La pace in Medio Oriente è sempre più in salita. La politica di Israele e quella di Hamas, con l’incognita della nuova presidenza USA. Sulla prima visita di Netanyahu a Trump si è ancora compreso poco…non sarebbero necessari due Stati?Alla vigilia della visita questa era la situazione di fatto, anche con la riunione di Parigi del gennaio.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
Il 15 gennaio a Parigi i rappresentanti di oltre 70 Paesi si riuniscono per discutere la possibilità di rilanciare la soluzione dei “due Stati” e porre termine al conflitto fra Israele e “Autorità Nazionale Palestinese” (ANP).
Contestualmente in Israele il deputato del Likud, Yoav Kisch, espone il suo programma di pace: fine degli Accordi di Oslo del 1993; scioglimento dell’ANP; controllo israeliano permanente su gran parte dei territori conquistati con la guerra del 1967; autonomia palestinese senza sovranità sul 39% della Cisgiordania.
Kisch spiega che il piano è l’unico per ”evitare la creazione di uno Stato terrorista nel cuore della nostra terra e consentire a Israele di preservare il suo carattere speciale di Stato ebraico e democratico”.
Progetto ritenuto accettabile dalla destra israeliana e da alcuni partiti di opposizione, come i laburisti di Isacc Herzòg, che chiedono anche la “separazione totale dai palestinesi”.
La sera dello stesso giorno, la Conferenza francese si rivela un fallimento che il premier israeliano Benjamin Netanyahu accoglie con soddisfazione avendola bocciata sin dall’inizio e definita una sorta di secondo “Processo Dreyfus”.
Di fatto, il documento della Conferenza, preparato dal ministro degli esteri francese Jean Marc Ayrault, si limita a esortare le parti a evitare mosse unilaterali e non cita i rappresentanti arabi che chiedevano un accenno di censura al presidente americano Donald Trump, intenzionato a trasferire l’ambasciata USA Gerusalemme.
Sul punto, Ayrault si limita a dire che portare a Gerusalemme l’ambasciata americana “sarebbe una decisione molto gravida di conseguenze e una provocazione”.
Mentre il presidente palestinese Abu Mazen e i suoi collaboratori parlano di successo, una settimana dopo la Conferenza francese, il Comune di Gerusalemme autorizza la costruzione di 566 abitazioni nelle colonie ebraiche nella zona orientale della città occupata nella guerra del giugno 1967.
Il giorno successivo, il governo israeliano dà inizio a progetti per costruire 2.550 case in vari insediamenti nella Cisgiordania. Il ministro della difesa Lieberman dichiara che le nuove case saranno costruite nei principali blocchi di colonie già esistenti.
Poco più di 900 appartamenti, quasi pronti, saranno messi in vendita negli insediamenti di Alfei Menashe, Beitar Illit, Maale Adumin, Ariel, Efrat ed Elkana e soprattutto a Givat Zeev (552), tra Ramallah e Gerusalemme Est.
Il Comitato per la pianificazione avvierà la fase di progettazione e realizzazione di altri 1.642 alloggi a Ets Efraim, Givat Ze’ef, Kohav Yaakon, Har Gillo, Zufim, Oranit, Shaarei Tikva, Beit El e ad Ariel, seconda colonia per grandezza (899 nuove case). Ma Yesha, che riunisce l’amministrazione delle colonie in Cisgiordania, dichiara la sua delusione perché le autorizzazioni “non coprono la domanda”.
Insomma, “il governo americano è cambiato… e il governo israeliano deve approvare tutti i progetti sul tavolo e autorizzare nuove costruzioni ovunque, in Giudea, Samaria e Valle del Giordano”.
Dal lato palestinese, Nabil Abu Rudeinah, portavoce di Abu Mazen, dichiara che “Israele si fa beffe della comunità internazionale e fomenta l’estremismo”.
L’analista Ghassan Khatib aggiunge che “ l’ANP dovrebbe lanciare iniziative diplomatiche sulla base della recente Risoluzione 2334/16, rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e chiedere la sospensione di Israele dall’ONU se Netanyahu non cesserà gli attacchi alla legalità internazionale”.
