritta da Maometto del periodo della Mecca e i suoi successivi “Hedit” (dichiarazioni orali, scritte dai suoi più vicini fedeli).

Dopo un lungo periodo di guerre contro i Paesi contermini, il discendente della famiglia Saud, Al- Aziz al-Saud, governatore del Sultanato di Najad, nel 1926 fonda il Regno Arabo Saudita dopo l’annessione al Sultanato del Regno Hashemita dell’Hijaz.

Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar, acquistata l’indipendenza nel 1971, dieci anni dopo si riuniscono con l’Arabia Saudita nel Consiglio di Cooperazione del Golfo, giustamente a guida saudita. Attualmente, è il vice principe ereditario e ministro della difesa dell’Arabia Saudita è Mohammed bin Salam, 31 enne.

Il principe, favorito alla successione del regno alla morte del padre 81 enne (salito al trono nel gennaio 2015), decide nel marzo 2015 l’intervento militare nello Yemen, dove era in corso lo scontro fra il presidente Abd Rabby Mansour Hadi – pupillo di Riyadh – e gli oppositori sciiti Houthi.

Alla guida di una coalizione (EAU, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan Kuwait, Bahrein, Qatar, Pakistan) e con l’appoggio militare/diplomatico USA), l’Arabia Saudita inizia un massiccio intervento militare con una campagna di bombardamenti aerei e un bilancio che finora conta 12 mila morti – la metà dei quali civili – e 42 mila feriti gravi, 3 milioni di sfollati, 19 milioni (dei 21 nel Paese) senza cibo, 7 milioni a rischio immediato di carestia, oltre 2 milioni di bambini che soffrono di malnutrizione e 462 mila gravemente malnutriti.

Amnesty International rivela che U.K. e USA hanno fornito all’Arabia Saudita armamenti per oltre 5 miliardi di dollari, 10 volte quanto hanno stanziato per spese umanitarie.

Le armi sono usate per stragi di civili, bombardamenti di ospedali, cliniche e scuole, raid contro infrastrutture, mercati, moschee, zone residenziali e siti archeologici di estremo valore. Il Paese è distrutto.

Gli Houthi controllano ancora la capitale Sana’a mentre Hadi – rifugiato ad Aden (la ”capitale provvisoria”) nel Sud – non è ancora in grado di rientrare.

L’altro intervento del vice principe è il sostegno ai ribelli siriani nella guerra che riteneva potesse concludersi in pochi mesi e che invece dura ormai da 6 anni. Attualmente, l’esercito siriano, con l’aiuto di forze speciali iraniane e libanesi di Hezb’Allah e della Russia, ha riconquistato tutte le principali città del Paese e consolida il presidente Bashar al-Assad.

E’ fallito anche il progetto di bin Salam di ripristinare il dominio saudita sui mercati petroliferi mondiali ritenendo di poter mandare in bancarotta sia i russi sia i produttori statunitensi che estraggono petrolio dalle rocce con il metodo del “fracking”.

Il raddoppio della produzione petrolifera USA e l’eccesso di offerta abbassa il costo del petrolio.

Ma il principe calcola che i produttori statunitensi (e russi, in Siberia), i cui costi di estrazione sono più alti di quelli sauditi, sarebbero falliti se il prezzo del petrolio fosse rimasto basso a lungo, per cui l’Arabia Saudita mantiene alta la sua produzione convincendo l’ “Organizzazione dei Paesi esportatori” (Opec), a fare lo stesso.

In realtà, negli ultimi due anni il prezzo del petrolio scende diverse volte sotto i 30 dollari al barile, i “fracker” statunitensi sospendono temporaneamente le loro operazioni meno redditizie, in parte frena anche la Russia e nel frattempo l’Arabia Saudita perde circa cento miliardi di dollari all’anno di riserve monetarie per mantenere servizi e sussidi per lo Stato e la Corte.

A novembre 2016, Arabia Saudita e Opec realizzano il danno e tagliano la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno, mentre Russia e Kazakistan contribuiscono con un altro mezzo milione di barili in meno al giorno, facendo risalire il prezzo del petrolio a 55 dollari al barile.