Poco dopo la Conferenza di Parigi, la notizia arrivata da Mosca in merito al governo di unità nazionale lascia senza parole il popolo palestinese.
I recenti sviluppi locali, regionali e globali incrementano la pressione sulla leadership a essere più reattiva nei confronti delle aspettative del popolo.
Intanto, Fatah e l’ANP in Cisgiordania devono affrontare tre sfide: l’intenzione del presidente USA di trasferire l’ambasciata statunitense a Gerusalemme; la crescente popolarità della strategia di annessione tra i leader israeliani che fanno presagire un’altra “Nakba” (Disastro) come quella del 1948; i tentativi disperati della leadership palestinese di seguire il sentiero del negoziato con Israele dopo la fallita Conferenza di Pace di Parigi del 15 gennaio.
Nonostante ciò, i leader politici palestinesi si sentono obbligati a mostrare una reazione ai cambiamenti regionali e al nuovo ordine mondiale, specialmente di fronte al fatto che oggi la riconciliazione intra-palestinese è divenuta una questione regionale.
La riemersione della Russia come attore centrale della sfera politica palestinese è indicativa di questo nuovo ordine mondiale. La dichiarazione di Mosca sulla formazione di un governo di unità palestinese è stata il risultato di incontri intensi il mese scorso a Daha, Montreux in Svizzera, il Cairo, Libano e infine Mosca. Questa serie di incontri ha contribuito a far emergere il “momento maturo” a Mosca e mentre Mosca raccoglie il frutto, i semi erano stati piantati anche altrove, compresa la Palestina occupata.
Gli incontri, in particolare quelli con la società civile a Montreux, hanno mostrato il consenso tra le leadership delle fazioni politiche palestinesi, compresa Hamas, a formare un governo di unità.
Un governo che si prefigura come politico e non tecnico e che sarebbe responsabile di raggiungere tre obiettivi: unificare le istituzioni del settore pubblico tra Gaza e Ramallah; affrontare la questione urgente della sicurezza palestinese, l’elettricità e la ricostruzione di Gaza; preparare le elezioni presidenziali, locali e parlamentari.
Insomma un governo che deve superare almeno un paio di ostacoli nel breve periodo: ottenere il placet del presidente Mahmoud Abbas; affrontare la comunità internazionale e le pressioni israeliane. In realtà non è chiaro se Abbas darà il via libera all’implementazione degli accordi presi a Mosca o continuerà a insistere perché questo sia un “governo del presidente”, obbligato a portare avanti il suo programma politico ma fallimentare e la sua visione. E’ vero anche, però, che oggi Abbas si trova sotto l’enorme pressione di venire a un compromesso e affrontare la realtà dell’era-Trump con un fronte palestinese più forte.
Inoltre, Azzam al-Ahmad, capo della delegazione di Fatah nel dialogo con Hamas, ha menzionato più volte il mese scorso – più recentemente a Mosca – che interromperanno tutte le relazioni con il Quartetto per il Medio Oriente (istituito in Spagna nel 2002, durante la seconda intifada palestinese, che raggruppa Nazioni Unite, Unione Europea, Gran Bretagna, Russia e USA), come corpo politico.
Perché contro il Quartetto?
A fine luglio 2016, il Quartetto per il Medio Oriente, pubblica un Rapporto che chiede alle leadership palestinesi e israeliane di adottare misure per salvaguardare il percorso della soluzione a due Stati. Ma la lettura critica di quel Rapporto distorce la realtà che è stata il marchio delle istituzioni internazionali come lo stesso Quartetto, cioè il radicamento di uno status quo di ingiustizia, occupazione militare e violenza.
La principale premessa del Rapporto è che “il terrorismo palestinese e l’incitamento alla violenza” sono da considerare responsabili dell’insicurezza israeliana e dello stallo politico.
Il Rapporto costruisce la sua analisi sulla base di assunzioni false e non plausibili. Ad esempio, assume che Netanyahu sostiene l’obiettivo di due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza e che la maggioranza dei due popoli supporta anche la soluzione dei due Stati. In realtà, lo scorso anno, alla vigilia delle elezioni israeliane, Netanyahu dice “no a uno Stato palestinese” e in quelle elezioni l’elettorato israeliano vota per sette membri della Knesset che si oppongono a tale soluzione.
Nel maggio 2016, il premier israeliano rigetta l’iniziativa di pace francese che si basa sulla soluzione a due Stati e un mese dopo annuncia una nuova espansione coloniale nella Cisgiordania occupata, un progetto di colonizzazione che rende tale soluzione impossibile.
Per quanto riguarda gli israeliani, una recente ricerca del “Pew Research Center” mostra che la maggioranza – il 62% – di quelli che si dichiarano politicamente a destra ritiene che la soluzione a due Stati sia impossibile.
E i palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania da quasi cinquanta anni sotto occupazione israeliana hanno perso anche la speranza. Secondo uno studio del giugno 2016 del “Palestinian Center for Policy and Survey Research” solo il 29% pensa che l’iniziativa francese avrà successo, il 56% sostiene l’abbandono degli Accordi di Oslo e il 57% crede che la soluzione a due Stati non sia più fattibile e, per quanto riguarda i sei milioni di palestinesi nei campi profughi e in esilio, nessuno li ha consultati sulla questione.
Le visioni del Quartetto sono false anche per quanto riguarda la questione dell’incitamento alla violenza. Infatti, i quattro paragrafi del Rapporto del Quartetto sono dedicati a parlare dell’incitamento alla violenza palestinese e uno solo al lato israeliano, nella chiara assenza di neutralità.
Il costante incitamento razzista, fondamentalista e violento israeliano non è quasi notato dai funzionari del Quartetto e ciò non è dovuto a mancanza di prove, ma a un disegno metodologico e all’assenza di volontà politica di rendere Israele e la sua leadership responsabili.
Lo stesso Quartetto afferma che l’armamento illegale di Hamas e la sue attività militari sono da considerare le ragioni del fallimento della soluzione a due Stati.
Perché non ci sono prove sul fatto che Israele ha lanciato quattro grandi campagne militari con bombardamenti da cielo, mare e terra contro Gaza, devastando l’intera Striscia e devastando moschee, scuole, centri dell’UNWRA, abitazioni, campi con un altissimo numeri di vittime anche civili?
Il Quartetto dovrebbe prendere seriamente le dichiarazioni di Jimmy Carter e Mary Robinson sulla necessità di riconoscere Hamas come attore politico legittimo e capire che Hamas è interessato a una pace duratura.
Il Rapporto parla anche della terribile situazione umanitaria a Gaza e dell’assedio politico di due milioni di persone in un modo così apolitico da negare la costruzione politica di tale “crisi umanitaria” e, quindi, la complicità della comunità internazionale nel sostenerla. Il Rapporto lamenta la mancanza di unità palestinese e la considera un altro fattore che contribuisce al fallimento della soluzione a due Stati.
E’ surreale visto che sono stati il Quartetto e la comunità internazionale a promuoverla, negando i risultati delle elezioni democratiche palestinesi di dieci anni fa, mentre il Quartetto non riconosce che l’espansione coloniale rappresenta una chiara violazione del diritto internazionale e che potrebbe essere considerato crimine di guerra.
L’approccio del Quartetto e la sua distorta interpretazione delle realtà non avvicinerà alla pace. La renderà impossibile.
Hamas, da parte sua, annuncia durante il meeting di Montreux di avere completato la sua nuova carta, dopo essere passata attraverso la sua struttura interna. Questo cambiamento mostra la trasformazione che il movimento islamico ha vissuto nell’ultimo decennio, per lo più dovuto alle dinamiche regionali, e che dovrebbe essere saggiamente usata dalla comunità internazionale. Ma in mancanza di effettivi meccanismi di responsabilizzazione, il popolo palestinese è comprensibilmente scettico riguardo una riconciliazione – dejà vù. Il percorso dell’unità palestinese è chiaro, ma richiede una volontà politica forte e spirito di sacrificio.
Gli incontri del mese scorso hanno fornito un’occasione d’oro ai leader politici palestinesi per disegnare una nuova realtà.
La domanda resta: coglieranno stavolta questa opportunità?
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