Le entrate dell’Arabia Saudita migliorano e le tensioni politiche interne legate ai tagli di stipendi e sussidi si allentano.

D’interesse è il decreto presidenziale USA “Muslim Ban”, che continua a far discutere dentro e fuori i confini nazionali.

La stampa statunitense analizza due aspetti: il primo riguarda la legittimità di un decreto “razzista e discriminatorio” nei confronti di cittadini di Paesi considerati “scomodi” e “pericolosi”; il secondo è il criterio della scelta dei Paesi e l’esclusione di uno Stato come l’Arabia Saudita.

Il decreto, infatti, che mira a combattere l’ingresso di terroristi “camuffati da rifugiati” non prende in considerazione il regno dei Saud, talvolta vicino al Jihadismo globale (da Al Qaeda a Daesh).

Negli attentati dell’11 settembre 2001, su 19 dirottatori 15 provenivano dall’Arabia Saudita.

E, dopo la pubblicazione dei dossier secretati per 15 anni dall’amministrazione del presidente George W. Bush e pubblicati nel luglio 2016, sono emerse responsabilità dirette di diplomatici sauditi e i loro legami con Al Qaeda.

La Cnn evidenzia come sia anomalo il fatto di aver presentato una legge contro “gli immigrati rifugiati per favorire la sicurezza nazionale” quando “gli attentati di San Bernardino, Orlando, Boston e New York sono stati compiuti non da rifugiati ma da immigrati con altro status”. Nella strage di San Bernardino, ad esempio, i due attentatori di origini pakistani “ si erano sposati e radicalizzati proprio in Arabia Saudita”.

Il quotidiano inglese The Guardian aggiunge che lo stesso Trump in campagna elettorale aveva dichiarato di voler “irrigidire i rapporti con i sauditi” e di “voler applicare la legge Jasta”, norma che riguarda la richiesta di risarcimento contro l’Arabia Saudita per le migliaia di vittime dell’11 settembre.

Dopo la pubblicazione della legge, invece, Trump, cambia radicalmente l’opinione a seguito di una conversazione telefonica con il re saudita Salman bin Abdel Aziz.

In merito agli obiettivi del bando e a quelli dell’amministrazione americana nella regione, Trump conferma il pieno sostegno ai suoi principali alleati nell’area mediorientale: Israele e Arabia Saudita.

Secondo il quotidiano indipendente arabo Ray Al Youm, infatti, Riyadh riceve messaggi rassicuranti “ per la mancata applicazione della legge Jasta e per la ripresa di rapporti amichevoli”, dopo un periodo di relative tensioni con l’amministrazione Obama.

Alleanza rinsaldata dal “Muslim Ban” che va direttamente a colpire il principale nemico di Riyadh e Tel Aviv: l’Iran.

E non a caso l’Arabia Saudita stringe ufficialmente un’alleanza ufficiale con Israele e si impegna a convincere tutti i Paesi sunniti della Lega Araba a iniziare le relazioni con Israele e non vederlo più come nemico ma come alleato leale.

Occorre, per completezza di dati e situazioni sul terreno che il ruolo dell’Arabia Saudita è stato ed è tuttora quello di insostituibile leader del CCG, per la lunga esperienza, la capacità direttiva, l’eccellente intelligence facendo da volano alla crescita economica e alle importanti relazioni diplomatiche di tutti i Paesi del CCG.

Per quanto riguarda le guerre in corso in Yemen e Siria non vanno dimenticate quelle di USA e Stati occidentali in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Mali.

D’obbedienza wahhabita, l’Arabia Saudita, come altri Stati, dall’Iran agli USA, utilizza la pena capitale e ha una struttura socio-economica caratterizzata dalla divisione tra un’élite ricca e un ceto sociale medio-basso in sofferenza.

Il livello della leadership saudita è riconosciuto anche dal segretario per la sicurezza nazionale statunitense, John Kelly, dopo il rinnovato rapporto di reciproca alleanza.

In merito all’esclusione della monarchia saudita dal bando, afferma che “la principale motivazione è che il Paese saudita ha una buona intelligence e buone forze dell’ordine che collaborano con Washington”.

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